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Arturo

Misericordia
di Emma Dante
Italia, 2023
Con: Simone Zambelli (Arturo), Simona Malato (Betta), Tiziana Cuticchio (Nuccia), Milena Catalano (Anna), Fabrizio Ferracane (Polifemo), Carmine Maringola (Enzo)
Trailer del film

Lo splendore della terra e del mare, della costa e del cielo tra Palermo e Trapani. Una antica torre d’avvistamento intorno alla quale vive una miserabile comunità di prostitute, di ruffiani, di commercianti in ferrivecchi, di bambini, di pastori e di pecore. Il contrasto tra la grandezza del paesaggio e la sporcizia delle catapecchie, delle quali Nuccia – una delle prostitute – dice «E la chiami casa, questa? Questo tugurio pieno di merda?» – è un contrasto che contribuisce a produrre lo straniamento e lo stridore che intessono il racconto. È un mondo altro ma è davvero un altro mondo? I nuclei del racconto, il basso continuo delle vite, l’evidenza del concreto, sono infatti elementi quali la prevaricazione, la violenza, il dominio, il gioco, la sporcizia, le passioni. E soprattutto i corpi e la follia. Il corpo folle di Arturo, un giovane che non parla, un handicappato cognitivo figlio di una prostituta uccisa a botte dal suo uomo, trovato neonato da una pecora nelle rocce vicino al mare, accudito allevato e cresciuto da due mature prostitute alle quali si aggiunge una nuova arrivata, una giovane ennesima vittima di Polifemo, il violento e volgare magnaccia con un occhio solo del quale Arturo ha terrore.
La dimensione materna matriarcale mistica di tutta l’opera teatrale e cinematografica di Emma Dante emerge qui con forza. Il morbo sacro, l’epilessia, di cui soffre Arturo, è davvero πιλαμβάνομαι, qualcosa che invade e conduce ai confini della morte. Corpi e follia costituiscono elementi centrali della poetica di questa autrice come emerge in Pupo di zucchero. La festa dei morti, ne Le sorelle Macaluso, nell’Eracle messo in scena a Siracusa, in Via Castellana Bandiera.
I corpi, soprattutto i corpi. I corpi strabordanti aggraziati pestati delle prostitute, il corpo nudo di Arturo, fremente di un dinamismo simile a quello dei quattordici corpi interamente svestiti che in Bestie di scena esprimevano senza mai parlare la loro densità, età, magrezza, pinguedine, bellezza, deformità.
Come ho letto in una bella recensione trovata in Rete: «Questi corpi pesanti e appesantiti ritrovano la loro lievità soltanto in acqua – un altro elemento simbolico del ventre materno – cui si contrappone il fragore e la pesantezza della pietra dove Arturo viene trovato, segnato già da un destino ingombrante; la pietra che precipita giù e tende verso il suo luogo naturale. La pietra che si schianta in mare, si fa polvere per ritornare leggera. Anche i corpi in mare ritrovano la loro lievità riuscendo a danzare con lo stesso garbo della ballerina del carillon che tranquillizza Arturo, con la sospensione che avvolge il niente dell’anteriorità».
Corpi fatti di nostalgia, di innocenza, dell’animalità che rimaniamo sempre ma che abbiamo stoltamente imparato a negare, corpi fatti di infanzia e di abbandono. L’infanzia e l’abbandono che pulsano nel romanzo di Elsa Morante L’isola di Arturo, del quale il nome stellare del protagonista è evidente richiamo. Romanzo paterno quello di Morante, che in Misericordia si capovolge nella pura maternità che intramava la versione teatrale dell’opera a Milano. Versione più riuscita rispetto al film, perché inevitabilmente più sobria, essenziale, distillata, sempre con Simone Zambelli inquietante e straordinario protagonista di un racconto che è teatro danza e musica perché è uno sguardo sull’abisso della condizione umana. Il degrado è una metafora, la miseria è un segno, gli oggetti sono movimento.
Misericordia è puro langage, oltre ogni specifica langue e nella declinazione peculiare della parole che ciascuno riesce a dire muovendo nello spazio il corpo in cui consiste, totale espressività che si conclude con la parola dalla quale per gli umani tutto scaturisce e che invocano quando muoiono: «Mamma».
Le tre puttane sono parche, moire, divinità che danno la vita e che precipitano ciascuno nella solitudine irrimediabile che è l’esserci. Pura epica mediterranea.
Ancora dalla recensione di prima: «Il legame con la donna che lo ha generato intesse il film, il cordone che assume forma di lana o di pasta unisce il figlio alla madre: il primo nome che si riesce a sillabare, l’ultimo che si invoca. Arturo parte. Nella valigia i ricordi. Addosso dei vestiti. Davanti a sé la promessa del futuro. Alle spalle la nostalgia della terra e del niente. Solo un parola dinnanzi a così tanta miseria: Misericordia».

[Ho visto il film all’Ariston di Catania, cinema che frequento da decenni e che è diventato infrequentabile. La direzione ha infatti deciso di trasformare anche il cinema in televisione. Non era facile ma vi è riuscita interrompendo il film a metà per proiettare due trailer di altri film e soprattutto dei patetici spot di pubblicità locale. Difficilmente andrò di nuovo in un cinema che ha così scarso rispetto dei suoi spettatori, ai quali non regala certo il biglietto d’ingresso ma a cui impone della pubblicità anche esteticamente squallida]

Noto, il Barocco, i palazzi

Il Barocco è Noto
Convitto delle Arti – Noto
A cura di Paola Bergna e Alberto Bianda
Sino al 29 ottobre 2023

Sale della mostra

Le ombre, i corpi che da esse emergono, il rosso e lo scuro, le forme circolari ed ellittiche, gli spazi densi di oggetti, le nature morte, gli strumenti musicali, i santi, i teschi, il desiderio, l’amore, gli sguardi, la luce.
Questi alcuni degli elementi del Barocco, pervasivi e presenti anche a Noto, nelle tre sale del Convitto delle Arti che ospitano una sola tela di Caravaggio – la Maddalena in estasi – e poi opere di italiani (Luca Giordano, Guido Reni, Mattia Preti, Guercino, Bernini, Pietro da Cortona), spagnoli (Jusepe de Ribera, lo Spagnoletto), nordici (Rubens, van Dyck, Rombouts [è suo il Suonatore di Liuto dell’immagine di apertura]). Da queste opere spira come una potenza, la forza della vita che vuole essere felice nel preciso senso che vuole trovare un significato a se stessa, qualunque senso purché ci sia; forza unita al dramma dell’esistenza che una volta nata precipita ogni giorno verso il suo finire. Questa tensione, irrisolvibile se non nel nulla, crea l’enigma barocco, il suo fascino e la sua inquietudine nella pittura e in tutte le arti, scultura, musica, teatro, poesia, architettura. 

HP del sito del Palazzo del Castelluccio

Uscendo dalla mostra questa felicità e tale inquietudine diventano il «giardino di pietra» del quale parlava Cesare Brandi, diventano Noto, la città, i suoi palazzi, le chiese, le piazze, i teatri, i monumenti. Troppo noti e troppo belli per parlarne ancora qui.
Ma c’è un luogo che non è ancora così celebre e che invece è splendido: il Palazzo Di Lorenzo del Castelluccio edificato per una potente famiglia nel 1782, mantenuto sino alla morte dell’ultimo marchese, Corrado Di Lorenzo, avvenuta nel 1981, donato all’Ordine dei Cavalieri di Malta, istituzione religioso-militare assai ricca ma che lo ha lasciato nel più completo degrado. Dopo trent’anni, nel 2011, un francese, Jean Louis Remilleux, lo ha acquistato, restaurato, reso visitabile in quasi tutti i suoi ambienti: il piano nobile con la sua infilata di saloni, salotti, studioli, camere da letto, biblioteche; la piccola ma eloquente scuderia che poteva ospitare sino a otto cavalli in quattro spazi; le cucine al piano basso, buie e ricche di stanze, dove la servitù consumava i suoi pasti. E poi l’armonioso cortile e al di sopra un terrazzo che induce a sedersi, rimanere, studiare, godere come da una finestra il cielo turchese e le nuvole che sovrastano la città. Remilleux e i suoi architetti hanno conservato quanto più possibile gli ambienti, le pareti, i pavimenti di ceramica; hanno riempito le stanze di quadri, poltrone, tavoli, una panoplia di testimonianze di cultura materiale. E soprattutto e tramite tutto questo si ha la sensazione di attraversare un luogo reale non un museo, un luogo vissuto non un’icona, un luogo rispettato e amato da chi lo abita. Il palazzo è infatti la dimora quotidiana di Jean Louis Remilleux.
I secoli sembrano convergere, il tempo diventare un vortice, altra costitutiva metafora barocca. E infatti la mostra al Convitto delle Arti non si compone soltanto di opere e artisti del Seicento. La accompagnano le sculture di Giuseppe Agnello (1962) che tentano di coniugare l’umano e la Terra con una serie di figure antropomorfe impastate di alabastro, sale, gesso. Il titolo è Terra e cielo tra uomo e natura. Un terzo spazio espositivo si chiama Pop Garden ed è un’immersione negli anni Settanta con fiori, specchi, ridondanze, musiche di quel tempo, riflessi.

Il barocco risiede dunque nelle cose; come afferma Carlo Emilio Gadda, «barocco è il mondo, e il G.[adda] ne ha percepito e ritratto la baroccaggine» (La cognizione del dolore, Garzanti 1994 , p. 198).
In via Matteo Raeli, vicino a piazza XVI maggio e alla cosiddetta Villa d’Ercole, c’è una gelateria che si chiama L’artigianale. Gustare i gelati di Stefano Baglieri significa capire con i sensi (il gusto ma anche la vista) perché mai i dolci, alcuni dolci, sprigionino un sorriso. Un altro elemento della sensualità barocca.

Noto – il Municipio

 

 

Il sogno di un dio

Ferdinando Scianna. Ti ricordo Sicilia
Castello Ursino – Catania
A cura di Paola Bergna e Alberto Bianda
Sino al 20 ottobre 2023

Bagheria, il mare, le ragazze, i mostri di Villa Palagonia, la campagna, la bellezza conturbante e gelida di Marpessa, le processioni, la festa, i bambini, i vecchi, Leonardo Sciascia. E l’andare e venire dalla Sicilia verso l’altrove. Il dover fuggire ma poi sempre ritornare nel grembo dell’Isola di tripudi e di sfacelo, di cenere mista al sangue degli eroi, dove – nelle urne memori dei Padri – morire è acquietarsi nella luce.
La Sicilia appare fra lontane terre emerse come la sintesi semplice del mondo, una lucente antologia dell’universo. I suoi scrittori la disegnano, la scavano. I suoi fotografi – al Castello Ursino di Catania Ferdinando Scianna, in tante occasioni e luoghi Franco Carlisi – la illuminano, la raccontano. I suoi pittori ne restituiscono le tenebre e la luce. I suoi filosofi, Gorgia, Nicola Spedalieri, Giovanni Gentile, la rendono teoretica.
Ma forse la Sicilia non esiste. Forse l’Isola è il sogno inquieto di un dio e noi siamo parte di questo sogno.

Scicli

Si incuneano ovunque le città e i borghi di Sicilia. Tre colline rocciose tra la costa e gli Iblei circondano e dominano un piccolo tratto quasi pianeggiante. Qui dopo il terremoto del 1693 venne riedificata l’antica Scicli, oggetto di contesa tra normanni e saraceni. La ricostruzione fu barocca. Uno spendente barocco che si dirama nelle strade fatte d’oro, nei palazzi dalle facciate rinascimentali, nelle chiese, tante chiese, che scandiscono la loro musica di pietra nello spazio.
Tra queste San Bartolomeo, incastonata tra due burroni che la fanno apparire come un miracolo d’architettura in mezzo a dei macigni. Dentro questa chiesa – risparmiata dal terremoto – un presepe del 1573 che ha perso molti dei suoi personaggi ma che conserva una vita che si direbbe magica, animistica. Poco distante San Guglielmo in Sant’Ignazio, dove una Madonna guerriera calpesta su un cavallo i saraceni; chiara riproposizione delle dee mediterranee della guerra.

 

Tra i palazzi, da poco restaurato il Palazzo Bonelli Patanè che al nome degli antichi signori dell’Otto e Novecento aggiunge quello dell’acquirente che lo ha restituito allo splendore della facciata rinascimentale,  del giardino interno aperto a un cielo di cobalto, delle otto sale del piano nobile che si susseguono, come d’uso, senza corridoi e che si strutturano in una particolare mescolanza di tradizione e di Novecento, con mitologiche scene rococò nei soffitti e con un mobilio che accomuna la densità di tavoli rinascimentali, i salotti stile Impero, i bellissimi oggetti liberty, in particolare una lampada.
Di fronte a questo palazzo l’antica Farmacia Cartia, diventata museo di se stessa, dove l’intelligenza e l’amore per il mestiere hanno permesso di conservare, dentro solidi mobili di legno scuro Douglas, ampolle, siringhe, veleni, bilancini di precisione, testimonianza di un’epoca in cui i farmacisti erano dei medici, dei chimici e non dei commessi di supermercato quali sono diventati. La Farmacia conserva anche un registratore di cassa degli anni Cinquanta e, nello specchio dietro il bancone, la figura di Igea, dea della salute.
Via Nazionale congiunge la strada dove si trovano palazzo e farmacia – via Mormino Penna – a piazza Busacca e alla chiesa del complesso del Carmine che in un’unica navata concentra tutta la ricchezza tipica delle chiese barocche. Il centro storico di Scicli si squaderna dunque in un’area non troppo estesa. Le sue discese e le sue salite sono clementi e permettono di gustarla a piedi, di perdersi tra i suoi vicoli ma di ritrovarsi facilmente. In ogni caso di avere sempre davanti agli occhi una bellezza che va oltre i suoi monumenti.
Il mare non è lontano da Scicli, come non lo sono Modica e Ragusa. Vicino e dentro la città è la bellezza, è quel «luxe, calme et volupté» (Baudelaire) che nei più ricchi tra i luoghi siciliani coniuga sempre la malinconia della morte e il vibrare dentro essa del καιρός.

Gli occhi della Sicilia

Venerdì 23 giugno 2023 alle 18.00 alla Libreria Feltrinelli di Catania dialogherò con Lina Gandolfo, autrice del romanzo Con i miei occhi (euno edizioni, 2022). Un testo dalla tonalità verista nel pieno del XXI secolo. Un verismo autentico sino al dolore e intramato però della dimensione onirica e folle della grande letteratura del Novecento.
Per scrivere un romanzo come questo è stato necessario avere per decenni osservato, pensato e accolto la disperazione della vita. Della quale l’arsura delle terre della Piana di Catania – di Mineo, di Grammichele, di Scordia – è geografica sineddoche. E bisogna avere avuto il coraggio di confrontarsi senza infingimenti con l’iniquità.

L’epidemia occidentale

Epidemia e caduta
Aldous, 3 dicembre 2022

Il disastro dell’esistenza e la gloria di dominarla stanno al cuore de La Chute (La caduta) di Albert Camus: «Le jour venait doucement éclairer ce désastre et je m’élevais, immobile, dans un matin de gloire».
Probabilmente oggi – negli anni Venti del XXI secolo, gli anni dell’epidemia occidentale – è arrivato il momento che Camus nel 1956 chiamava il futuro della sottomissione felice: «L’esclavage n’est pas pour demain. Ce sera un des bienfaits de l’avenir». La schiavitù è in effetti diventata per molti un beneficio, una benedizione, un’agognata espressione di sicurezza e salute.
E tuttavia la gloria, la luce, la salvezza sono lo spazio della filosofia mediterranea, lo slargo del nostro essere, del nostro pensare. Specialmente ora che le forme del fanatismo e della tirannide sanitaria cercano di imporre l’oscurità e l’oblio sui propri crimini.

Elio Romano

Libero Elio Romano 1909-1996 
Palazzo della Cultura – Catania
A cura di Vittorio Ugo Vicari ed Enrico La Rosa
Sino al 20 gennaio 2023

Elio Romano ha attraversato il Novecento di una Sicilia sempre uguale e di un’Italia inquieta. È stato amico di altri artisti; ha ospitato pittori e amici nella sua casa museo di Morra, vicino ad Assoro nell’ennese; ha ricevuto committenze da istituzioni pubbliche e private, creando affreschi al modo dei rinascimentali. Ha plasmato le tele, la carta, il gesso, il bronzo. I suoi quadri, e i filmati che ne testimoniano il divenire, mostrano un uomo che sembra aver avuto la fortuna di fare ciò che ha voluto di sé e del proprio talento.
Le 57 opere raccolte a Catania costituiscono anche un’antologia del fare pittorico nel Novecento: impressionismo, fauves, espressionismo, macchiaioli, persino qualcosa del realismo magico. I soggetti sono soprattutto la campagna riarsa, antica, cupa e luminosa del latifondo siciliano; nudi dipinti come da distanze; ritratti assai intensi realizzati con la tecnica della china su carta – forse le cose sue migliori – e su tutto la solitudine di una terra enigmatica, al di là del tempo, dentro ogni tempo.

L’impressione è però di un epigono, di un artista che ha scelto volutamente di isolarsi in luoghi splendidi ma che sociologicamente costituiscono periferia dell’arte contemporanea. A chi gli chiedeva che cosa ci facesse a Morra, Romano rispondeva «coltivo il giardino». Una citazione dal Candide di Voltaire, certo, ma il rischio di una scelta come questa è indicato da alcuni versi di Vittorio Sereni: «…Pensare / cosa può essere –voi che fate / lamenti dal cuore delle città / sulle città senza cuore- / cosa può essere un uomo in un paese, / sotto il pennino dello scriba una pagina frusciante / e dopo / dentro una polvere di archivi / nulla nessuno in nessun luogo mai» (Gli strumenti umani, Einaudi  1980, p.  67).
L’arte, la filosofia, la vita non sono un’acquisizione soltanto individuale e intima ma costituiscono sempre un riflesso e un’espressione del tempo e dello spazio dai quali germinano. Per questo bisogna sempre abitare la distanza ma saper rendere anche quella distanza il centro del mondo.

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