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«L’evidenza del suo nulla»

Recensione a:
Emil M. Cioran
Finestra sul nulla
(Fereastrā spre nimic, Gallimard 2019)
A cura di Nicolas Cavaillès
Trad. di Cristina Fantechi
Adelphi, 2022
Pagine 227
in Discipline Filosofiche, 7 novembre 2022

Frammenti sparsi vergati tra il 1943 e il 1945 e poi giustamente abbandonati da Cioran. Il quale però essendo diventato un classico ha il consueto destino di vedere pubblicato tutto ciò che ha scritto. Insieme a delle pagine spesso piangenti, superficiali, teatrali, inevitabilmente moderne, si trovano anche qui delle riflessioni che intrameranno poi le opere maggiori di Cioran.
Una sensata dimensione cosmologica gli fa ad esempio dire che il patetico orgoglio umano si fonda sull’ignorare la misura dello spazio, sul disprezzare gli astri. Ma lo spazio e gli astri hanno il proprio fondamento nell’infinità del tempo, il quale si fa visibile in quella dimensione immensa di fronte alla quale «né la Terra né l’essere umano possono aspirare alla realtà. […] Ma quand’è che la boria della creatura ha raggiunto queste gigantesche proporzioni? L’orgoglio è la risposta dell’uomo alla propria irrealtà, e i suoi atti sono la lotta contro l’evidenza del suo nulla».
Se «la vita è il concetto meno filosofico che vi sia; è tutto ciò che possiamo immaginare di più anti-filosofico», è proprio perché la filosofia è anche vedere il mondo come si presenterebbe a uno sguardo antropodecentrico, nella prospettiva dell’intero, della quale la ζωή è invece parte insignificante.

Essere pagani

Il paganesimo «renaït éternellement à lui-même»1.
Lo fa dove meno lo si attende e nelle forme più diverse poiché «à chacune de leurs renaissances, les dieux se métamorphosent» (Dominique Pradelle, 80). Anche per questo una formula più corretta è ‘paganesimi’, al plurale. Questa ancestrale e antica modalità di intendere la vita e il mondo è infatti per sua essenza plurale, aperta, cangiante, rispettosa della varietà delle forme. Ciò che accomuna i paganesimi è un radicale immanentismo per il quale il dio, i divini, non abitano altrove, non sono il totalmente altro ma costituiscono la manifestazione, il senso, il timore e la gioia d’esserci. Ciò che li accomuna è, in una parola, il sacro: «Dans la philosophie païenne, c’est le divine qui est englobé par le sacré, ce sont les dieux qui procèdent du monde (de l’ ‘être’) et non l’inverse» (Guillaume Faye, 52). È un sentimento del sacro che rifiuta i dualismi, a partire dal dualismo che fonda, esprime e dà identità al giudeo-cristianesimo, «la distinction de l’être créé (le monde) et de l’être incréé (Dieu)» (Alain de Benoist, 13).
In quanto ‘creato’, il mondo è non soltanto diverso dal ‘creatore’ ma gli è naturalmente del tutto inferiore: l’Origine è necessaria, immutabile, eterna; l’originato è contingente, mutevole, finito. L’angoscia che un simile dualismo produce negli umani, che sanno di essere parte del creato e quindi mortali, induce a collocare l’unico luogo e strumento di possibile contatto con l’Originario non nella potenza della materia ma nello spazio dell’interiorità, nella psiche.
In questo modo una delle tante manifestazioni del mondo, il corpomente umano trasformato in anima e quindi ulteriormente impoverito, assume una rilevanza e una centralità del tutto fantasiose, origine ovviamente di ogni pretesa e violenza antropocentrica sul mondo, origine dunque della distruzione. L’obiettivo di tale antropocentrismo psicologico ed esistenziale è la salvezza individuale. Idea, questa, del tutto assente nei paganesimi.
Aver trasformato l’altrove del divino e il qui dell’anima nel luogo della salvezza ha privato di senso, dignità e sacralità il mondo. Nelle sue origini indoeuropee, la parola «dio» si riferisce al cielo, alla grandiosa potenza che gli umani sentivano sovrastare e tessere le loro notti immense e splendenti. Dunque divino è il cielo, è la notte, sono gli astri, è la materia. La vittoria dei monoteismi biblici ha dissolto e infine cancellato questo profondo significato del divino, sostituendolo con delle versioni più o meno esagerate della psiche umana. Dio è diventato una sorta di superuomo (‘il Padre Eterno’) che c’è da sempre, che non muore mai, che sa fare tutto ma che condivide ira, desiderio, gelosie e tutte le altre caratteristiche che il libro ebraico-cristiano attribuisce a Jahvé. Si comprende che i veri atei sono i cristiani, che hanno tolto ogni sacralità al mondo.

Un altro elemento che rende incommensurabili politeismi e monoteismi è il fatto che nei paganesimi la moralità non ha come condizione una qualche regola dettata dal dio – il Decalogo o altro – ma nasce dal rispetto verso la natura che è parte fondamentale dei paganesimi. Una morale prescrittiva, leguleia, minacciosa, passiva ed eteronoma come quella praticata da ebrei, cristiani e islamici, è del tutto assente nell’orizzonte politeistico. I comportamenti dei pagani rispettano o non rispettano le cose in relazione al proprio carattere ed esperienza e non in nome di ordini provenienti dal ‘totalmente altro’.
Uno degli effetti più tragici è che mentre il realismo etico antico sa che l’effetto della benevolenza e della dedizione si stempera e dissolve con la distanza e l’estraneità – mettendo dunque al centro delle relazioni l’amicizia -, il velleitarismo morale cristiano impone invece l’amore universale, il cui effetto è disastroso poiché l’impossibilità di un simile ‘amore’ verso tutti – per tacere di quello verso i ‘nemici’ –  induce a giustificarsi continuamente con se stessi e a inventare tutta una casistica comportamentale che di fatto dissolve ogni sincerità e ogni possibilità di relazioni corrette tra le persone.

Essere pagani nel XXI secolo non ha nulla a che vedere con miti regressivi, con culti New Age di vario tipo, con esoterismi e occultismi privi di senso e francamente bizzarri, con l’adesione a ‘chiese pagane’ che con le loro gerarchie e testi sacri rappresentano la brutta copia di quelle cristiane, pretendendo adesioni dottrinararie del tutto aliene dai paganesimi. Essere pagani oggi significa, come sempre, percorrere «une voie sévère, à la fois poétique et spartiate, une colonne vertebrale et un souffle – le pneuma des anciens Grecs» (Christopher Gérard, 103).
Per comprendere e vivere tutto questo è assai feconda la distinzione formulata da Michel Onfray, filosofo materialista e anarchico, tra paganesimi e politeismi. I primi costituiscono delle religioni dell’immanenza «en vertu de laquelle l’homme n’est pas séparé de la nature ou du cosmos, mais partie prenante au même titre qu’un ruisseau ou qu’une forêt»; il politeismo poi «associe ces forces à des divinités. Le paganisme est une sagesse philosophique ; le polythéism, le début de la sagesse religieuse» (66).
Essere pagani significa cercare di vivere con misura e con gioia, consapevoli dei limiti dell’esistere e pronti però a coglierne le tante possibilità.


Nota
1. Pascal Eysseric, in Sagesses païennes «Éléments pour la civilisation européenne», numero hors-série, n. 1 – Juin 2022, p. 3. Indicherò tra parentesi nel testo i successivi riferimenti agli autori e ai numeri di pagina della rivista.

Narciso

Piccolo Teatro Studio – Milano
Carbonio
Scritto e diretto da Pier Lorenzo Pisano
Con Federica Fracassi e Mario Pirrello
Scene di Marco Rossi
Sino al 3 luglio 2022

Il carbonio – C – si trova dappertutto nell’universo ma qui è assunto come sinonimo di vita terrestre. La vita degli animali, la vita delle piante, la vita degli elementi atmosferici, la vita insomma. Ma per la prima volta un essere umano ha un contatto (di due minuti ma ce l’ha) con qualcosa che non è fatto di carbonio. E diventa quindi impossibile spiegare che cosa sia «perché non abbiamo termini di paragone». Un’esperta -non si sa se psicologa, chimica, spia, magistrato- gli pone domande su domande per tentare di comprendere di che cosa si sia trattato e quali potrebbero essere le conseguenze di quell’incontro, che pure è stato ripreso da moltissimi video. Ma nulla si riesce a capire e a sapere.
Scavando scavando tuttavia emergono possibilità e spiegazioni chiaramente ispirate all’ipotesi del multiverso formulata dal fisico Hugh Everett, della quale un altro fisico, Lee Smolin, dice giustamente che «non potrà mai essere verificata o falsificata, il che pone questa fantasia al di là dei confini della scienza. Ciò nonostante, non pochi fisici e matematici stimati difendono questa idea» (La rivoluzione incompiuta di Einstein. La ricerca di ciò che c’è al di là dei quanti, trad. di S. Frediani, Einaudi 2020, p. XVII). Si tratta infatti di una «interpretazione a molti mondi della meccanica quantistica» per la quale gli eventi hanno tutti dei sviluppi diversi e alternativi rispetto a quelli che vediamo nella nostra realtà, e tali sviluppi creano un numero infinito di mondi; «affinché la cosa funzioni, ciascuna versione di un osservatore non deve avere modo di comunicare con gli altri: i rami devono essere autonomi» (Ivi, p. 122). Il desiderio del protagonista che un preciso evento abbia avuto sviluppi e conseguenze diverse da quelle che ha avuto sembra coniugarsi all’incontro con l’alieno, producendo una frattura nel reale che è l’inevitabile premessa dell’assurdo. Scrive infatti ancora Smolin che «la conseguenza più provocatoria e, per me, sgradevole dell’ipotesi di Everett è che dobbiamo credere che ognuno di noi abbia un numero infinito di copie, ciascuna viva e cosciente esattamente come noi. Fa pensare alla fantascienza più che alla scienza, ma sembra proprio che sia una conseguenza diretta dell’ipotesi di Everett» (Ivi, p. 144). In questo modo infatti siamo noi a nostra volta una delle tante copie. La realtà si dissolve.
A tale insensatezza fisico-chimica, Pier Lorenzo Pisano aggiunge riferimenti politici (uno, che tra qualche tempo diventerà incomprensibile, anche a Trump), drammi familiari, tracimazioni psicologiche. Insomma un minestrone drammaturgico che alla fine rende non soltanto incoerente il risultato ma a tratti lo fa anche noioso.
Lo spettacolo ha una struttura duplice: al dialogo serrato tra Lui e Lei si alterna la presenza dello stesso autore che fa vedere e spiega alcune delle immagini e dei simboli inviati nello spazio interplanetario (e  si prevede poi anche oltre) con le due sonde Voyager nel 1977. Pisano fa giustamente notare con ironia la bruttezza e l’incomprensibilità di molte di queste immagini, il cui scopo dovrebbe consistere nel comunicare a una ipotetica civiltà aliena il modo in cui siamo fatti ed esistiamo. Ancora una volta presupponendo che a tali civiltà importi sapere qualcosa di noi e che adottino dei codici compatibili con i nostri. «Vanitas vanitatum homo» (Nietzsche, Umano, troppo umano II, «Opere» IV/3, Adelphi 1967, af. 12, p. 141). Si potrebbe definire così Homo sapiens: mammifero di grossa taglia, quasi interamente glabro, caratterizzato da un complesso apparato fonatorio-linguistico e con tendenze fortemente narcisistiche.
Per cercare di temperare il narcisismo del ‘carbonio’ umano – un poco patetico e un poco patologico – si può ricordare un’altra saggia osservazione nietzscheana, secondo la quale «Hüten wir uns, zu sagen, dass Tod dem Leben entgegengesetzt sei. Das Lebende ist nur eine Art des Todten, und eine sehr seltene Art (Guardiamoci dal dire che morte sarebbe quel che si contrappone alla vita. Il vivente è soltanto una varietà dell’inanimato e una varietà alquanto rara)» (La gaia scienza, trad. di F. Masini, «Opere» V/2, af. 109, p. 118).
Si può aggiungere, una varietà alquanto malaticcia.

Stefano Palumbo su Animalia

Stefano Palumbo
Recensione a Animalia
 in Scienza & Filosofia
numero 26 / dicembre 2021
Pagine 234-238

«Recuperando una visione dell’essere umano nella sua dimensione biologica, considerando cioè l’animale umano per quello che è, e cioè un animale tra gli animali, è possibile aprirsi alla costruzione di nuovi orizzonti interpretativi dell’umano sull’umano stesso, di coniare cioè un’antropologia che sia anche un’etologia.
È esattamente attorno a questo snodo, tra scienze biologiche e filosofia, che si muove il saggio di Alberto Giovanni Biuso – Animalia. Un saggio agevole e di facile consultazione, ricco di spunti e di suggestioni multidisciplinari interne al “problema” dell’animalità in tutte le sue declinazioni particolari. […]
L’umano è invece immerso in una complessa matrice naturalculturale, è cioè dipendente da entrambe le dimensioni, che sono un tutt’uno e che forniscono la base della sua esperienza sempre in divenire, e sempre in relazione con l’altro da sé. L’umano è cioè sempre e innanzitutto un animale, per quanto possa sforzarsi di negarlo, attraverso la sicumera delle sue elaborate costruzioni linguistico-concettuali; la sua specifica filogenesi, il suo “allevamento” come essere materiale messo in forma dall’evoluzione e sempre imbrigliato nel qui e ora della temporalità e delle relazioni, specie-specifiche ed eterospecifiche, conterrebbe già al suo interno l’urgenza della fondazione di una nuova eto-antropologia». 

Corpo / Corporeità

Per coloro i quali, dalle prospettive più diverse, vogliano andare oltre il venerabile ma ontologicamente debole dualismo tra anima e corpo, indagare le tematiche relative alla corporeità è fondamentale. Ma, come scriviamo nell’editoriale del numero 26 di Vita pensata (gennaio 2022), «corpo» è un termine polisemantico, che non si riferisce soltanto all’umano né soltanto al vivente, vegetale o animale che sia.
In filosofia corpo è anche sinonimo di ‘ente’, ‘cosa’, ‘oggetto’. E così lo hanno inteso gli autori di questo numero della rivista. I quali si occupano certamente in gran parte della corporeità biologica ma anche delle sue strutture fisiche e metafisiche. Confidiamo in questo modo di aver ribadito un invito che si fa sempre più urgente: l’invito a pensare la complessità, ad affrancarsi dalle varie forme di riduzionismo che ancora pervadono le filosofie e la vita collettiva, a comprendere la varietà delle strutture individuali e sociali che stanno alla base di un’esistenza non ridotta e non riducibile al solo inspirare/espirare e non ridotta né riducibile alla sola vita dello spirito.
Ai corpi come li intende la fisica è dedicato un vivace saggio del fisico Alessandro Pluchino; del significato metafisico dei corpi ho cercato di occuparmi io in una recensione dedicata a un libro del filosofo statunitense Graham Harman, uscito nel 2018 e da poco tradotto in italiano. Per una forse comprensibile ma in ogni caso implausibile e bizzarra abitudine e tendenza, gli esseri umani ritengono che nell’innumerabile insieme di corpi, enti, oggetti e cose uno di essi occupi un luogo speciale, possieda un’ovvia centralità, sia il parametro del significato e del valore di tutti gli altri enti, tanto che, in particolare dal pensiero cartesiano in avanti, ha preso forza «la strana convinzione moderna secondo cui la nostra specie umana, pur essendo alquanto minoritaria, meriti di occupare un buon cinquanta percento di tutta l’ontologia» (Harman, p. 68). Convinzione strana, triste e anche un poco patetica «visto che esiste un numero infinito di composti che non hanno al loro interno nemmeno una componente umana» (85).
Sono stati numerosi nel corso della storia i momenti e le forme nelle quali questa tendenza antropocentrica è stata in vari modi decostruita. La Object-Oriented Ontology critica tale tendenza con argomenti originali, alcuni evidenti e altri più complessi, dei quali la mia recensione cerca appunto di discutere.
Corporeità biologica, fisica, metafisica e poetica. Il numero si chiude infatti con una silloge di Eugenio Mazzarella: sei composizioni dal titolo Corporea / Stare nel corpo.
L’auspicio è che ogni testo di questo numero della rivista possa contribuire a fare luce sul labirinto, la bellezza e il dramma dello stare al mondo.

 

Stefano Piazzese su Animalia

Stefano Piazzese
Recensione a Animalia
in Discipline Filosofiche (6 ottobre 2021)

«Una visione antica dell’essere umano, certo, ma formulata in modo nuovo, come nuova è ogni teoresi che nel suo inseparabile legame con la storia del pensiero non rinuncia a risemantizzare ogni ambito dello spazio e del tempo. E qual è la visione che qui si ha dell’essere umano? Un ente in natura riconciliato con la sua dimensione ontologica fondamentale (che è suo fundamentum), la sua animalità. Un’animalità che finalmente riconosce il suo simile, il quale non è circoscritto solo al cerchio ristretto degli altri Homo sapiens; qui il simile è l’animale in quanto tale. […]
Qui si traccia una linea di demarcazione netta, il limes sacro, tra la violenza rituale della religione greca e la violenza indiscriminata, ingiustificata di Homo Sapiens nei confronti degli altri animali per qualsiasi motivazione (alimentazione, sperimentazione, addomesticamento, puro sadismo); violenza che consiste in una vera e propria mortificazione ontologica. È possibile condividere, nei limiti in cui lo può fare un carnivoro, certo, la tesi di fondo, che può essere espressa nel seguente modo: recuperare la dimensione del sacro vuol dire abitare nella consapevolezza di un mondo trasfigurato, dove è bandita ogni forma di violenza che continuamente viene gridata dai nostri simili trucidati per il puro piacere».

Sulla Teoria critica

Potenza e limiti della Teoria critica
in Dialoghi Mediterranei
Numero 48, marzo-aprile 2021
Pagine 478-487

Indice
-Adorno e Horkheimer, la dialettica
-Adorno, la potenza
-Adorno, i limiti
-Marcuse, l’utopia
-Lo spettacolo, la realtà, il simulacro

La Teoria critica è un segno negativo di resistenza assai più che un’apertura totalistica verso il Sole dell’avvenire. La scrittura di Adorno è essa stessa un segno della irriducibilità del suo pensiero a ogni ovvietà, alla strumentalizzazione del semplice, alla complicità con la preponderanza del numero. Uno dei suoi meriti maggiori consiste nel vedere la barbarie che pulsa al cuore del sentimentalismo moderno, dell’umanesimo antropocentrico, dell’adulazione verso le masse, del culto per il semplice. Tutti elementi, questi, nei quali «un umanesimo radicale porta con sé la minaccia latente  dell’imperialismo della specie, il quale ritorna infine a perseguitare le stesse relazioni umane».
Dialettica dell’Illuminismo non è soltanto un classico della sociologia filosofica del Novecento ma è anche una sorta di avviso sempre vivo su come sia possibile che dalle migliori intenzioni, da una razionalità senza incertezze, si possa generare una tonalità individuale e collettiva che conduce a forme politiche fortemente autoritarie, ai fascismi, alle tecnocrazie neoliberiste.
La dimensione dialettica che pervade anche la riflessione di Marcuse rivela subito la dinamica hegeliana della contraddizione che oltrepassa lo stato di cose esistente verso esiti tra loro diversi. La stessa Ragione che può liberare dal bisogno e dal male può anche asservire a nuovi bisogni, a nuovi mali. Per Marcuse il filosofo non è un medico, non ha il compito di guarire gli individui ma ha il dovere di comprendere il mondo in cui essi vivono, capire la realtà che hanno costruito. E però la filosofia non sorge sul far del crepuscolo, non si limita a prendere atto del reale. Il fatto stesso di comprenderlo è l’inizio del superamento. Questa dimensione propulsiva del sapere è per Marcuse assente da posizioni come quelle neopositiviste e analitiche, nello scientismo riduzionistico e nelle filosofie del linguaggio che si limitano a consacrare il dominio dei luoghi comuni.
Per parafrasare Horkheimer e Adorno, la terra tutta virtuale splende all’insegna di sventurata realtà. La vita è diventata riproduzione di figure dietro e dentro le quali non si dà nulla se non la perpetuazione del dominio di chi possiede gli strumenti della rappresentazione rispetto a chi non li detiene.
Baudrillard sintetizza tali dinamiche della politica contemporanea nella formula dura ma efficace «della leucemizzazione di tutta la sostanza sociale: sostituzione del sangue con la linfa bianca dei media». Coinvolti in questa leucemizzazione, i partiti e i sindacati “rappresentanti dei lavoratori” sono in realtà diventati i loro nemici e il segno monetario si disconnette «da qualsiasi produzione sociale: esso entra allora nella speculazione e nell’inflazione illimitata». È esattamente quanto sta accadendo negli anni Venti del XXI secolo.

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