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Essere pagani

Il paganesimo «renaït éternellement à lui-même»1.
Lo fa dove meno lo si attende e nelle forme più diverse poiché «à chacune de leurs renaissances, les dieux se métamorphosent» (Dominique Pradelle, 80). Anche per questo una formula più corretta è ‘paganesimi’, al plurale. Questa ancestrale e antica modalità di intendere la vita e il mondo è infatti per sua essenza plurale, aperta, cangiante, rispettosa della varietà delle forme. Ciò che accomuna i paganesimi è un radicale immanentismo per il quale il dio, i divini, non abitano altrove, non sono il totalmente altro ma costituiscono la manifestazione, il senso, il timore e la gioia d’esserci. Ciò che li accomuna è, in una parola, il sacro: «Dans la philosophie païenne, c’est le divine qui est englobé par le sacré, ce sont les dieux qui procèdent du monde (de l’ ‘être’) et non l’inverse» (Guillaume Faye, 52). È un sentimento del sacro che rifiuta i dualismi, a partire dal dualismo che fonda, esprime e dà identità al giudeo-cristianesimo, «la distinction de l’être créé (le monde) et de l’être incréé (Dieu)» (Alain de Benoist, 13).
In quanto ‘creato’, il mondo è non soltanto diverso dal ‘creatore’ ma gli è naturalmente del tutto inferiore: l’Origine è necessaria, immutabile, eterna; l’originato è contingente, mutevole, finito. L’angoscia che un simile dualismo produce negli umani, che sanno di essere parte del creato e quindi mortali, induce a collocare l’unico luogo e strumento di possibile contatto con l’Originario non nella potenza della materia ma nello spazio dell’interiorità, nella psiche.
In questo modo una delle tante manifestazioni del mondo, il corpomente umano trasformato in anima e quindi ulteriormente impoverito, assume una rilevanza e una centralità del tutto fantasiose, origine ovviamente di ogni pretesa e violenza antropocentrica sul mondo, origine dunque della distruzione. L’obiettivo di tale antropocentrismo psicologico ed esistenziale è la salvezza individuale. Idea, questa, del tutto assente nei paganesimi.
Aver trasformato l’altrove del divino e il qui dell’anima nel luogo della salvezza ha privato di senso, dignità e sacralità il mondo. Nelle sue origini indoeuropee, la parola «dio» si riferisce al cielo, alla grandiosa potenza che gli umani sentivano sovrastare e tessere le loro notti immense e splendenti. Dunque divino è il cielo, è la notte, sono gli astri, è la materia. La vittoria dei monoteismi biblici ha dissolto e infine cancellato questo profondo significato del divino, sostituendolo con delle versioni più o meno esagerate della psiche umana. Dio è diventato una sorta di superuomo (‘il Padre Eterno’) che c’è da sempre, che non muore mai, che sa fare tutto ma che condivide ira, desiderio, gelosie e tutte le altre caratteristiche che il libro ebraico-cristiano attribuisce a Jahvé. Si comprende che i veri atei sono i cristiani, che hanno tolto ogni sacralità al mondo.

Un altro elemento che rende incommensurabili politeismi e monoteismi è il fatto che nei paganesimi la moralità non ha come condizione una qualche regola dettata dal dio – il Decalogo o altro – ma nasce dal rispetto verso la natura che è parte fondamentale dei paganesimi. Una morale prescrittiva, leguleia, minacciosa, passiva ed eteronoma come quella praticata da ebrei, cristiani e islamici, è del tutto assente nell’orizzonte politeistico. I comportamenti dei pagani rispettano o non rispettano le cose in relazione al proprio carattere ed esperienza e non in nome di ordini provenienti dal ‘totalmente altro’.
Uno degli effetti più tragici è che mentre il realismo etico antico sa che l’effetto della benevolenza e della dedizione si stempera e dissolve con la distanza e l’estraneità – mettendo dunque al centro delle relazioni l’amicizia -, il velleitarismo morale cristiano impone invece l’amore universale, il cui effetto è disastroso poiché l’impossibilità di un simile ‘amore’ verso tutti – per tacere di quello verso i ‘nemici’ –  induce a giustificarsi continuamente con se stessi e a inventare tutta una casistica comportamentale che di fatto dissolve ogni sincerità e ogni possibilità di relazioni corrette tra le persone.

Essere pagani nel XXI secolo non ha nulla a che vedere con miti regressivi, con culti New Age di vario tipo, con esoterismi e occultismi privi di senso e francamente bizzarri, con l’adesione a ‘chiese pagane’ che con le loro gerarchie e testi sacri rappresentano la brutta copia di quelle cristiane, pretendendo adesioni dottrinararie del tutto aliene dai paganesimi. Essere pagani oggi significa, come sempre, percorrere «une voie sévère, à la fois poétique et spartiate, une colonne vertebrale et un souffle – le pneuma des anciens Grecs» (Christopher Gérard, 103).
Per comprendere e vivere tutto questo è assai feconda la distinzione formulata da Michel Onfray, filosofo materialista e anarchico, tra paganesimi e politeismi. I primi costituiscono delle religioni dell’immanenza «en vertu de laquelle l’homme n’est pas séparé de la nature ou du cosmos, mais partie prenante au même titre qu’un ruisseau ou qu’une forêt»; il politeismo poi «associe ces forces à des divinités. Le paganisme est une sagesse philosophique ; le polythéism, le début de la sagesse religieuse» (66).
Essere pagani significa cercare di vivere con misura e con gioia, consapevoli dei limiti dell’esistere e pronti però a coglierne le tante possibilità.


Nota
1. Pascal Eysseric, in Sagesses païennes «Éléments pour la civilisation européenne», numero hors-série, n. 1 – Juin 2022, p. 3. Indicherò tra parentesi nel testo i successivi riferimenti agli autori e ai numeri di pagina della rivista.

Amor Dei intellectualis

Nietzsche e Spinoza
Archivio di storia della cultura
Numero IV / 1991
Pagine 93-140

Questo saggio non è «recente». Ne metto comunque a disposizione il pdf perché vi si analizzano due filosofi fondamentali nella mia formazione e spero possa essere utile a quanti si occupano di Spinoza, di Nietzsche o di entrambi.
È un testo ampio, che richiede tempo e pazienza ma mi auguro che risulti anche piacevole per chi lo leggerà. Questo è l’incipit:

«Nietzsche definisce Spinoza ‘il saggio più puro’ [‘den reinsten Weisen’, Umano, troppo umano I, af. 475] riferendosi forse anche alla solitudine – teoretica più che umana – del filosofo olandese, il quale si presenta isolato nel senso più radicale. La sua prosa calma ed essenziale disegna un meccanismo deduttivo, una metafisica geometrica che possono somigliare solo da lontano ad altre filosofie. Lo sfondo è certo carico di contenuti già dati: la razionalità matematica della nuova scienza di marca galileiana: la conoscenza degli Stoici, di Hobbes, di Descartes; la mistica e il pensiero ebraici. Ma tutto ciò è assorbito e rielaborato all’interno di un pensiero del tutto originale e rigoroso. Spinoza dice le parole di base di ogni filosofia non ingenua. Parole certo superabili ma sicuramente non eludibili. È probabilmente quello che intendeva Hegel quando affermava che essere spinoziani è l’inizio essenziale deI filosofare. È la parola dell’unità. L’unita coerente  e forte con cui la filosofia si sforza di leggere e capire il cosmo. L’unità di dio, liberato da ogni favola antropomorfica, da ogni illusione volontaristica. Dio solo esiste per causa sui. Fuori da ogni creazione, oltre ogni finalismo, dio è la sostanza unica, infinita, eterna, indivisibile, immutabile. Dalla sostanza procedono infiniti attributi dei quali la mente umana conosce solo pensiero ed estensione. Le cose singole e  molteplici sono affezioni della sostanza, modi degli attributi.
La contingenza è un’illusione della mente umana. Nel tutto domina la necessità. Il finalismo è il più grave errore filosofico, è una forma  ingenua di soggettivismo che pretende porre l’universo a esclusivo utilizzo della specie umana. Le nozioni di perfezione-imperfezione, bene-male, giusto-ingiusto, sono scaturite da questo sentire sé come criterio del tutto. La filosofia è la rimozione di tale prospettiva. È il sentirsi parte eterna di una eternità. È amor Dei intellectualis». 

Voci

Chiesa Santa Maria delle Grazie – Milano – 22 agosto 2016
Dalle tenebre alla Luce
Ensemble Vocale Amarcord
Musiche di compositori dal XVI al XXI secolo

Voci maschili dentro le volte di una chiesa. Disegnano il dolore che intride le cose, la supplica a un Dio che non c’è e se ci fosse sarebbe malvagio. Chi può vedere per milioni di anni le proprie creature soffrire e non mutare ogni pena in un gaudio, potendolo?
Queste creature cercano in tutti i modi il sorriso. Le Muse e l’Armonia sono frammenti di tale ricerca. Uno di questi frammenti è il  brano di Thomas Tallis (1505-1585) dal titolo Te lucis ante terminum – Festal tone.

Arconti

Dio esiste e vive a Bruxelles
(Le Tout Nouveau Testament)
di Jaco Van Dormael
Lussemburgo, Francia, Belgio – 2015
Con: Pili Groyne (Ea), Benoît Poelvoorde (Dio), Yolande Moreau (la donna di Dio), Laura Verlinden (Aurélie), Serge Larivière (Marc), Catherine Deneuve (Martine), François Damiens (François), Marco Lorenzini (Victor)
Trailer del film

Che il Dio biblico (e poi coranico) sia un soggetto approssimativo, possessivo e violento è evidente. Si tratta di qualcuno che antiche tradizioni definiscono con il termine di arconte, vale a dire un signore potente ma incapace e affetto da megalomania. Sono tali arconti ad aver dato vita a questo mondo, i cui limiti sono anch’essi del tutto evidenti. E allora perché non immaginare -come fa Jaco Van Dormael- che questo arconte, assai annoiato, abbia prima creato Bruxelles, poi l’abbia popolata di animali che non lo soddisfacevano e infine abbia pensato a qualcuno che fosse a propria immagine, l’uomo appunto? Solo che tale creazione è stata per questo signore -che vive a Bruxelles in un appartamento senza porte e dotato di un archivio sconfinato- l’occasione per dare sfogo al proprio ilare sadismo, inventando leggi e situazioni che hanno il risultato di far soffrire vanamente le sue creature.
Ma Dio ha anche una moglie e due figli. Il primo ha del tutto frainteso le intenzioni del Padre e «si è fatto appendere a una gruccia come una civetta» (parola di Dio), l’altra è una bambina di 10 anni che, stufa delle prepotenze del padre, gli sabota il computer e rivela a tutti gli umani il giorno e l’ora esatti della loro morte. A tale notizia si scatenano ovviamente le reazioni più diverse. Ea, così si chiama la bambina, va nel mondo per raccogliere degli apostoli con i quali cercare di porre rimedio agli effetti dell’incauta rivelazione. Anche Dio padre esce finalmente dal suo appartamento, alla ricerca della figlia. I sei apostoli sono tra i più improbabili ma anche tra i più significativi. Alla fine sarà l’elemento femminile a vincere.
Tutto questo è surreale, certo. E spesso grottesco e sempre divertente. E tuttavia l’idea di far scrivere un Testamento tutto nuovo (questo il titolo originale) agli umani vessati da un Dio sadico invece che a questo stesso Dio, è molto seria e tocca alcuni profondi archetipi della mente individuale e collettiva. Lo stile scanzonato e insieme rigoroso di Van Dormael contribuisce a restituire la familiare stranezza del dio arcontico.

«Vorrei togliere al mondo il suo carattere straziante»


Riprendo qui sotto un testo che avevo pubblicato nell’aprile del 2011. Lo faccio per varie ragioni: di ciò che vi scrissi sono sempre più consapevole; il Giubileo voluto dall’attuale pontefice ha per tema la ‘misericordia’ e anche di questo si parla nelle poche righe di questa riflessione; ho pensato a queste parole in occasione di un funerale al quale ho partecipato pochi giorni fa.
Il celebrante ha ricordato, infatti, che il Cristo sarebbe «il nostro fratello maggiore che si è sacrificato per noi davanti al Padre». Al cospetto di tali affermazioni -incomprensibili da ogni punto di vista: etico, ontologico, logico, teologico, esistenziale- penso, ancora una volta, che una divinità onnipotente e buona (qualunque cosa significhi questa parola) non elimina la finitudine ma certamente cancella il dolore. Non si immerge in esso dicendo: “Vedete? Ho fatto soffrire tremendamente mio Figlio. E quindi anche voi dovete accettare il dolore che vi tormenta”. Che salvezza è questa? Piuttosto, un Dio afferma: “Ecco, tolgo ogni dolore dal mondo, perché sono un Padre e voglio la gioia di tutti i miei figli, prediletti e no”.
In una lettera a Heinrich von Stein dei primi di dicembre del 1882 Nietzsche affermò di volere «liberare l’esistenza umana da ciò che essa ha di straziante e di crudele» (Epistolario, Vol. IV 1880-1884, Adelphi, 2004, p. 270). E in un coevo frammento postumo scrisse: «Vorrei togliere al mondo il suo carattere straziante» (Frammenti postumi 1882-1884 – Parte Prima, in “Opere”, vol. VII/1, parte II, Adelphi 1982, fr. 4[34], p. 110).
Se questo è il sentimento di un umano -con tutte le sue miserie e limiti- come fa a non essere il sentimento di una divinità che può tutto e che, se lo volesse, potrebbe rendere perfetto l’Essere eliminando da esso ogni sofferenza?

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Sono il padre. So che gli esseri umani soffrono ogni giorno per le ragioni più diverse. So che crudeltà, malattia e abbandono scandiscono la vita di tutti coloro che nascono. Sono anche onnipotente. Potrei trovare non una ma innumerevoli soluzioni che pongano immediatamente fine al fiume di dolore che avvolge le creature viventi. Ma invece di provvedere con un gesto autenticamente divino a cancellare il dolore dal cosmo, mando il mio figlio prediletto a patire, a essere seviziato, a morire asfissiato e sanguinante in una delle più atroci torture. Dopo lo faccio risorgere, ma l’universale sofferenza continua come se niente fosse accaduto.

È incredibile come questa orribile storia che ha per protagonista una delle più cupe divinità mai concepite -l’ebraico Jahweh- venga associata a parole quali “amore” e “misericordia”. Un padre che agisce in questa maniera se è davvero onnipotente è anche sadico; se non riesce a porre rimedio in altro modo, allora è uno di coloro che l’antica gnosi chiama “arconti”, divinità inferiori, demiurghi incapaci. Un amore onnipotente genera la gioia, non moltiplica sofferenze e crocifissi.

Dio

aristotele_2La filosofia è per Aristotele conoscenza delle cause, degli elementi, dei principi primi del reale. Il mondo, infatti, è assai complesso e i concetti che cercano di darne conto non sono mai univoci. Anche per questo nella Fisica (trad. di A. Russo e O. Longo, Laterza 1983) lo Stagirita afferma che a dirsi «in molti modi» non è soltanto l’essere (A, 185 a) ma anche l’uno (A, 185 b), il divenire (A, 190 a), le cause (B, 195 a). Agli «antichi» che, «spinti dalla loro inesperienza» (A, 191 a), cercarono un principio o una modalità unica del divenire e dell’essere, Aristotele oppone delle indicazioni metodologiche molto precise. In generale, la sensazione è in grado di apprendere il particolare, il “pensiero” -invece- l’universale (A, 189 a); coniugando dunque sensazione e pensiero Aristotele cerca di costruire una teoria completa e plausibile del cielo, del movimento e del tempo.
«Che la terra sia immobile, valga per ammesso» (De caelo, Ivi, B, 289 b); qui l’empirismo mostra tutta la propria efficacia come anche i suoi limiti. Il constatare con i sensi l’immobilità e la centralità della Terra non rende per questo meno falsa tale concezione; avevano maggior ragione, invece, i Pitagorici con il loro fare “mistico e matematico”, poiché ritenevano «che al centro è posto il fuoco, mentre la terra è uno degli astri, e si muove in circolo attorno al centro, producendo in tal modo la notte e il giorno» (De caelo, B, 293 a).
Tra le due ipotesi alternative della sfericità o piattezza del nostro pianeta, Aristotele opta per la prima: la Terra è «una sfera non molto grande, perché altrimenti non renderebbe così rapidamente visibile il mutamento degli astri, quando noi ci spostiamo di così poco» (De caelo, B, 298 a). Incorruttibile, ingenerato, eterno, il cielo è mosso di moto uniforme (De caelo, B, 289 a), formando con la Terra tutta la materia; la quale è soggetta a trasformazione sul nostro pianeta e che invece nel resto del cosmo è immodificabile perché perfetta. Fuori del cielo non si dà luogo, né vuoto, né tempo.
L’eternità del movimento è gemella dell’eternità del tempo. Una tesi, questa, che separa con chiarezza la prospettiva aristotelica da quella cristiana, in particolare agostiniana, per la quale il divino è fuori dal tempo. Per Aristotele, invece, il divino è il tempo stesso: «Ma se sono impossibili l’esistenza e il pensiero del tempo senza l’istante, e se l’istante è una certa medietà e ha simultaneamente principio e fine -principio del futuro, fine del passato-, è necessario, allora, che ci sia sempre un tempo […] Ma se c’è un tempo, è ovviamente necessario che ci sia anche un movimento, dato che il tempo è un’affezione del movimento» (Θ, 251 b).
Tuttavia non è di solo movimento che il tempo si compone. Aristotele coniuga infatti il tempo della materia con quello della psiche. Lo Stagirita riconosce un’aporia di fondo che fa apparire il tempo come esistente e insieme inesistente poiché «una parte di esso è stata e non è più, una parte sta per essere e non è ancora. E di tali parti si compone sia il tempo nella sua infinità, sia quello che di volta in volta viene da noi assunto. E sembrerebbe impossibile che esso, componendosi di non-enti, possegga un’essenza» (Δ 218 a). Impalpabile e sfuggente, il tempo sembra anche motore della corruzione e della fine (Δ 221 b e 222b) ma soprattutto esso è presente ovunque e «in ogni cosa, sulla terra e nel mare e nel cielo» (Δ 223 a).
Nel mondo oggettivo della quantità, il tempo irrompe con la misura scandita dalla mente:

Si potrebbe, però, dubitare se il tempo esista o meno senza l’esistenza della mente. Infatti, se non si ammette l’esistenza del numerante, è anche impossibile quella del numerabile, sicché, ovviamente, neppure il numero ci sarà. Numero, infatti, è o ciò che è stato numerato o il numerabile. Ma se è vero che nella natura delle cose soltanto la mente o l’intelletto che è nella mente hanno la capacità di numerare, risulta impossibile l’esistenza del tempo senza quella della mente […]. Ma il prima e il poi esistono in un movimento, e appunto essi, in quanto sono numerabili, costituiscono il tempo. (Δ 223 a)

L’ordine fisico e la razionalità matematica della Natura trovano dunque nel tempo il loro emblema, la realtà più piena, la prova della unità di ogni ente e dimensione. Tempo e movimento, insieme, costituiscono ancora una volta l’eternità. Tale è il cosmo ordinato dei Greci: eterno come il tempo, essendo il tempo Dio.
Oltre che del movimento, il tempo è anche «numero della sfera, perché mediante questo si misurano gli altri movimenti ed il tempo medesimo» (Δ 223 b). Una circolarità che coniuga la mente e l’Universo nell’istante eterno: «Anche questo nome di αἰών si direbbe pronunciato dagli antichi quasi per divina ispirazione: si dice infatti αἰών di ciascuno l’ultimo termine che circoscrive il tempo di ogni singola vita, al di fuori del quale non c’è più nulla secondo natura. Parimenti, anche il termine perfetto di tutto il cielo, che contiene ed abbraccia la totalità del tempo e l’infinità di esso, anche questo si dice αἰών, e prende questo nome da αιει εἶναι [essere sempre], immortale e divino» (De caelo, A, 279 a).
La materia è eterna, il tempo è sempre. Materia e tempo sono Dio.

Deus sive Natura

Baruch Spinoza e l’Olanda del Seicento
(Spinoza. A Life, 1999)
di Steven Nadler
Trad. di Davide Tarizzo
Einaudi, 2009 (2002)
Pagine XV-410

Più l’Olanda del Seicento che Spinoza in questo libro. Per esplicita ammissione del suo autore, l’oggetto è non tanto la filosofia spinoziana quanto la vita e l’epoca, e soprattutto l’ambiente ebraico, alla cui storia, credenze, usi, costumi sono dedicati i primi sei capitoli, vale a dire metà dell’intero libro, la cui tonalità è chiaramente filosemita nel ripetuto tentativo di spiegare e giustificare i rabbini (Mortera, in particolare) e la comunità sefardita di Amsterdam. Giustificarli rispetto all’inaudita violenza del cherem che i capi religiosi e laici della comunità pronunciarono il 27 luglio 1656 contro il ventiquattrenne Spinoza, senza e prima che questi avesse pubblicato alcun testo. «Non esiste nessun altro documento di cherem emesso dalla comunità in quel periodo da cui trasudi la stessa collera» (p. 141). Una delle ragioni di tanto odio starebbe secondo Nadler nel fatto che un simile bando «oltre ad avere una funzione disciplinare interna, aveva pure il senso di un messaggio diretto alle autorità olandesi: gli ebrei erano una comunità in ordine, che -come previsto dagli accordi presi con la città- non tollerava infrazioni della condotta o della dottrina ebraiche. […] E forse la singolare animosità del bando contro Spinoza si spiega proprio con la volontà del ma’ amad di non dare l’impressione di proteggere individui che negavano non tanto i principî della fede ebraica, quanto quelli della religione cristiana» (167).
Le comunità ebraiche erano comunque abituate all’utilizzo costante e ripetuto delle scomuniche contro i propri membri. Le ragioni potevano essere le più varie e minuziose, visto che erano e sono migliaia i precetti disobbedendo ai quali si commette peccato. Ma è l’intera esistenza quotidiana di tali comunità a essere permeata di un formalismo totale ed esasperante, contro il quale si era infatti già pronunciato l’ebreo fondatore del cristianesimo e nei cui confronti anche Spinoza ritiene che «i seicentotredici precetti della Torah non hanno nulla a che fare con la virtù e la beatitudine» (303).
Dopo la scomunica Spinoza cessò di considerarsi un ebreo e parlò dei suoi antichi correligionari come di un’alterità con la quale nulla aveva a che fare. Non presentò ricorso -come sarebbe pur stato suo diritto- alle autorità civili della città «e neppure chiese aiuto a un’altra congregazione, come fece Prado. In effetti, non domandò neppure alla congregazione di rivedere il proprio giudizio. Abbandonò semplicemente la comunità» (171).
Forse anche per questo il testo di Nadler è percorso da una sottile avversione nei confronti del suo oggetto e verso la stessa filosofia intesa come esercizio di assoluta libertà razionale. Numerose potrebbero essere le conferme. Ad esempio, quasi a giustificare ancora una volta il cherem, «se Spinoza andava a dire cose simili […] e a stranieri per giunta! […] stava davvero giocando con il fuoco» (151-152); «Il suo scopo è nientemeno che la completa desacralizzazione e naturalizzazione  della religione e dei suoi concetti […] Perfino l’immortalità dell’anima è considerata niente più che una ‘durata eterna’» (211); «Le parole di Spinoza [nell’Appendice alla I parte dell’Ethica] sono assai pesanti, ed egli non era del resto inconsapevole dei rischi che correva» (258); «Ma nessun altro filosofo ha mai neppure identificato Dio con la Natura» (262), affermazione non rispondente al vero, dato che la concezione immanentistica del divino è un’antica posizione filosofica, pur variamente declinata, e sostenuta qualche decennio prima di Spinoza pure da Giordano Bruno (anch’egli scomunicato e la cui morte rimarrà per sempre uno dei peggiori crimini della chiesa papista).
Le fonti di Spinoza furono assai varie: la mistica ebraica; forse l’eretico (anch’egli bandito con un cherem) Uriel da Costa; il suo maestro di latino e di varia umanità Franciscus Van den Enden; certamente Descartes; Euclide; gli stoici; e anche -è una delle affermazioni più interessanti di Nadler- l’intera comunità della città dove nacque: «Ex gesuiti radicali in politica, collegianti con tendenze sociniane, ebrei apostati, forse persino quaccheri e pensatori libertini -se si dovesse davvero accusare qualcuno di essere stato il ‘corruttore’ di Spinoza forse bisognerebbe a questo punto accusare la città di Amsterdam nel suo complesso, una città liberale, in cui fiorirono di continuo idee eterodosse» (163).
Furono naturalmente il suo carattere e la sua intelligenza a renderlo immune da qualunque tentativo di corruzione -«gli erano stati offerti mille fiorini ‘per fare presenza in sinagoga di tanto in tanto’. Spinoza, a quanto pare, rispose che ‘potevano anche offrirgli diecimila fiorini’ ma lui non avrebbe comunque mai accettato una simile ipocrisia, ‘poiché si preoccupava solo della verità, e non delle apparenze’» (170)-; a farlo vivere con grande frugalità e in profonda coerenza con le proprie idee -rifiutando sia gli onori sia le polemiche- e a rimanere sempre sereno, come testimonia Jean Maximilian Lucas uno dei suoi primi biografi: «A qualunque ora lo si trovava sempre di ottimo umore…Possedeva una grande e penetrante intelligenza, e trasmetteva un senso di appagamento» (218).
Anche alla luce di questo carattere equilibrato e sicuro di sé, la ‘solitudine’ di Spinoza è davvero una leggenda priva di fondamento, come Nadler suggerisce quando sottolinea le ottime relazioni dal filosofo intrattenute con una varietà di soggetti sia in presenza sia per corrispondenza; il suo tornare spesso ad Amsterdam anche dopo essersi trasferito a Rijnsburg prima e all’Aia poi; il grande numero di persone che seguì il suo feretro il 24 febbraio 1677, quattro giorni dopo la morte. «Lungi dall’essere quell’antipatico e misantropo recluso di cui si è tramandata leggenda, Spinoza era invece, una volta messo da parte il lavoro, una persona di compagnia, moderata e piacevole, sempre calma -come ci si poteva aspettare del resto dall’autore dell’Etica. Era gentile e pieno di riguardi, e si divertiva molto in compagnia degli altri così come gli altri si divertivano con lui» (319). Ovunque vivesse, Spinoza venne cercato da molti, o di persona o per lettera. Il suo Epistolario è uno dei filosoficamente più densi che si possano leggere, un vero specchio della mente e del carattere di quest’uomo.
Avversato sino all’odio, giudicato, empio, blasfemo, sovversivo, depravato, pericolosissimo (anche da Leibniz) e persino «di essere un agente di Satana, se non addirittura l’Anticristo in persona» (324), Spinoza ha offerto una delle più plausibili interpretazioni dell’essere e del posto che ogni ente -umani compresi- occupa in esso. Lo fece in tutte le sue opere e nell’Epistolario ma specialmente nel Tractatus Theologico-Politicus, che «è uno dei manifesti più eloquenti che siano mai stati scritti a favore di uno Stato democratico e laico» (315) e nell’Ethica ordine geometrico demonstrata, «un’opera ambiziosa e sfaccettata. Un testo davvero audace per la critica spietata e sistematica cui vengono sottoposte le correnti nozioni filosofiche di Dio, dell’uomo e dell’universo, con tutte le credenze teologiche e morali allegate. Nonostante la scarsità di riferimenti a pensatori del passato, il libro dà prova di una grande erudizione e di una approfondita conoscenza degli autori classici, medievali, rinascimentali e moderni -pagani, cristiani ed ebrei. Platone, Aristotele, gli Stoici, Maimonide, Bacone, Cartesio e Hobbes (tra i tanti) appartengono tutti allo sfondo culturale dell’opera, che rimane comunque, ciononostante, uno dei trattati più originali dell’intera storia della filosofia» (250-251).
Il disincanto sulle vicende umane si coniuga alla certezza di una razionalità invincibile che intride gli eventi. Per Spinoza la filosofia è il tentativo di comprendere questo significato e, una volta compreso, lasciarsene attraversare.

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