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Παιδεια

Per la παιδεία
in Koiné, anno XXV – 2018
«Per una scuola vera e buona»
pagine 91-101

In questo testo ho ripreso alcune delle analisi formulate in due contributi pubblicati sulla rivista «Punti Critici»: Educazione e antropologia (1999) e Sulla «Grande Riforma» della scuola italiana (2001).
I non pochi anni che ci separano da quelle riflessioni hanno confermato la plausibilità e attualità di quanto vi avevo argomentato. E questo è in gran parte un dramma poiché significa che è continuato il processo di dissoluzione delle conoscenze in astratte e sterili competenze; significa che è proseguita l’imposizione alle scuole e alle università di un lessico finanziario fatto di crediti e di debiti formativi; significa che la conoscenza è diventata un carico di merci da scambiare secondo le regole di un capitalismo non si sa se più arcaico o postmoderno.
L’Università disegnata da tali paradigmi è frutto di un riformismo artificioso e semplicistico. Un riformismo omologante nel suo ignorare completamente la diversa evoluzione storica degli istituti di formazione; perdente nell’adottare modelli che nei Paesi anglosassoni hanno fallito; indifferente ai contenuti e alle finalità dell’insegnamento e tutto giocato sul piano istituzionale-organizzativo; americanizzante nei suoi presupposti ideologici e nelle sue concrete articolazioni.
Tutto questo è coerente con la tendenza alla globalizzazione dell’economia: costruire una società di esecutori dotati di diplomi di bassa qualità, lasciando che a decidere il modello di sviluppo e a gestirlo sia un’élite di tecnocrati. Per tutti gli altri è sufficiente il luccichio del nulla televisivo, l’aggressiva superficialità dei social network, la patetica commedia dei Corsi Zero.
A questo degrado oppongo il significato e la viva attualità della παιδεία, della relazione viva, libera, rigorosa e feconda tra l’allievo e il maestro. La struttura del fatto educativo è socratica, sempre. Nessun docente può garantire alcun risultato se in chi lo ascolta non c’è predisposizione all’apprendere e volontà di riuscirci. L’educatore non è onnipotente; l’educando non è una macchina plasmabile in qualsivoglia forma; l’educazione è rapporto fra persone, è incontro di libertà sempre dinamiche, sempre in movimento. Movimento e divenire è infatti l’insegnamento, poiché se «i greci esistevano nel discorso» come è evidente sia nel Gorgia di Platone sia nella Retorica di Aristotele, allora «insegnare significa parlare a un altro, rivolgersi all’altro nel modo del comunicare. L’essere proprio di un insegnante è: stare davanti a un altro e parlargli, per la precisione in modo tale che l’altro, ascoltando, lo segua. Si tratta di un nesso ontologico unitario determinato dalla κίνησις» (Heidegger, I concetti fondamentali della filosofia aristotelica [1924], trad. di G. Gurisatti, Adelphi 2017, § 13, p. 140 e § 28, p. 353).

Il testo è articolato nei seguenti paragrafi:
-Scuola e politica
-Conoscenze e competenze
-Socratismo e comportamentismo
-Marketing e analfabetismo
-Europa e παιδεία

Una catastrofe didattica

Qualche giorno fa ho svolto gli esami di una delle materie che insegno. Riepilogo qui i risultati.
Studenti esaminati: 21
Non approvato (è il modo burocratico di definire una bocciatura): 10
Voto 18: 5
Voto 20: 1
Voto 22: 2
Voto 23: 1
Voto 24: 1
Voto 26: 1
Come si vede, una catastrofe didattica. Non è la prima volta, anche se devo aggiungere che in altre mie discipline i risultati sono migliori. E tuttavia l’esito avrebbe potuto essere anche peggiore se non fossi stato un po’ accondiscendente e mi fossi attenuto con rigore al livello scientifico che un esame universitario sempre richiede.
Le spiegazioni di una simile situazione possono essere numerose: il docente è una carogna (tendo per ovvie ragioni a escludere tale risposta); gli studenti tentano la fortuna (lo si fa più spesso di quanto si pensi e con esito anche positivo); i contenuti sono troppo difficili (ma siamo all’Università, vale a dire al livello più alto della formazione); le conoscenze di base sono scarse (credo che questa sia una delle spiegazioni più sensate, visto il livello medio di preparazione con il quale gli studenti escono dalle scuole, nonostante l’impegno totale e la serietà professionale di moltissimi insegnanti, impegno e serietà che ben conosco per la mia lunga esperienza nei licei); le persone hanno dei limiti naturali, come ha osservato in maniera assai franca Arthur Schopenhauer: «Il nostro valore intellettuale, come quello morale, non ci giunge quindi dall’esterno, ma sgorga dalla profondità del nostro proprio essere e nessuna arte educativa pestalozziana può fare di un babbeo nato un uomo pensante» (Parerga e Paralipomena, tomo I, trad. di G. Colli, Adelphi 1981, p. 647) (una tesi che rappresenta l’opposto dell’onnipotenza educativa sostenuta dai comportamentisti e più di quella mi sembra corrispondere alla realtà); viviamo in un contesto sociale che tende a illudere le persone, producendo così molti danni individuali e collettivi (grave è che su tali temi si pensi spesso al ‘trauma’ che un soggetto può subire per il fallimento delle proprie aspirazioni personali, senza porre attenzione al trauma sociale prodotto da competenze attestate ma non possedute: vi affidereste a un medico che ha ottenuto la laurea ‘per ragioni umanitarie’?); nel profondo si è convinti che scuola e università non servano a nulla e che quindi una laurea non la si debba negare a nessuno, neppure a chi -come mi è accaduto di sentire in questa sessione di esami- a una domanda sul periodo nel quale venne inventata la stampa a caratteri mobili ha risposto: «Nel 1965»; le strutture universitarie si adattano al principio punitivo imposto dalla Legge Gelmini (mantenuta con convinzione dall’attuale governo), la quale riduce i finanziamenti agli Atenei in relazione al numero di studenti che non riescono a completare l’iter formativo nei tempi previsti (un principio giuridico-contabile tanto insensato quanto micidiale).
Scuola e Università non sono soltanto luoghi di scienza ma anche efficaci strumenti di ascesa sociale. A condizione però che diplomi e lauree non perdano di valore e di senso. Gramsci lo sapeva bene:

Il ragazzo che si arrabatta coi barbara, baralipton si affatica, certo, e bisogna cercare che egli debba fare la fatica indispensabile e non più, ma è anche certo che dovrà sempre faticare per imparare a costringere se stesso a privazioni e limitazioni di movimento fisico, cioè sottostare a un tirocinio psico-fisico. Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso. […] La partecipazione di più larghe masse alla scuola media porta con sé la tendenza a rallentare la disciplina dello studio, a domandare “facilitazioni”. Molti pensano addirittura che le difficoltà siano artificiose, perché sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale.
(Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Einaudi 1949, pp. 116-117).

Le difficoltà sono reali, invece. Studiare, apprendere, capire il mondo è qualcosa di splendido e come tutto ciò che vale richiede tenacia e fatica. Illudere dei ventenni che la frequenza di Corsi Zero o analoghi strumenti didattici possa sostituirsi alla loro intelligenza e al loro impegno, illuderli con il rendere tutto facile o persino regalando materie e voti, significa mancare loro di rispetto, significa ingannarli.
La ragione forse ultima e più profonda di questa e di altre catastrofi didattiche sta nel fatto che governi, media, pedagogisti sono attivamente impegnati -ciascuno per la sua parte- a favorire la costruzione di un Corpo sociale incompetente, ignorante, passivo. E dunque più facilmente manipolabile. Non lo accetterò mai.

Corsi (sotto)Zero

Una delle più gravi illusioni didattiche prodotte dal behaviorismo e da altre correnti della pedagogia contemporanea è la convinzione che sia sufficiente istituire corsi, organizzare lezioni, svolgere azioni di «recupero» per colmare vuoti di conoscenza e dare alle persone le competenze che non hanno acquisito durante molti anni di studio e di frequenza delle scuole.
Esempio di una tale speranza -tanto patetica quanto pericolosa- sono i cosiddetti Corsi Zero organizzati da diversi Atenei italiani (compreso il mio) anche in seguito ai risultati dei test di ingresso ai vari Corsi di Laurea. Test che nel mio Dipartimento hanno avuto risultati drammatici. La maggior parte dei nuovi iscritti, infatti, ha bisogno di frequentare i Corsi di recupero OFA (Obblighi Formativi Aggiuntivi). Tali Corsi consisteranno in una serie di lezioni tenute in tempi assai stretti su argomenti quali: la lingua italiana, le lingue straniere, le lingue classiche, la matematica (in altri Dipartimenti). I Corsi Zero in tali discipline saranno «indispensabili per superare la prova di verifica che, a conclusione del corso, permetterà di soddisfare gli OFA entro il primo anno di corso, come previsto dal Regolamento Didattico di Ateneo (art. 8 comma 1 e 2 del RDA -D.R. n.2634 del 6.08.2015)».
Riempire le menti di centinaia di studenti con qualche esercitazione e con alcune nozioni di base -che avrebbero dovuto assimilare a scuola-, ritenendo che in tal modo questi studenti saranno in grado di seguire corsi di Ingegneria, Filologia, Lingue straniere, Filosofia, significa cadere in pieno nella sindrome didatticista del «successo formativo obbligatorio», vale a dire quanto di più distante ci sia dalla concreta realtà dell’apprendimento, che è fatta di tempi lunghi, di talento naturale, di dialogo maieutico tra maestro e allievo.
Il tipico pragmatismo statunitense induce invece a credere -ché di una vera e propria fede si tratta- che basti organizzare, fare, recuperare, affinché accada il miracolo. In effetti è un miracolo quello necessario a riempire gli abissi di ignoranza con i quali troppi giovani escono dalle scuole -chiaramente ridotte a luoghi di intrattenimento e di socializzazione- e che si esprimono anche nelle risposte che sto sentendo in questi giorni di esami delle discipline che insegno. Ho ascoltato studenti che non conoscono la storia del Novecento, che non sanno in quale secolo venne scoperta l’America, che sono privi di qualunque anche minimo rigore logico, che ignorano o confondono in modo drammatico i significati delle parole fondamentali della filosofia, della storia, della letteratura.
Di fronte a tanto scempio organizziamo Corsi Zero per «soddisfare gli OFA» e viviamo sereni.

[Corsi sotto(Zero) è stato pubblicato anche su Roars]

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