Skip to content


Innamoramento

Il mio profilo migliore
(Celle que vous croyez)
di Sayf  Nebbou
Francia, 2019
Con: Juliette Binoche (Claire Millaud), Nicole Garcia (Catherine Bormans), François Civil (Alex Chelly)
Trailer del film

Il titolo originale di questo film suona un poco pirandelliano, quasi un Come tu mi vuoi, la decisione e il bisogno di apparire all’altro come vorremmo che l’altro ci vedesse, nel nostro profilo migliore. Il titolo italiano in questo caso restituisce parte del significato dell’opera, dato che il profilo al quale fa riferimento è quello dei Social Network. Claire Millaud è infatti una bella docente universitaria cinquantenne, lasciata dal marito, con due figli adolescenti, con un amante che non la ascolta mai ed è interessato soltanto al sesso. Questo amante ha un giovane collaboratore, Alex, un fotografo del quale Claire vede il profilo su facebook e quasi per gioco e per contattarlo si inventa l’identità fasulla di una bella ventiquattrenne. Messaggio dopo messaggio, parole dopo parole, e poi telefonata dopo telefonata, Claire e Alex iniziano una relazione virtuale che nella prima parte del film viene raccontata dalla donna alla propria analista e nella seconda parte si dipana in vari ‘colpi di scena’ e in finali su finali nei quali il confine tra reale e virtuale si assottiglia sempre più. Anche la scena di chiusura sembra preludere a sviluppi forse ovvi, forse patologici, forse inquietanti.

Due mi sembrano i temi centrali di Celle que vous croyez.
Il primo è la potenza, le modalità, le opportunità e i rischi della comunicazione tramite cellulare telefonico, dello scambio vissuto solo virtualmente, ‘da remoto’. Gli umani non riescono a inventare nessun dispositivo che non risulti intrinsecamente ambiguo, per la semplice ragione che ambigui sono loro stessi: πολλὰ τὰ δεινὰ κοὐδὲν ἀνθρώπου δεινότερον πέλει, afferma il verso 332 dell’Antigone di Sofocle: “molti enti ed eventi ammirevoli e terribili ci sono al mondo ma nulla appare più ammirevole e terribile dell’umano”. E tale terribilità fa riferimento in Sofocle proprio alla natura tecnica dell’animale umano. Lo stasimo sofocleo si conclude con l’affermazione che un simile commensale non sarebbe il benvenuto a tavola.
Le possibilità, offerte dalle tecnologie digitali, di intrecciare relazioni e comunicazioni in ogni istante e con chiunque, si mescolano dunque alla possibilità che tali relazioni e comunicazioni siano fasulle, diventino patologiche, costituiscano un rischio anche assai grave. E questo conferma che l’enfasi sul «remoto», della quale il corpo sociale è stato vittima e carnefice in occasione dell’epidemia Covid19, è un’altra forma di distruzione dei legami umani più sani.
Il secondo elemento del film, ovviamente legato al primo, è la solitudine, è l’innamorarsi, sono le passioni umane. E su questo mi limito a rinviare ad alcuni brevi testi che ho dedicato all’argomento: 
Frammenti di un discorso amoroso (2009); Innamoramento ed evoluzione (2012 ); Amore / Vendetta (2016);  Lezione sull’amore (2017); Roth (2018); L’Altro (2018); Nella spuma potente del cosmo (2019;); Gender (2021).

Nel primo di tali testi scrivevo che l’Altro è una figura del desiderio, del nostro e di quello diffuso nel corpo collettivo, nella filogenesi della specie. L’amato è per l’innamorato l’imprendibile che rimane desiderio – e dunque è la pienezza dell’assenza. Pur sapendo che non raggiungerò mai l’amorosa quiete delle tue braccia, in cui spasimi e drammi saranno appagati e redenti, io continuo a spogliarmi di ogni cosa, continuo a barattare la mia forza con l’istante del tuo sguardo, a rinunciare al mio sorriso per il tuo. Teso verso l’impossibile, il mio discorso è un soliloquio.
L’Altro, infatti, non esiste. Il linguaggio avvolge l’umano sin dal suo apparire, è l’umano nella concretezza del suo agire, esistere, comprendere, comunicare, pensare. L’innamorarsi è una delle pratiche linguistiche che della parola sanno esprimere l’intera potenza nel racconto che la mente narra a se stessa.
Che l’Altro sia una figura linguistica è esattamente ciò che il film mostra.

Vicoli e capitali

Ci sono dei luoghi che rappresentano una sintesi, un’epitome, un simbolo, un’antologia.
Il complesso di chiese, chiostri e monastero di Sant’Anna dei Lombardi a Napoli è uno di questi luoghi. L’ho visitato in occasione della presentazione di Chronos alla Federico II. Vi sono arrivato attraversando i vicoli e le piazze (vivacissima Piazza Dante) dei Quartieri Spagnoli, vero cuore della città, antico e del tutto contemporaneo. Li abita un’umanità variegata, dal linguaggio e dai costumi immutati nei secoli; un’umanità creativa e teppista, che lascia le automobili negli angoli più impensati, compreso il centro delle strade; un’umanità rassegnata e vibrante.
Su una piccola altura preceduta da una fontana, Monteoliveto, sta una chiesa che è quanto rimane di un antico monastero dei monaci olivetani. La facciata è sobriamente rinascimentale, l’interno coniuga il Rinascimento con il proliferare del Barocco, con il suo tripudio di forme, colori, ornamenti, putti, folle, estasi.
Il tesoro di questo luogo è la Sagrestia affrescata da Giorgio Vasari nel 1544-1545. In basso le tarsie lignee di Giovanni da Verona, in alto una vera e propria cosmologia che raffigura le costellazioni, le virtù e gli archetipi della Religione, dell’Eternità e della Fede [immagine di apertura].
La Sagrestia è preceduta da una cappella con l’insieme di terracotta del Compianto del Cristo morto scolpito da Guido Mazzoni nel 1492. Le statue a grandezza naturale esprimono la forza del dolore umano, la disperazione dell’irreparabile, l’amore e il rimpianto per chi più non è, una vera e propria lacerazione dell’esserci.


L’insieme dei luoghi, delle cappelle, delle opere di Monteoliveto conferma il dato antropologico della inseparabilità di mito, bellezza e tragedia che intrama tutte le forme religiose autentiche, di qualunque luogo e civiltà. Il cattolicesimo rappresenta uno degli esempi più compiuti di questo plesso di significati e di vita, una ricchezza che deve alla sua continuità con la civiltà del paganesimo mediterraneo. Osservata da questa prospettiva, la Riforma luterano-calvinista non è neppure una religione ma è un’ideologia politico-moralistica. Persino l’Islam, nonostante il divieto di raffigurare forme umane e animali, ha trovato la strada di espressioni artistiche che non descrivono persone ma costruiscono geometrie di grande eleganza. Nulla di tutto questo nell’ebraismo, che è figurativamente miserrimo e con il quale il cristianesimo riformato volle porsi in continuità nonostante l’accesso antisemitismo di Martin Lutero.
Ancora una volta e a ogni viaggio Napoli si conferma una città dalla scoperta infinita, città potente, viva e dai connotati antropologici che ne fanno la vera capitale d’Italia. 

Fare luce

Lux in arena
Le lucerne e il mondo dei gladiatori

Antiquarium Alda Levi – Milano
A cura di Anna Maria Fedeli e Alberto Bacchetta
Sino al 23 dicembre 2023

Fare luce è sempre stata un’esigenza degli esseri umani, i quali sono animali diurni che hanno bisogno di luce, che amano la luce, che vengono spaventati dal buio e che sono sensibilissimi a ogni variazione dei colori, dell’intensità luminosa, delle ombre, dei chiaroscuri. La pittura è espressione di tale natura, così come la fotografia, le mitologie e le religioni, che nella luce hanno il loro cardine e la loro metafora prediletta.
Fare luce serve a muoversi nello spazio senza urtare, inciampare, cadere, farsi male. Nelle città romane, e antiche in generale, non esisteva qualcosa di analogo alla «illuminazione pubblica» e quindi bisognava muoversi di notte per le strade con delle torce resistenti e durature. E in casa bisognava accendere candele, bracieri e soprattutto lucerne di terracotta distribuite ovunque nelle stanze, poste sui mobili, sospese tramite catenelle a supporti di legno, bronzo, ancora di terracotta (candelabra) o collocate in nicchie alle pareti appositamente costruite a questo scopo. Più grande era l’ambiente, soprattutto quelli pubblici, più fonti di luce erano necessarie. Un mondo che fra il tramonto e l’alba viveva in una costante penombra e forse per questo capace di apprezzare in modo più definito e consapevole sia la luce del Sole sia lo splendore della volta celeste e della Luna.
Inserisco qui sotto la foto di uno dei pannelli che guidano il visitatore della mostra milanese alla scoperta e conoscenza di questi oggetti umili, economici e veramente indispensabili. Nella chiusa si dice che la lucerna accompagna anche i morti (per ingrandire basta cliccare sulle immagini).

La mostra raccoglie numerose lucerne di varia fattura, produzione, simbolo e significato. La numero 16 che si vede qui sotto raffigura un soldato vincitore. Molte altre simbolizzano momenti di guerra e specialmente scene di giochi gladiatori. Il successo dei giochi nella civiltà romana era enorme. Lo testimonia non soltanto questa mostra ma l’intero luogo che la ospita. L’Antiquarium Alda Levi è infatti una sezione del Museo Archeologico di Milano, sezione costruita vicino a ciò che resta del grande Anfiteatro Romano, che si trovava a sud-ovest della cinta muraria e che venne utilizzato con passione dalla sua costruzione ( I secolo e.v.) al declino del mondo antico.

L’Anfiteatro non è attualmente visitabile perché sono in corso ulteriori scavi che dovrebbero, alla loro conclusione, far percepire meglio la grandiosità di questa struttura che oggi si trova nel centro della città (il Duomo è raggiungibile in un quarto d’ora a piedi). Il Museo è invece aperto, documenta la storia della Milano antica dall’età del ferro al V sec. e.v. e raccoglie soprattutto testimonianze relative all’utilizzo dell’Anfiteatro per i giochi gladiatori. Preziosa e rara è una stele con la quale la famiglia di un valente gladiatore, Urbicus, ricorda il congiunto con orgoglio e affetto.
Le testimonianze di cultura materiale danno l’impressione di poter toccare il passato, che il passato sia vivo, che il passato sia ancora tra noi con questi oggetti e con i loro significati. Ad esempio, ceramiche (anche in vetro e medioevali, non soltanto antiche), anfore, strumenti musicali, gioielli. Oltre che naturalmente lucerne. Davvero raro è un pavimento in malta anch’esso del I sec. e.v., scoperto in via Cesare Correnti e che dalla foto può essere scambiato anche per un dipinto astratto.

Molti oggetti provengono, come sempre, dalle necropoli, soprattutto manufatti legati all’ambito del sacro, che venivano spezzati per evitare che oggetti appartenuti a una divinità potessero essere riutilizzati dagli umani, dai mortali. Anche questo significa rispetto del Sacro. Una sacralità pervasiva perché immanente, assai diversa dalla desacralizzazione portata dal cristianesimo nel mondo antico.
Un cattolico ultratradizionalista, Thomas Molnar, afferma con compiacimento che «il cristianesimo, dovunque penetri – e in primo luogo nel mondo greco-romano – procede ad uno svuotamento (e de-mitizzazione) del cosmo panteista, pagano» Un pagano contemporaneo, Alain de Benoist, lo conferma: «La scomparsa del sacro va messa direttamente in rapporto con l’espandersi di una religione giudeo-cristiana caratterizzata dall’identificazione dell’essere con Dio, dalla dissociazione dell’essere dal mondo e dal ruolo particolare assegnato alla ragione» (entrambe le affermazioni si leggono in L’eclisse del sacro, a cura di G. Del Ninno, Edizioni Settecolori, Vibo Valentia, 1992, rispettivamente alle pagine 21 e 115).
Il Sacro raccoglie l’umano e il divino come parte di un insieme che non li confonde e non li separa. Dove invece essi si scindono, inizia la devastazione. La devastazione ebraica e cristiana che in luoghi come l’Antiquarium milanese appare invece così lontana, così improbabile.

Arturo

Misericordia
di Emma Dante
Italia, 2023
Con: Simone Zambelli (Arturo), Simona Malato (Betta), Tiziana Cuticchio (Nuccia), Milena Catalano (Anna), Fabrizio Ferracane (Polifemo), Carmine Maringola (Enzo)
Trailer del film

Lo splendore della terra e del mare, della costa e del cielo tra Palermo e Trapani. Una antica torre d’avvistamento intorno alla quale vive una miserabile comunità di prostitute, di ruffiani, di commercianti in ferrivecchi, di bambini, di pastori e di pecore. Il contrasto tra la grandezza del paesaggio e la sporcizia delle catapecchie, delle quali Nuccia – una delle prostitute – dice «E la chiami casa, questa? Questo tugurio pieno di merda?» – è un contrasto che contribuisce a produrre lo straniamento e lo stridore che intessono il racconto. È un mondo altro ma è davvero un altro mondo? I nuclei del racconto, il basso continuo delle vite, l’evidenza del concreto, sono infatti elementi quali la prevaricazione, la violenza, il dominio, il gioco, la sporcizia, le passioni. E soprattutto i corpi e la follia. Il corpo folle di Arturo, un giovane che non parla, un handicappato cognitivo figlio di una prostituta uccisa a botte dal suo uomo, trovato neonato da una pecora nelle rocce vicino al mare, accudito allevato e cresciuto da due mature prostitute alle quali si aggiunge una nuova arrivata, una giovane ennesima vittima di Polifemo, il violento e volgare magnaccia con un occhio solo del quale Arturo ha terrore.
La dimensione materna matriarcale mistica di tutta l’opera teatrale e cinematografica di Emma Dante emerge qui con forza. Il morbo sacro, l’epilessia, di cui soffre Arturo, è davvero πιλαμβάνομαι, qualcosa che invade e conduce ai confini della morte. Corpi e follia costituiscono elementi centrali della poetica di questa autrice come emerge in Pupo di zucchero. La festa dei morti, ne Le sorelle Macaluso, nell’Eracle messo in scena a Siracusa, in Via Castellana Bandiera.
I corpi, soprattutto i corpi. I corpi strabordanti aggraziati pestati delle prostitute, il corpo nudo di Arturo, fremente di un dinamismo simile a quello dei quattordici corpi interamente svestiti che in Bestie di scena esprimevano senza mai parlare la loro densità, età, magrezza, pinguedine, bellezza, deformità.
Come ho letto in una bella recensione trovata in Rete: «Questi corpi pesanti e appesantiti ritrovano la loro lievità soltanto in acqua – un altro elemento simbolico del ventre materno – cui si contrappone il fragore e la pesantezza della pietra dove Arturo viene trovato, segnato già da un destino ingombrante; la pietra che precipita giù e tende verso il suo luogo naturale. La pietra che si schianta in mare, si fa polvere per ritornare leggera. Anche i corpi in mare ritrovano la loro lievità riuscendo a danzare con lo stesso garbo della ballerina del carillon che tranquillizza Arturo, con la sospensione che avvolge il niente dell’anteriorità».
Corpi fatti di nostalgia, di innocenza, dell’animalità che rimaniamo sempre ma che abbiamo stoltamente imparato a negare, corpi fatti di infanzia e di abbandono. L’infanzia e l’abbandono che pulsano nel romanzo di Elsa Morante L’isola di Arturo, del quale il nome stellare del protagonista è evidente richiamo. Romanzo paterno quello di Morante, che in Misericordia si capovolge nella pura maternità che intramava la versione teatrale dell’opera a Milano. Versione più riuscita rispetto al film, perché inevitabilmente più sobria, essenziale, distillata, sempre con Simone Zambelli inquietante e straordinario protagonista di un racconto che è teatro danza e musica perché è uno sguardo sull’abisso della condizione umana. Il degrado è una metafora, la miseria è un segno, gli oggetti sono movimento.
Misericordia è puro langage, oltre ogni specifica langue e nella declinazione peculiare della parole che ciascuno riesce a dire muovendo nello spazio il corpo in cui consiste, totale espressività che si conclude con la parola dalla quale per gli umani tutto scaturisce e che invocano quando muoiono: «Mamma».
Le tre puttane sono parche, moire, divinità che danno la vita e che precipitano ciascuno nella solitudine irrimediabile che è l’esserci. Pura epica mediterranea.
Ancora dalla recensione di prima: «Il legame con la donna che lo ha generato intesse il film, il cordone che assume forma di lana o di pasta unisce il figlio alla madre: il primo nome che si riesce a sillabare, l’ultimo che si invoca. Arturo parte. Nella valigia i ricordi. Addosso dei vestiti. Davanti a sé la promessa del futuro. Alle spalle la nostalgia della terra e del niente. Solo un parola dinnanzi a così tanta miseria: Misericordia».

[Ho visto il film all’Ariston di Catania, cinema che frequento da decenni e che è diventato infrequentabile. La direzione ha infatti deciso di trasformare anche il cinema in televisione. Non era facile ma vi è riuscita interrompendo il film a metà per proiettare due trailer di altri film e soprattutto dei patetici spot di pubblicità locale. Difficilmente andrò di nuovo in un cinema che ha così scarso rispetto dei suoi spettatori, ai quali non regala certo il biglietto d’ingresso ma a cui impone della pubblicità anche esteticamente squallida]

Antinatalismo. Storia e significato

Antinatalismo. Storia e significato di una filosofia radicale
con Sarah Dierna
in Dialoghi Mediterranei
n. 64, novembre-dicembre 2023
pagine 56-75

Indice
-Filosofia e disincanto 
-Sullo stare al mondo
-Antinatalismo: una saggezza antica
-Antinatalismo e religioni
-Illusioni e impulsi
-Egoismo parentale
-Filantropia
-Sine ira et studio

Il saggio che ho scritto insieme a Sarah Dierna – specialista dell’argomento e senza la quale non avrei potuto tentare una sintesi così ampia – è uno dei testi che ritengo più importanti e significativi nel percorso di pensiero mio e, in questo caso, dei miei allievi. Le ragioni dovrebbero emergere dal testo stesso, del quale uno degli studiosi che abbiamo citato, Théophile de Giraud, ci ha detto che «c’est probablement le meilleur article que j’ai lu sur l’antinatalisme». Siamo ovviamente felici di questo riconoscimento.
Aggiungo l’incipit del saggio, che indica le ragioni per le quali abbiamo cercato di pensare la nascita e mediante essa il significato del vivente.

«Svolto con rigore, il lavoro filosofico consiste anche nella analisi critica dei tabù, di qualunque tabù, non necessariamente per rifiutarli ma per comprenderne origine, logiche, obiettivi. Uno dei tabù più pervasivi riguarda il silenzio sull’etica della procreazione, non intesa come bioetica volta ad analizzare le modalità – naturali, artificiali, ibride, storicamente situate – del procreare ma proprio la legittimità etica di farlo. Che il solo sollevare una simile questione susciti subito sorpresa, perplessità e rifiuto è appunto una conferma della natura pregiudiziale e nascosta del problema.
Come mammiferi siamo naturalmente indotti a lasciare dopo di noi i nostri geni. È questa la ragione prima e ultima dell’esistenza e del perpetuarsi dei viventi. Ma come in molti altri ambiti siamo anche in grado di porci degli interrogativi su ciò che sembra indiscutibile e ovvio. Il lavoro filosofico serio consiste, lo ripetiamo, anche e specialmente nel sottoporre ad analisi l’evidenza. Dalle questioni ontologiche a quelle cosmologiche e religiose la filosofia in Grecia è nata in questo modo.
Porsi in modo serio la questione della legittimità etica del procreare comporta certamente una serie di concetti e di conclusioni che turbano quanti ritengono che nulla quaestio si ponga su tale tema. E invece sono tante le domande e le riflessioni che emergono dalla questione della nascita». 

«Nessuna empatia»

The Killer
di David Fincher
USA, 2023
Con: Michael Fassbender (killer), Charles Parnell (Hodges), Tilda Swinton (donna), Kerry O’Malley (Dolores)
Trailer del film

L’obiettivo è non esserci. Non apparire alla miriade di telecamere, microcamere, metal detector, registrazioni, controlli, che scandiscono nel XXI secolo la vita degli umani, pressoché ovunque. Lo scopo è quindi rendersi per quanto si può invisibile. Vestirsi «come un turista tedesco», che nessuno vuole avvicinare. Condurre la giornata nel modo più anonimo. Per uccidere. E poi sparire. Metodico, distante, e soprattutto interamente consapevole di che cosa sia il mondo. Tutta la prima parte del film è un’antropologia in forma di attesa. Di attesa della vittima. Che però, per un banale ostacolo di una frazione di secondo, sfugge. A quel punto le conseguenze sono fatali. E il film diventa una lunga vendetta che sembra negare uno dei presupposti fondamentali del lavoro di questo killer: «Nessuna empatia. L’empatia è debolezza. Niente di personale. I don’t give a fuck». Presupposto a sua volta fondato sull’antropologia hobbesiana enunciata all’inizio: «O uccidi o sei ucciso». Un’antropologia decisamente antirussoviana: «A chi crede nella naturale bontà degli uomini vorrei porre una sola domanda: ‘ma di preciso su che cosa ti basi nel fare questa affermazione?’».
Le città che scandiscono i cinque episodi sono alcuni dei luoghi dove agisce il killer che il capitalismo finanziario è: Parigi, Santo Domingo, New Orleans, New York, Chicago. E infatti l’ultimo incontro avviene nella dimora, studio e santuario di un maestro della finanza, per arrivare al quale il killer ha percorso un cammino lungo, metodico, distante, consapevole. Mortale.
Come in Seven (Fincher, 1995) il disincanto è completo ma rispetto al calore e alla passione che in quel film fanno da contraltare alla logica dell’assassino, The Killer conferma in un modo geometrico e algido le parole di Thomas Hobbes sulla vita umana «solitaria, misera, ostile, brutale e breve» (Leviatano [1651], Laterza 1989, cap. XIII, p. 102), anche e specialmente a causa dell’«inclinazione generale di tutta l’umanità, un desiderio perpetuo e ininterrotto di acquistare un potere dopo l’altro che cessa soltanto con la morte» (Ivi, cap. XI, p. 78), nonostante l’umano cerchi di nascondere tale condizione «attraverso la finzione, la menzogna, la simulazione e le false dottrine» (Ivi, introduzione, p. 7) come quelle che pongono questo mammifero al vertice della gerarchia dei viventi e degli enti o arrivino persino a definirlo «figlio di Dio» 😳 😆.

Polanski, un’antropologia politica

The Palace
di Roman Polanski
Italia, Svizzera, Polonia 2023
Con: Oliver Masucci (Hansueli), Fortunato Cerlino (Tonino), John Cleese (Arthur William Dallas III), Bronwyn James (Magnolia), Mickey Rourke (Bill Crush), Milan Peschel (Caspar Tell), Luca Barbareschi (Bongo Mr Minetti), Joaquim de Almeida (Dottor Lima), Fanny Ardant (Constance Rose Marie de La Valle)
Trailer del film

«E lasciatemi divertire!» cantava Aldo Palazzeschi. Lo ripete Roman Polanski all’alba dei suoi 90 anni, girando un film in un vero hotel per gente iperdanarosa che mette in scena gente iperdanarosa alla vigilia del Capodanno 2000. Polanski conosce bene gente siffatta e la descrive in un vortice di assurdità, capricci, avidità, miopie, bizzarrie, che portano agli estremi l’assurdità, i capricci,  le avidità, le miopie, le bizzarrie di tutti noi. Luoghi comuni e personaggi stereotipati sono naturalmente la regola in commedie come questa, costituiscono il loro limite e la loro forza. Ma la perfetta sincronizzazione degli incastri e il ritmo narrativo senza cadute sono la firma di questo regista. Aiutato (molto) dalla serietà con la quale gli attori recitano ruoli del tutto sconclusionati.
Nei film di Polanski (per me tra i più grandi registi contemporanei) sono ugualmente padroneggiati il dramma, la tragedia e la commedia. La loro più riuscita mescolanza accade in Venere in pelliccia (2013) e soprattutto in Carnage (2011). Concludendo un breve commento su quest’ultimo film scrivevo: «consapevoli che questo sono in gran parte le relazioni sociali: un massacro. Ma consapevoli anche che si può comprenderle e riderci sopra».
In una tonalità da commedia, è quanto accade anche nel Palace Hotel di Gstaad, sulle Alpi, dove il sorriso diventa a poco a poco amaro osservando la caratteristica che accomuna personaggi e persone pur così diverse nella lingua, nell’età, nella condizione familiare, nella nazionalità. Questa caratteristica è una inemendabile volgarità, che forse costituisce il primo portato di una quantità tracotante di denaro.
«Lo sterco del diavolo», come nel Medioevo il denaro veniva definito, diventa qui alla lettera (e alla visione) «la cacca». Diventano gli escrementi di un’Europa avviata verso un desolato declino, di un sistema economico-finanziario che ha in sé i germi della dissoluzione, molto oltre il semplice «divertimento».

Vai alla barra degli strumenti