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Dimenticare

Prefazione a:
Disobbedire alla mente errante
di Vincenzo Di Spazio
Edizioni Spazio Interiore
Roma 2021, pp. 112
Pagine 7-12

I testi dei pazienti di Enzo Di Spazio – tutti riprodotti nell’originale delle scritture di ognuno – sono espressione sia della banalità del male che intesse le vite, sia della sua così enigmatica profondità. Un enigma che da molti anni l’autore studia sulla base di una consapevolezza fondamentale: che l’umano sia tempo incarnato (embodied time) e che ogni evento di questa nostra vita si installa nel corpomente sino, a volte, a stritolare la persona, «facilitando così la malattia e infine la morte».
La dimensione temporale della psiche genera anche molta inquietudine, frutto dell’essere l’umano una wandering mind, di possedere «la capacità di spostarci a piacimento lungo il cursore del tempo lineare per tuffarci nel passato e per proiettarci nel futuro», dell’essere noi tutti una mente errante tra i ricordi traumatici che paralizzano e le angosciose attese che anch’esse paralizzano. Rompere queste paralisi e fare dell’organismo, degli arti, dell’intera corporeità una realtà dinamica è uno degli obiettivi delle diverse terapie che Di Spazio pratica e propone.
Come questo libro ben mostra, l’umano e la sua salute sono costituiti da una memoria viva che si muove nello spaziotempo dei ricordi che abitano il corpo e dagli eventi che si susseguono nel mondo. Entrambi, ricordi ed eventi, non possiedono la struttura massiccia e uniforme di una strada e del muro che la delimita, non sono rigidi e continui ma somigliano alla complessità delle isole di un arcipelago, che emergono dal mare profondo del tempo. 

Isotta e la psichiatria

Mente & cervello 110  – febbraio 2014 

M&C-110_febbraio_2014«Ma ancora oggi non esistono rimedi efficaci contro l’amore, e noi continuiamo a essere assolutamente indifesi di fronte ai suoi effetti» (S. Dieguez, p. 31). Che cos’è dunque la pozione che ogni volta ripete l’incanto che attirò senza scampo Tristano e Isotta dopo che ebbero casualmente bevuto dalla stessa coppa? Già la tradizione di questo mito distingue tra una versione per la quale i due erano reciprocamente indifferenti, e soltanto la chimica li spinse l’uno verso l’altra, e una diversa tradizione trobadorica secondo la quale «la pozione avrebbe unicamente l’effetto di rivelare e rafforzare un amore già presente in Tristano e Isotta» (34). Nella prima versione l’effetto svanisce dopo alcuni anni, nella seconda dura per sempre. In ogni caso l’amore sembra davvero -anche neurologicamente- «‘cieco’, perché gli affetti positivi non coinvolgono le aree responsabili della formazione dei giudizi sociali e impediscono la valutazione razionale e obiettiva della persona» (36). Un amore che in realtà nasce da noi, non soltanto come «riflesso della nostra tenerezza» (Proust) ma anche come capacità del corpo di produrre la pozione, il filtro magico che ci avvinghia, dopamina, ossitocina, endorfine: «La ‘sostanza’ dell’amore, nelle ricerche scientifiche, è prodotta dal corpo stesso. Il corpo sarebbe dunque, in qualche modo, un mago che incanta se stesso» (36).
Contrariamente a una convinzione assai diffusa, «la palma del romanticismo spetta agli uomini, più portati delle donne a una visione sentimentale dell’amore» e ciò per una ragione evolutiva che consiste nel fatto che mentre il maschio può affidarsi senza gravi conseguenze al desiderio e alla passione, «le donne hanno sempre dovuto essere prudenti nella scelta del partner e del padre dei loro figli» (P.E. Cicerone, 28). Maschi o femmine che si sia, nella sessualità domina un «primato della mente» che qualche volta impedisce  di arrivare all’orgasmo, ostacolato da un insieme densissimo di pensieri e di preoccupazioni, tra cui anche il dare e ricevere piacere. (K. Sukel, 45).
Non so in che modo l’amore compaia nella più recente versione -la quinta- del  DSM, il Manuale Diagnostico usato dagli psichiatri di tutto il mondo e sempre più caratterizzato da una visione onnipervasiva della malattia mentale. Contro l’invenzione delle malattie si intitola infatti l’intervista rilasciata da Allen Frances, direttore della precedente versione del manuale e ora decisamente (auto)critico verso ciò che definisce una vera e propria «inflazione diagnostica» (66), sempre più rivolta a «trattare farmacologicamente i normali problemi dell’esistenza» (69).  Frances afferma con chiarezza «che alcuni comportamenti fanno parte della natura umana. Non possiamo pretendere che le persone non siano più timide, tristi o arrabbiate. Le emozioni ci aiutano a sopravvivere, si dovrebbe intervenire solo quando la sofferenza diventa paralizzante e compromette il normale funzionamento della vita. Ma negli ultimi anni questa soglia è stata abbassata» (67). Un potere, quello della psichiatria, che si basa anche sulla capacità che la mente possiede di riplasmare semanticamente gli eventi e persino di inventare ricordi di fatti mai accaduti, come hanno dimostrato i lavori di Elizabeth Loftus. Le conseguenze in ambito giuridico -sulla plausibilità delle testimonianze oculari, ad esempio- sono consistenti e non devono farci dimenticare «che gli psicoterapeuti sono le persone che più facilmente possono manipolare i ricordi di un individuo, fino a portarlo ad accusare i propri familiari di crimini e molestie mai accadute» (D. Ovadia, 73).
Tale medicalizzazione della vita interiore è assai grave se si pensa che molti degli stati di inquietudine e di tormento affondano nella genetica. Le ricerche più recenti danno ragione ai lavori di Vincenzo Di Spazio, il quale da tempo sostiene che «anche un’esperienza negativa dei genitori può passare ai figli attraverso modifiche epigenetiche che lasciano un’impronta duratura. Numerosi studi hanno indicato che un trauma subito dai genitori può far sì che nei figli si manifestino disturbi di tipo depressivo» (A. Oliverio, 18). È un grande risultato, questo, che spiega meglio anche la Stimmung, la tonalità emotiva che percorre le nostre vite e che non dipende soltanto da quello che ci accade ma anche da un carattere che affonda negli eventi vissuti da coloro dai quali siamo germinati. Fuori dal nostro controllo dunque. Soltanto essendo consapevoli di tale potenza del tempo nei corpimente possiamo cercare di ridurne i più dolorosi effetti.

 

Orologi biologici

I RITMI DELLA VITA
Gli orologi biologici che controllano la vita quotidiana di ogni essere vivente
di Russel Foster – Leon Kreitzman
(Rhythms of Life, 2004)
Trad. di Isabella C. Blum
Prefazione di Lewis Wolpert
Bollati Boringhieri, 2011
Pagine 359

Forse due milioni, forse cento, probabilmente dieci. È il numero di specie viventi che abitano il pianeta Terra. Da circa tre miliardi di anni tutte queste entità animali e vegetali vivono seguendo un ben preciso orologio biologico, senza il quale non esisterebbero; transitano nell’essere sincronizzando i propri ritmi endogeni con quelli del cosmo, che per noi terrestri significa con i ritmi di rotazione della terra intorno al proprio asse e intorno alla stella che ci dà energia. «Il tempo è racchiuso nei nostri geni» afferma Lewis Wolpert nella Prefazione al libro (p. 7); «È proprio il nostro rapporto con il concetto di tempo a renderci umani» scrivono i due autori a chiusa del testo (299) e tuttavia la medicina contemporanea non riconosce ancora la fondamentale importanza della tempistica nella somministrazione delle terapie; l’importanza della cronobiologia nei test di tossicità dei farmaci (ratti e topi sono animali notturni rispetto all’uomo animale diurno e questo influisce enormemente sui risultati clinici 1); l’importanza della relazione profonda e costitutiva tra il corpomente e il cosmo, tra ciò che gli autori chiamano “giorno interno” e “giorno esterno”.  Gli orologi biologici sono infatti «regolati quotidianamente al levarsi e al calar del sole in modo da sincronizzare il tempo interno dell’organismo sul tempo astronomico» (11). Se la medicina occidentale trascura gravemente questa struttura temporale dei corpi, «la medicina cinese» -afferma l’oncologo Bill Hrushesky- «riconosce da più di 5000 anni che la dose non può essere isolata dal concetto di tempo» (cit. a p. 269).
I ritmi che intridono e costituiscono la natura sono molti -quotidiani, mensili, annuali- e hanno come base l’intervallo naturale delle 24 ore. Circadiano è dunque il ritmo che segue la scansione del giorno e della notte; nonostante gli artifici luminosi consentiti dall’elettricità il corpo umano è ancora totalmente sincronizzato su tale ciclo. Ultradiano è il ritmo inferiore a un giorno e dunque con frequenza più alta (come il battito cardiaco). Infradiano è l’inverso: un ritmo con una frequenza più bassa e quindi con un periodo più lungo (come il ciclo mestruale). Altri cicli importanti sono quelli interditali (maree), lunari, i ritmi non ripetibili del nascere e del morire. Per gli umani è talmente importante la scansione del tempo da indurli a inventare ritmi diversi da quelli naturali anche se sempre legati a essi. Intervalli come il secondo, il minuto, l’ora, la settimana non esistono in natura e costituiscono un tentativo di abitare e vivere meglio le partizioni cosmiche del giorno e dell’anno.
In ogni caso, nessuna comprensione della vita -della sua fisiologia, della patologia- è possibile fuori dalla struttura temporale che il corpo è. Le ricerche di Foster e Kreitzman sono ormai un classico della biologia proprio perché ricordano con chiarezza e determinazione questa semplice ma fondamentale verità. E lo ricordano ai biologi e ai medici, a coloro per i quali essa dovrebbe risultare evidente. Il luogo cerebrale nel quale i ritmi cronobiologici si generano è infatti il nucleo soprachiasmatico formato da poche cellule  -ventimila circa- collocate nella parte anteriore dell’ipotalamo: «Questo minuscolo gruppo di cellule, il cui volume ammonta a meno di un terzo di un millimetro cubico, è stato definito “orologio della mente”» (92). Al di là di questa localizzazione, il risultato più importante delle ricerche cronobiologiche -condotte in Italia con particolare cura da Vincenzo Di Spazio– è che la temporalità dei mammiferi (e quella umana in particolare) è diffusa in tutto il corpo, tanto che «oggi si parla più spesso di sistemi circadiani, poiché sta diventando chiaro che, sebbene in alcune specie probabilmente esista un orologio centrale, nella maggior parte di esse la scansione del tempo è distribuita in tutto l’organismo» (15-16). E questo significa che siamo fatti di tempo, alla lettera. Tempo genetico, tempo cosmico, tempocoscienza costituiscono un unico battito della materia consapevole di sé, dell’energia che scaturisce, si modula e si esaurisce. È tale battito profondo e inarrestabile che definiamo con i termini diversi di mondo, natura, umanità.
La biologia del tempo ha anche scoperto che tutto questo è una cosa sola con la luce. È la luce, infatti, a costituire il più potente e pervasivo Zeitgeber, il segnatempo al quale i corpi animali e vegetali affidano la regolarità delle proprie strutture vitali. La luce «mantiene il meccanismo sincronizzato con l’alba e il tramonto» (34) e permette dunque ai corpi di sincronizzarsi con l’intero volgere della Terra e del Sole. Con il segno τ è indicato il periodo naturale di un ritmo biologico free-running, il ritmo endogeno tenuto da un sistema circadiano in condizioni costanti.
Queste scoperte biologiche confermano con evidenza ciò che la metafisica ha pensato in modi diversi ma convergenti: la luce è la sostanza stessa del mondo; il movimento ripetuto, ritmico, eterno della materialuce è il tempo.

Nota

1. Robert Burns spiega che se «a mezzogiorno la sostanza chimica non ha dato luogo ad alcun tumore […] se la stessa dose fosse stata somministrata a mezzanotte, tuttavia, ossia in un momento di massima suscettibilità dell’evento biochimico studiato, il 40% degli animali avrebbe sviluppato un tumore al fegato e il composto sarebbe stato classificato come cancerogeno e non sicuro» (cit. a p. 268).

Mente & cervello 80 – Agosto 2011

Schopenhauer sostiene che «il mondo in cui un uomo vive dipende anzitutto dal suo modo di concepirlo. […] Quando ad esempio degli uomini invidiano altri per gli avvenimenti interessanti in cui si è imbattuta la loro vita, dovrebbero piuttosto invidiarli per la dote interpretativa che ha riempito siffatte vicende del significato, quale si rivela attraverso la loro descrizione» (Parerga e Paralipomena, tomo I, Adelphi 1981, p. 426). La cosiddetta “psicologia positiva” non fa che confermare questa natura ermeneutica della serenità, invitando a «imparare a gustare l’esperienza vissuta o a portare nuovamente il proprio pensiero su certi aspetti di un evento che ci ha resi felici» (R. Shankland e L. Bègue, 29). Di fronte all’enigma e alla durezza della vita bisognerebbe evitare sia ogni ottimismo superficiale sia una costante cupezza e praticare invece un ottimismo temperato che ci faccia essere «pessimisti solo per il tempo necessario», anche perché «essere ottimista è un vantaggio: anzitutto gli ottimisti sono in generale più felici della media, anche quando si trovano in situazioni difficili» (M. Forgeard e M. Seligman, 37 e 33). Essendo l’umano un’unità psicosomatica, l’energia con la quale evitiamo di dare un peso troppo angosciante alle difficoltà quotidiane salvaguarda la salute delle nostre cellule.

Sbagliare, ad esempio, è umano e lo è anche continuare a commettere certi errori, poiché «l’errore non è una ragione per rinunciare. Si tratta invece di una conseguenza naturale di funzioni spirituali, che ci permettono di adattarci in modo più flessibile a un ambiente complesso. Così anche l’ostinata sicurezza ha un proprio valore, perché rafforza la fiducia nelle proprie capacità. E senza questo sentimento non riusciremmo neppure ad attraversare una strada» (A. Gielas, 83). Energia e disincanto, autostima e accettazione dei propri limiti non sono affatto in contraddizione e se coniugati ci aiutano a dare un maggiore equilibrio al nostro Sé, che è in realtà il «prodotto di una serie distribuita di strutture cerebrali» (U. Herwig, 72), alle quali Antonio Damasio ha dato il nome di proto-sé, sé nucleare e sé autobiografico. Anche Thomas Nagel e Roland Puccetti sostengono che «siamo in effetti l’unione di almeno due io, uno prevalente perché “insediato” nell’emisfero sinistro, funzionalmente responsabile delle capacità linguistiche e quindi “parlante”; l’altro meno appariscente poiché connesso all’emisfero destro, che sovrintende alle capacità geometriche e di visualizzazione e in ultima analisi “muto”» (S. Gozzano, 9). Ipotesi che Julian Jaynes ha formulato e spiegato in maniera profonda e suggestiva nel suo Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza (Adelphi, 2002).

La nostra identità si esprime in ogni gesto, espressione, postura, manifestazione, parola, decisione. Compreso l’abbigliamento. Numerose esperienze, alcune delle quali anche divertenti e riassunte alle pp.  84-89, hanno ormai dimostrato in modo convincente che l’abito fa il monaco, poiché «i vestiti sono ciò che più si nota in una persona, dopo il volto» (N. Guéguen, 89). Il nostro Sé affonda nella terra, nei suoi ritmi e nella sua potenza. E questo è vero alla lettera se si pensa che un comune batterio che vive nel terreno, il Mycobacterium vaccae, se iniettato in malati di cancro migliora il loro umore. La biofilia -il legame con la natura- della quale parla Edward O. Wilson è una caratteristica che per fortuna non perderemo mai, dato che l’Homo sapiens è un mammifero di grossa taglia che «necessita del contatto con la natura per mantenersi sano e felice» e questo accade anche e soprattutto dentro gli agglomerati urbani (K. Wilhelm, 92).

Nutrire fiducia, vivere con energia, saper accettare limiti ed errori come qualcosa di fisiologico, essere consapevoli che siamo natura e siamo molteplici potrebbe aiutare non soltanto noi ma anche i nostri discendenti, se è vero che «variazioni di espressione genica che perdurano per l’intera vita […] si trasmettono addirittura alle generazioni successive, come una memoria genetica trasmessa ai figli per prepararli al mondo che li attende» (G. Sabato, 59), quella memoria genetica di cui le ricerche di Vincenzo Di Spazio danno ampia testimonianza.

Uno dei maggiori limiti di Mente & cervello è lo stesso di molta neurobiologia: dare per ovvio il valore della sperimentazione sui cosiddetti “animali da laboratorio”. Una formula inaccettabile e la cui insensatezza emerge qualche volta anche in queste pagine. Come nell’affermazione di Giovanni Sabato quando riconosce che «quel che vale nel topo non necessariamente vale per l’essere umano, come sanno i farmacologi» (55). È bene che lo sappiano tutti e che la smettano -farmacologi, neurobiologi, psicologi, medici- di torturare gli altri animali.

Mente & Cervello 51 – Marzo 2009

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La memoria corporea -la più radicale e costante- si struttura e consolida nel sonno, il quale «è un processo poderosamente attivo (…) determinante per la buona qualità della nostra vita, in particolare per le attività cognitive più raffinate, come la memoria» (P.Garzia, p. 104). Dormire bene -e cioè profondamente e tra le sei e otto ore per notte- è nello stesso tempo causa ed effetto di un’esistenza equilibrata.

Misura che manca del tutto alle molteplici espressioni della follia che questo numero di M&C documenta, a volte in modo anche crudo.

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