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L’epidemia occidentale

Epidemia e caduta
Aldous, 3 dicembre 2022

Il disastro dell’esistenza e la gloria di dominarla stanno al cuore de La Chute (La caduta) di Albert Camus: «Le jour venait doucement éclairer ce désastre et je m’élevais, immobile, dans un matin de gloire».
Probabilmente oggi – negli anni Venti del XXI secolo, gli anni dell’epidemia occidentale – è arrivato il momento che Camus nel 1956 chiamava il futuro della sottomissione felice: «L’esclavage n’est pas pour demain. Ce sera un des bienfaits de l’avenir». La schiavitù è in effetti diventata per molti un beneficio, una benedizione, un’agognata espressione di sicurezza e salute.
E tuttavia la gloria, la luce, la salvezza sono lo spazio della filosofia mediterranea, lo slargo del nostro essere, del nostro pensare. Specialmente ora che le forme del fanatismo e della tirannide sanitaria cercano di imporre l’oscurità e l’oblio sui propri crimini.

Green Time

In Time
di Andrew Niccol
USA, 2011
Con: Justin Timberlake (Will Salas), Cillian Murphy (Timekeeper Raymond Leon), Amanda Seyfried (Sylvia Weis), Vincent Kartheiser (Philippe Weis), Alex Pettyfer (Fortis)
Trailer del film

«Le presento mia suocera, mia moglie e mia figlia». Le tre donne appaiono tutte giovani, coetanee. L’evoluzione biologica dei loro corpi si è infatti fermata a 25 anni di età. Da quel momento in poi tutti gli esseri umani sono geneticamente programmati per non invecchiare più ma hanno a disposizione soltanto un altro anno di vita. Possono allungare questo periodo attraverso il lavoro o il gioco d’azzardo o il furto. C’è chi ha soltanto poche ore di vita, e prima o poi tutti si «azzerano», c’è chi possiede degli anni e chi secoli o millenni. Tutti però appaiono della stessa età.
I più ricchi di tempo, e quindi di tutto, abitano in quartieri esclusivi e super protetti. Le masse abitano in dei ghetti nei quali si vive «alla giornata», letteralmente. E dove violenza, disperazione e morte accadono di continuo. Altrove sembra che si viva per sempre. Ma, afferma uno dei personaggi, «è la breve vita di molti a rendere possibile l’immortalità dei pochi; per pochi immortali la maggioranza deve morire». Una struttura biopolitica come questa necessita naturalmente di una divisione sociale profonda e di un implacabile controllo sui corpimente delle persone. Ciascuno ha infatti tatuato sul proprio braccio il tempo che gli rimane da vivere, che può crescere – quando viene retribuito, vince o gli viene dato in dono – o può diminuire – quando compra qualcosa, perde o viene derubato. Si tratta di un tatuaggio di colore verde, un autentico Green Pass che permette o impedisce lo svolgimento di determinate attività, l’accesso a certi luoghi, il possesso di alcuni beni e, alla fine, la vita stessa e la morte.
L’idea iniziale del film è eccellente e intrigante. La realizzazione, invece, evita le questioni filosofiche poste da un sistema sociale siffatto. Ed evita sostanzialmente anche le questioni politiche, riducendole al consueto conflitto tra i buoni e i cattivi. I poveri di tempo corrono sempre e il film corre con loro tra inseguimenti, sparatorie, prevedibili sviluppi.
Peccato davvero. Anche perché qualche anno prima Andrew Niccol era riuscito ad affrontare il racconto di una analoga distopia in modo assai diverso, sobrio, teoreticamente consapevole. Nel 1997 aveva infatti girato Gattaca, titolo che deriva dalla combinazione delle lettere iniziali delle quattro basi azotate che compongono il DNA, l’adenina, la citosina, la timina e la guanina. Ispirato in parte al Mondo nuovo di Aldous Huxley, il film è ambientato in  un futuro imprecisato ma non troppo lontano, dove l’identità di ogni essere umano è certificata dal suo codice genetico: basta un capello, una goccia di sangue, una parte anche piccolissima del materiale organico per conoscere tutto di un uomo. In questo mondo l’élite è composta da coloro il cui DNA è stato programmato a tavolino. Chi invece continua a nascere in modo tradizionale, attraverso il coito, è un non-valido (invalid).
Gattaca è un mondo dove il controllo sul DNA è dunque totale. In Time è un mondo dove il controllo del tempo è altrettanto totale. In entrambe le società delle oligarchie politiche e tecno-scientifiche sfiorano l’immortalità mentre la morte di tutti gli altri è programmata e realizzata con interventi sui loro corpi e sul loro tempo.
Avevo già visto e recensito questo film nel 2012. Ho avuto occasione di rivederlo e ho voluto scriverne ancora, alla luce di molti aspetti del nostro recente passato e del presente.

Sul limite

Le società umane abitano spesso nel paradosso. Paradossi a volte innocui ma altre, invece, assai pericolosi. Un caso che rientra nella seconda fattispecie è quello dell’odio. Si emanano leggi e si istituiscono persino commissioni contro l’odio ma esse stesse, leggi e commissioni, sono e diventano strumenti d’odio contro i presunti odiatori. Si scatenano così vere e proprie campagne di propaganda rivolte a calunniare e a criminalizzare chi non la pensa allo stesso modo degli autodefinitisi nemici dell’odio. Le vittime preferite di tale odio sono populisti, sovranisti, ‘ecologisti profondi’, e tutti coloro che richiamano il limite senza il rispetto del quale le società semplicemente si dissolvono.
Due esempi di ignoranza del limite riguardano entrambi la popolazione umana e il suo crescere a dismisura.

Il primo caso concerne la questione fondamentale del presente, che però emerge di rado e viene pochissimo discussa, la questione demografica:
«Aujourd’hui, avec plus de 250.000 naissances par jour, on a dépassé les 7,7 milliards. Pour la fin du siècle, les estimations moyennes tournent autour de douze milliards, les estimations hautes autour de seize milliards. […] Pas plus qu’il ne peut y avoir de croissance matérielle infinie dans un espace fini, la population ne peut s’accroître indéfiniment sur une étendue limitée. Malheureusement, nous sommes à une époque qui ne supporte pas les limites. […] le laisser-faire nataliste est aujourd’hui irresponsable, et le ” respect de la vie ” ne saurait s’étendre à ceux qui ne sont pas encore conçus»
‘Con oltre 250.000 nascite al giorno, si sono superati i 7,7 miliardi [di umani]. Per fine secolo le stime medie ruotano sui 12 miliardi, le più alte sui 16 ma come non può esserci una crescita materiale infinita in uno spazio finito, la popolazione non può crescere indefinitamente su un’estensione limitata. Purtroppo siamo in un’epoca che non sopporta limiti. […] Oltre l’80% dell’intera biomassa prodotta annualmente nel mondo è già sfruttata. […] Il lasciar fare natalista è oggi irresponsabile e il ‘rispetto della vita’ non può essere esteso a chi non è stato ancora concepito’
(Alain de Benoist, Boulevard Voltaire, 25.1.2020 ; cfr. anche il mio Nascere?).
Il climatologo Luca Mercalli, intervistato da Carlotta Pedrazzini su A Rivista anarchica, conferma che «è più facile cambiare il sistema pensionistico piuttosto che le leggi della termodinamica, eppure questa cosa non riusciamo a capirla. Le leggi fisiche, a differenza dei sistemi pensionistici, sono invarianti, sono così da miliardi di anni e non cambiano secondo i desideri umani. […]
I tre indicatori a cui guardare quando si affronta questo tema sono: risorse disponibili, numero di esseri umani e livello di vita di questi esseri umani. È giusto rendere il mondo più sostenibile con l’economia circolare, facendosi aiutare dalla tecnologia, ma dobbiamo tenere conto che se si vuole stare bene e assicurare a tutti un alto livello di benessere, dovremmo essere 2 miliardi. Invece siamo 8. Perché? Chi ci ordina di continuare a essere sempre di più? […]
Se non inizieremo a mettere in relazione l’aumento demografico e la crisi ambientale, le disposizioni autoritarie arriveranno sicuramente. Lo dimostra l’attuale emergenza sanitaria legata al coronavirus. Non si stanno forse prendendo misure autoritarie? Però le persone con la strizza stanno zitte e le accettano, accettano che si blindino paesi e che si metta la polizia alle porte, ma ci rendiamo conto che si tratta di un coprifuoco che non si vedeva dal 1945? Qualcuno, per caso, ha sollevato il problema della libertà? Quando i problemi ambientali diventeranno pari a quelli oggi percepiti per il coronavirus o peggio, verranno fatte scelte autoritarie. Al contrario, la riduzione della popolazione raggiunta attraverso l’educazione sessuale è una disposizione democratica» (Più siamo peggio è, A Rivista anarchica 442, aprile 2020, pp. 52-55).

Il secondo caso riguarda una delle più profonde cause di violenza e di conflitti, quello che nasce dall’ignorare e dal violare «una delle leggi fondamentali della politica, valida in ogni tempo e luogo e implicita nella parola, per la sua derivazione dal concetto di polis: la tendenza delle popolazioni insediate in un territorio a difenderne i confini fisici – e le consuetudini comunitarie stabilite all’interno di essi – da qualunque tipo di minaccia esterna o di invasione. E migliaia di anni di storia dimostrano che all’infrazione di questo limes (psicologico non meno che materiale) ha sempre corrisposto un insieme di vigorose reazioni» (Marco Tarchi, Diorama letterario, 352, novembre-dicembre 2019, p. 2).

Coloro i quali (dalla appartenenza ideologica e ideale più diversa) ignorano questi due limiti – il numero degli umani e l’identità dei gruppi –  sono destinati a scatenare le più feroci manifestazioni d’odio. Effetto tragico e, appunto, paradossale ma inevitabile poiché iscritto nelle strutture antropologiche collettive.

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