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Sapienza

Recensione a:
IL SAPERE GRECO
Dizionario critico
(Le savoir grec, Flammarion, Paris 1996)
a cura di Jacques Brunschwig e Geoffrey.R. Lloyd, edizione italiana a cura di Maria Luisa Chiesara, Einaudi 2007
2 volumi, pagine  XL-646 e XII-626
in Diorama Letterario – numero 367 – Maggio/Giugno 2022
pagine 35-37

La filosofia è un itinerario nella conoscenza e nell’essere, nella gnoseologia e nell’ontologia. Nulla a che vedere con new age di vario tipo o con semplici filologie che frugano tra i testi e i monumenti per trovarvi qualcosa di commestibile, vale a dire di non troppo indigesto agli stomaci contemporanei.
L’apprendimento iniziatico non consiste né in sentimentalismi di massa né in tecnologie erudite ma significa trasformare se stessi e la vita in un mezzo di conoscenza.
Anche per questo la filosofia è una forma di iniziazione, una delle più profonde, rigorose, universali. E una delle più oggettive perché fatta non di riti che l’andare della storia porta al culmine e alla deriva, non di contenuti accessibili a ristrette cerchie, ma di testi che ognuno e tutti possono tenere in mano e scorrere per attingervi spiegazioni, domande, risposte.
La filosofia non nega il cammino a nessuno. Sono i singoli camminanti che si fermano o neppure cominciano, pensando che si tratti di illusione o di semplice chiacchiera. E invece si tratta di saper vedere, dell’esercizio che ha una delle sue massime espressioni nei racconti platonici della Repubblica (514 a – 520 a) e del Fedone (109 b-d): un itinerario dalla prigionia dell’oscurità allo splendore del manifesto. Vedere è il compito del saggio e del sapiente, vedere e comunicare agli altri ciò che si è visto, attraverso la parola che si fa scrittura.

[L’immagine di apertura è di Elvia Giudice]

Siddharta

Hermann Hesse
Siddhartha
(1922)
Traduzione di Massimo Mila
Adelphi, 1987
Pagine 169

Siddharta, figlio di un brahmino, conosce e pratica la preghiera e il culto verso gli dèi, ma non se ne accontenta. Diventa un Samana, pellegrino, povero, mendicante. Impara il saper pensare, aspettare e digiunare, ma non se ne accontenta. Incontra e ascolta il Buddha e da lui riceve l’indicazione fondamentale: la santità non sta nelle idee ma nell’essere. Per questo non rimane fra i discepoli del Sublime e s’immerge tra la gente, nei commerci, nella ricchezza. Conosce l’amore di una donna, pratica il gioco e ogni godimento, ma non se ne accontenta. Diventa amico e discepolo di un barcaiolo che sa sentire la voce saggia e senza fine del fiume. Da lui impara l’ascoltare e apprende una serenità senza macchia. Per la prima volta ama e soffre per un essere umano: il figlio, verso il quale «il suo amore, la sua tenerezza, la sua paura di perderlo» si rivelano più forti di ogni meditazione e di ogni sapere (p. 141).
Alla fine di questo itinerario tra le forme molteplici del vivere, Siddharta è diventato ciò che è: un sorriso del mondo, la sapienza dell’unità, la perfezione dell’essere.

E così parve a Govinda, questo sorriso della maschera, questo sorriso dell’unità sopra il fluttuar delle forme, questo sorriso della contemporaneità sopra le migliaia di nascite e di morti, questo sorriso di Siddhartha era appunto il medesimo, era esattamente il costante, tranquillo, fine, impenetrabile, forse benigno, forse schernevole, saggio, multirugoso sorriso di Gotama, il Buddha, quale egli stesso l’aveva visto centinaia di volte con venerazione. Così – questo Govinda lo sapeva –  così sorridono i Perfetti (168).

Su tutto domina una dimensione di totale interiorizzazione. Nella solitudine di colui che cerca, nella sua anima, si svolgono la vicenda, la fatica, la gioia del mondo. A lui si apre lo spettacolo iridescente e sempre uguale della forme e degli umani. Quegli umani che Siddharta insieme ama e disprezza, uomini-bambini (così li chiama) afferrati da passioni, dolori, soddisfazioni per enti ed eventi che agli occhi del saggio rappresentano un gioco.
Gli uomini, i molti, «sono come una foglia secca, che si libra e si rigira nell’aria e scende ondeggiando al suolo. Ma altri, pochi, sono come stelle fisse, che vanno per un loro corso preciso, e non c’è vento che li tocchi, hanno in se stessi la loro legge e il loro cammino» (93).
A Siddharta, stella variabile e insieme ferma, gli eventi e il divenire rivelano alla fine la loro cifra più nascosta: il senso delle cose non è oltre e dietro di loro ma nelle cose stesse, nel loro tutto, nell’intero del quale è parte anche il tempo come increspatura dell’immobile infinità dell’essere. Ogni cosa è dunque perfetta:

In quell’ora, Siddhartha cessò di lottare contro il destino, in quell’ora cessò di soffrire. Sul suo volto fioriva la serenità del sapere, cui più non contrasta alcuna volontà, il sapere che conosce la perfezione, che è in accordo con il fiume del divenire, con la corrente della vita, un sapere che è pieno di compassione e di simpatia, docile al flusso degli eventi, aderente all’Unità (156).

Il mondo è perfetto, la Necessità lo governa. Sapienza è benedire la vita al di là di ogni passione, pensiero o dottrina. Ciò che va non può andare diversamente, ciò che accade non può in altro modo accadere. Il sorriso del Perfetto è l’ironia stessa di una sapienza senza trascendenze, riscatti, salvezze, senza senso alcuno. Sapienza del vuoto e del nulla che è l’altra parola per l’essere.
Lo stesso disincanto, gaiezza e sorriso di Spinoza. Lo stesso disincanto, gaiezza e sorriso dei Greci.

Il travaglio del negativo

American Animals
di Bart Layton
Con: Barry Keoghan (Spencer), Evan Peters (Warren), Jared Abrahamson (Eric), Blake Jenner (Chas)
USA, 2018
Trailer del film

Agiati, amati, coccolati. Tutti, tranne forse uno. Studenti più o meno di successo. Quattro tipici giovani statunitensi che nel 2003 tentarono di rubare alcuni preziosi volumi della Transylvania University di Lexington (Kentucky), soprattutto un libro che contiene magnifiche immagini di animali, uccelli in particolare, autoctoni degli USA. Non erano, naturalmente, rapinatori di mestiere ma dei dilettanti che volevano dare una svolta speciale alle loro vite.
Il regista decide di alternare la ricostruzione degli eventi con la narrazione che i veri protagonisti compiono dell’accaduto: loro, i genitori, i professori e gli impiegati di quell’Università. Qualcosa di più, pertanto, rispetto a uno dei numerosi film che raccontano rapine più o meno complicate. Emerge infatti un bisogno profondo: quello di iniziarsi alla vita. Non a caso una delle prime scene descrive un episodio di nonnismo che ha come protagonista Spencer, lo studente al quale viene l’idea di rubare quel magnifico libro d’arte.
Quando una società rinuncia a trasmettere ai suoi figli la fatica, l’accettazione dei fallimenti, il limite, «wenn der Ernst, der Schmerz, die Geduld und Arbeit des Negativen darin fehlt»1 -tutto ciò che appunto significano e sono i riti di passaggio-, questi figli cercheranno altrove ciò che i loro genitori e il corpo sociale non offre più nel timore, poverini, di traumatizzarli; un’ossessione che spinge non pochi genitori a contestare ad esempio le bocciature (ormai rarissime) o i voti bassi a scuola. E che per questo si rivolgono in modo anche violento a quei professori che ancora pretendono che a scuola e all’università si studi. Furono poi ben traumatizzati questi quattro ragazzi del Kentucky, che però da quel dolore crebbero, come si vede dalle loro interviste di trentenni.
Per quanto diverse naturalmente siano le vicende, credo dunque che anche questo film costituisca una conferma di ciò che scrivevo in un mio libro:

«Il grande gioco della rivoluzione fu praticato con entusiasmo da moltissimi figli di papà, pierini viziati, ragazzi irresponsabili e cinici come e più dei loro padri. Adolescenti che uccidono senza sapere bene chi e perché e poi partono per le vacanze, trascorse in allegria sulle barche di famiglia, in giro per le isole più alla moda del Mediterraneo o in lussuose ville alpine. Figli di imprenditori, di professionisti, di ministri, che tutto hanno avuto dalla vita. […] Persone protette fino all’ultimo dalla mamma, dalla famiglia, dal clan, i quali assecondano le decisioni più ingiustificate, sopportano ogni capriccio, tentano di ricomporre l’equilibrio dei figli anche quando ciò significa favorire i loro crimini. Individui affascinati dal mito dell’eroe dannunziano, dal culto soreliano e leninista della violenza rigeneratrice, dall’aspirazione totalitaria alla conquista del mondo e del futuro. […] . Qualcosa che è riemerso con grande forza negli anni del terrorismo contribuendo in maniera non secondaria alla sua crescita. Ma l’elemento scatenante è stato l’unione del dogmatismo dottrinario con la contrapposta rivendicazione del valore di una nuova soggettività. È venuta meno l’autorevolezza delle varie forme nelle quali l’autorità si esprime: istituzionali, politiche, familiari, scolastiche. La mediazione dei bisogni, il confronto fra le volontà e le strutture è saltato a favore del tutto e subito e cioè a vantaggio esclusivo di un approccio retorico ai problemi, nella ripetizione ossessiva di slogan vuoti, monotoni e perciò più assordanti.
Pur di sopravvivere, l’Università e la scuola si sono trasformate in una palestra di ribellismo narcisistico e acritico, partiti e sindacati hanno abbandonato ogni dimensione pedagogica per farsi mera cassa di risonanza di un rivendicazionismo rabbioso, le istituzioni sono state schiacciate sotto il peso di un’accusa assillante di autoritarismo reazionario. L’intera società civile ha avallato l’irresponsabilità rispetto al compito, la fuga dall’impegno che è fatica, la metamorfosi della parola dovere in un tabù linguistico. Ha accettato di essere continuamente accusata da chi nello stesso tempo pretende di venire da essa mantenuto»2.

Il genitore che nel film piange sul destino del proprio figlio ha avuto ciò che si merita.

Note
1. Hegel, Phänomenologie des GeistesPrefazione, 19 (Quando mancano la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio del negativo’, Fenomenologia dello spirito, trad. di Enrico De Negri, La Nuova Italia 1973, p. 14).
2. Contro il Sessantotto. Saggio di antropologia, Villaggio Maori Edizioni 2012, pp. 45-47.

Gli dèi / Don Juan

Due recensioni. Una su un tema teologico e l’altra di argomento teatrale.
La prima è dedicata a un libro inconsueto, nel quale un filologo rompe i limiti della propria disciplina e, come Nietzsche, coglie l’enigma dei Greci, il significato del sacro, la potenza iniziatica di ogni vero filosofare.
La seconda è una breve riflessione su uno dei miti più profondi e materici della modernità: Don Giovanni, il desiderio, il fluire dei corpi.
I due testi sono stati pubblicati sul numero 18 (Febbraio 2019) di Vita pensata.
Questi i link alla loro versione in pdf:

 

Iniziazioni

Class Enemy
di Rok Bicek
Con: Igor Samobor (Robert), Daša Cupevski (Sabina), Doroteja Nadrah (Mojca), Natasa Barbara Gracner (Zdenka), Masa Derganc (Nusa)
Slovenia, 2013
Trailer del film

In un liceo l’insegnante di tedesco, molto comprensiva e molto materna, va in congedo. La sostituisce il Prof. Zupan, di tutt’altra indole. Un’indole poco coerente con il Progetto Formativo d’Istituto, il quale è assai morbido con gli studenti e la loro presunzione. Il conflitto tra la classe e il docente esplode quando una delle alunne si uccide. Anche se le cause sono di tutt’altra natura, viene ovviamente accusato il nuovo professore. La preside e i colleghi si barcamenano -come sempre in questi casi- tra viltà e interessi privati. I comportamenti certamente rigidi ma anche realmente educativi di Zupan scivolano sugli studenti e sui loro genitori. La meschinità di questi ultimi è palese.
Parlare di scuola non è facile, mai e per nessuno. Si tratta infatti di un mondo estremamente complesso ma del quale tutti si sentono autorizzati a dire, per la banale ragione che una volta -da studenti- ci sono stati. Al cinema, poi, i risultati sono quasi sempre falsi, semplicemente falsi. E invece una delle qualità principali di Class Enemy è la sua completa verosimiglianza. Certo, i caratteri sono un poco eccessivi (per lo spettacolo) ma le situazioni, le dinamiche, il retroterra sono decisamente reali.
In uno slancio di sincerità, la preside di questo liceo riconosce che «una volta ci temevano, ora noi temiamo loro». E ciò significa, né più né meno, la fine della scuola. Indulgere infatti nel sistematico giustificazionismo di ogni debolezza, capriccio, pigrizia, narcisismo degli studenti significa negare loro il diritto a diventare adulti. Diritto che in tutte le società conosciute passa anche attraverso dei riti di iniziazione. Le difficoltà e la fatica impliciti nel lavoro scolastico costituiscono anche tale iniziazione.  Non a caso il testo sul quale le lezioni di Zupan si incentrano è Tonio Kröger di Thomas Mann, un bellissimo racconto di formazione.
Cancellata dalla scuola l’iniziazione, i ragazzi la cercheranno altrove, in modi e forme assai più pericolose. L’ignoranza di questa componente antropologica è una delle caratteristiche più distruttive del dominio che pedagogisti e psicologi esercitano sulla teoria e pratica dell’educazione e che ha come risultato l’assoluta fragilità degli adolescenti.
Class Enemy fa emergere tutto questo dall’interno del rapporto educativo, e lo fa con uno stile sobrio che nulla concede alla banalità, evitando finali sia drammatici sia lieti e ribadendo -nell’assai bella scena conclusiva- il vuoto profondo delle vite. Rispondendo alla preside, Zupan afferma che «essere studenti non è un diritto ma un grande privilegio». Condivido.

L'isola di Filippo

Terraferma
di Emanuele Crialese
Con: Filippo Pucillo (Filippo), Mimmo Cuticchio (Ernesto), Donatella Finocchiaro (Giulietta), Timnit T. (Sara), Beppe Fiorillo (Nino)
Italia-Francia, 2011
Trailer del film

Una piccola isola del Mediterraneo. Filippo e suo nonno Ernesto continuano a pescare, nonostante il consiglio dello zio del ragazzo (Nino) e della madre (Giulietta) di demolire la barca e intascare i soldi che ne deriverebbero. Giulietta vorrebbe lasciare quello scoglio riarso e andare a cercar fortuna sulla terraferma, intanto affitta la propria casa in estate ai turisti. Nonno e nipote salvano dei clandestini dall’annegamento ma la legge lo proibisce e la loro barca viene sequestrata. Tra i salvati c’è Sara, una donna etiope che partorisce una bambina a casa di Giulietta. L’isola è ormai presidiata da carabinieri e da finanzieri e sembra impossibile nascondere la donna e i suoi due figli. Ma il debole e un poco ottuso Filippo prende una decisione coraggiosa, mostrando così di avere attraversato non invano l’enigma dell’amore e della morte.

In Nuovomondo (2006) Crialese sceglieva il linguaggio onirico per raccontare il dramma che fu di milioni di europei e che oggi è di altrettanti uomini e donne che arrivano da noi, convinti che quello dove noi viviamo sia il luogo dei sogni. Di questi uomini e donne parla anche Terraferma. I migranti di Petralia Sottana sono diventati gli accoglienti dell’isola. Non tutti, naturalmente, e il film mostra quanto diversi possano essere gli atteggiamenti dei singoli e delle comunità di fronte al diverso che arriva nelle nostre strade. Ma Terraferma mi sembra soprattutto un film di iniziazione e di formazione, un cui possibile modello è L’isola di Arturo di Elsa Morante. Anche in quel romanzo un ragazzino diventa uomo, si affranca dal padre, lascia la madre al proprio rimanere “piccirilla”, si libera dalla malia del mare.
La recitazione sembra a volte come imballata e la fotografia sovraesposta, forse per rendere la troppa luce che acceca e che spegne. Belle alcune scene visionarie: le reti che all’inizio lentamente si calano nel mare, i turisti che saltano dalla barca dello zio, la forza notturna con la quale Filippo respinge i clandestini che anelano alla barca, la chiusa che trasforma in onda e oscurità ogni elemento.

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