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«Dentro più dentro dove il mare è mare»

Giovedì 18 maggio 2023 alle 16.00 continueremo a dialogare sull’opera di Stefano D’Arrigo.
Nella sede del Centro Studi di Catania, l’Associazione Studenti di Filosofia Unict (ASFU) organizza infatti il secondo incontro del ciclo dedicato all’autore di Horcynus Orca.
A parlarne saremo io e il Prof. Fernando Gioviale, profondo conoscitore di D’Arrigo, al quale ha dedicato un libro pieno di dèi: Crepuscolo degli uomini. Attraverso D’Arrigo in un prologo e tre giornate.
Horcynus Orca è anche la saggezza millenaria della vanità di ogni cosa, «il mare della Nonsenseria», «un mare lordo di fere nell’inutilità di tutto», un mare che c’era prima degli umani, che rimarrà quando degli umani si sarà persa ogni memoria, un mare che continuerà a diventare ciò che è, ciò che è sempre stato: sostanza e metafora della morte.
Il romanzo di D’Arrigo si chiude nel segno da cui era nato, che lo intesse e lo rende esteticamente sublime, proprio nel senso kantiano di qualcosa che attira e che spaventa, che sgomenta perché attrae, che coinvolge perché spaura. «La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro più dentro dove il mare è mare».

 

 

Il caso Horcynus Orca

Anche quest’anno l’Associazione Studenti di Filosofia Unict (ASFU) organizza un ciclo di incontri dedicato a Filosofia e Letteratura.
Dopo Proust (2018), Dürrenmatt (2019), Gadda (2020), Céline (2021) e Manzoni (2022) quest’anno leggeremo Stefano D’Arrigo, i suoi due romanzi.
Il primo incontro si svolgerà giovedì 27 aprile 2023 alle ore 16.00 presso il Centro Studi di Via Plebiscito, 9 a Catania. Cercherò di presentare la figura di D’Arrigo e il peculiare luogo che occupa nella letteratura contemporanea italiana ed europea.
«Certe cose, ci diciamo qualche volta, possono succedere solo nei romanzi» si afferma in Cima delle nobildonne. E quello che succede in Horcynus Orca sembra accadere nello spazio profondo del mare e del mito. È vero ma in questo romanzo ad accadere siamo noi, con il nostro andare nel tempo e con la nostra morte. Horcynus Orca è un romanzo omerico e heideggeriano. La lingua che lo intride è antica, espressionistica, avvolgente e lontana.

D’Arrigo

Il mare e la morte nell’opera di Stefano D’Arrigo
in Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre-ottobre 2022
pagine 147-151

Indice
-Il mare, la morte
-Omero / Heidegger
-L’Orca, la materia
-La potenza della femmina
-Un lessico arcaico, splendente e magico
-Il mare della Nonsenseria

Dentro le spire dello spazio e i gorghi del tempo; dentro una lingua antica, espressionistica e lontana, «quell’isola macerata e persa, la Sicilia» ha generato lungo i secoli eventi, parole e umani sorridenti e solitari. Alla fine ha generato il mare, ha generato la morte. La morte e il mare che sono la stessa cosa, il secondo rende visibile la prima.
Alla fine la Sicilia ha generato l’Orca di Stefano D’Arrigo, emblema fisico e materico dell’essenza del vivente, che è appunto il morire, il quale comincia sin dal primo istante dello stare al mondo.
Horcynus Orca è un romanzo omerico e heideggeriano. Omerico per il mare e per i nomi, per la struttura epica che tutto lo pervade, perché romanzo marino e occidentale. Romanzo heideggeriano perché incentrato sull’«essere che passa per la Morte», sulla morte come necessità del vivente e destino cosmico.
Horcynus Orca è soprattutto una macchina linguistica che senza requie inventa la propria strada e la percorre con gli strumenti della parola, delle parole inventate, ricreate, rese una cosa sola con il reale. Un lessico arcaico, splendente e magico nel quale un siciliano ritrova suoni, verbi, avverbi, aggettivi della propria storia, quali: incantesimato, scandaliare, pìccio, per la madosca, tappinara, nisba; nel quale i costrutti e il vocabolario sono a ogni pagina inventati, creati, reinventati, metabolizzati, metamorfizzati. Parole dentro le quali si sprofonda: «La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro più dentro dove il mare è mare».

[La foto di D’Arrigo è di Ferdinando Scianna (1988)]

Placenta

Stefano D’Arrigo
Cima delle nobildonne
Mondadori, 1985
Pagine 202

«Non vedendo più riparo alla successione degli eventi ma non sognandosi nemmeno, quand’anche avesse potuto, di impedirli» (p. 201) Mattia Meli si trova al centro del divenire che comincia come zigote, si trasforma in embrione, diventa feto, umano, bambino, adulto, vecchio, mortale, moribondo, morente, morto.
Nel grembo materno tutto questo vive per alcuni mesi dentro una sfera, un ambiente, un mondo che si chiama placenta. A tale mondo è dedicato l’intrico di fatti e situazioni che costituisce questo romanzo di D’Arrigo. Vicende che vanno dal faraone Narmer -il quale 5000 anni prima dell’era volgare eresse la propria mummificata placenta a quarto simbolo della dinastia- a una clinica di Stoccolma dove il chirurgo Belardo costruisce una vagina all’ermafrodito amato da un emiro, il quale vorrebbe edificare nella propria capitale una Placentoteca.
Eventi che vanno da una paziente incontrata dal protagonista dentro un ascensore che la porta in sala operatoria alla cagnetta di lei che conduce Mattia presso la casa della padrona, dove è conservata in formalina la placenta di un bambino mai nato.
Un professore di placentologia muore a causa di una grande delusione professionale, dopo aver dedicato l’intera vita alla Cima delle nobildonne, come lui denomina la placenta in quanto nutrice della vita e delle cose. Cima delle nobildonne, ‘Colei che va davanti alle nobili’, era chiamata anche il faraone femmina Hatshepsut, che regno a metà del II millennio portando benefici alla sua terra.
In un intrico di vicende come questo, «la cruda, crudele verità del parlare scientifico» (84) si alterna all’ironia che pervade molte pagine, battute e situazioni; sogni assai tristi che hanno per protagoniste donne «atteggiate in viso a una struggente malinconia, [le quali] spingevano ognuna una carrozzina per neonato senza neonato dentro: rare vittime di rari aborti» (123) si accompagnano alla secchezza di descrizioni chirurgiche ultratecniche.
Il risultato è una inquietante ἱλαροτραγῳδία, uno straniante raccontare che punta dritto alle fonti della vita e della morte e sembra di esse riprodurre anche lo schifo, la malinconia, la materialità.
Che l’insieme dei fatti e il loro intreccio siano del tutto inverosimili non conta. O conta nell’esatto senso indicato da Stefano D’Arrigo: «Certe cose, ci diciamo qualche volta, possono succedere solo nei romanzi» (163).

Un libro pieno di dèi

Fernando Gioviale è stato professore di Discipline dello spettacolo nel mio Dipartimento ed è uno degli uomini più colti e più vitali che conosca. Capace di spaziare tra terre e parole assai diverse, capace di affabulare il mondo in un intrico di meraviglie.
Ho dunque letto il suo Crepuscolo degli uomini. Attraverso D’Arrigo in un prologo e tre giornate con lo stupore e il piacere di chi a ogni pagina scopre la bellezza e l’enigma della letteratura e del mondo.
Ne ho scritto una recensione pubblicata sul numero da poco uscito di Siculorum Gymnasium. A Journal for the Humanities.

νόστος

Il 20 ottobre 2016 ho partecipato a un Convegno organizzato dalla Struttura didattica speciale di Lingue e Letterature straniere dell’Ateneo di Catania. Convegno voluto e introdotto da Nunzio Zago e dedicato ad alcuni Aspetti dell’ulissismo intellettuale dall’Ottocento a oggiLa sede è stata la magnifica città di Ragusa Ibla.
Ho partecipato per quello che sono, un dilettante di letteratura, e ascoltando i colleghi specialisti ho sentito l’orgoglio e l’onore di far parte di una comunità di ricerca umanamente coinvolgente e scientificamente feconda. Ho infatti imparato da tutti. Ricordo alcuni degli interventi, alla fine dei quali ho chiesto ai relatori la loro opinione sulla lettura che Horkheimer e Adorno hanno dato di Ulisse come emblema anche del borghese che persegue lucidamente i propri scopi in una logica utilitaristica. Chiarisco che quanto scrivo qui non costituisce una sintesi delle tesi enunciate dai colleghi ma si tratta soltanto di alcune mie riflessioni che partono dai loro eccellenti contributi.

Andrea Manganaro ha parlato dei personaggi di Verga e della loro corsa verso la morte. Ascoltandolo ho pensato al fatto che Ulisse torna da solo a Itaca, tutti i suoi compagni sono morti. Forse Ulisse è anche il potente di cui parla Canetti, è colui che differisce la propria morte attraverso il morire degli altri, a cominciare dalla distruzione imposta agli abitanti di Ilio.
Antonio Sichera analizzando l’opera di Pavese si è riferito alle motivazioni per le quali Ulisse rifiuta la straordinaria proposta di Calipso di renderlo immortale e sempre giovane, invece che tornare da una moglie umana. Forse il motivo di tale rifiuto sta nel fatto che Ulisse ha compreso l’infelicità di Calipso. La dea non si è conciliata con il tempo. Non il tempo Χρόνος, naturalmente, essendo lei divina, ma il tempo Aἰών. E invece Ulisse con il tempo si è conciliato, è stato capace di fare del futuro -dei propri desideri, ambizioni, aspirazioni- il suo stesso presente.
Fernando Gioviale ha raccontato di D’Arrigo. Non soltanto di Horcynus Orca ma anche dell’ultimo romanzo darrighiano, Cima delle nobildonne, un testo dedicato alla placenta. Anche Giuseppe Traina parlando di Bufalino ha accennato al ritorno all’utero.
Ascoltandoli mi sono ricordato di uno dei più grandi narratori del Novecento, Elsa Morante, forse troppo trascurata. Nell’ultimo suo romanzo, il figlio di Aracoeli si rivolge alla memoria della madre dicendole: «Ma tu, mamita, aiutami. Come fanno le gatte coi loro piccoli nati male, tu rimàngiami. Accogli la mia deformità nella tua voragine pietosa» (Aracoeli, Einaudi, 1982, p. 109). Ulisse è forse anche il desiderio del ritorno al luogo nel quale tutto era caldo, liquido, sicuro. Il luogo nel quale ogni voce, contatto, movimento, erano pura luce. Tornare a Itaca la madre, tornare a Itaca la Terra. Tornare all’intero da cui proveniamo.

Forse è anche per questo che Odisseo -come l’Ettore di Foscolo- vivrà «finché il Sole / risplenderà su le sciagure umane» (Dei Sepolcri, 294-295), vivrà nelle nostre parole, nei nostri studi, nel nostro tendere al luogo da cui proveniamo. Vivrà in quel νόστος che è l’intera esistenza.

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