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Elio Romano

Libero Elio Romano 1909-1996 
Palazzo della Cultura – Catania
A cura di Vittorio Ugo Vicari ed Enrico La Rosa
Sino al 20 gennaio 2023

Elio Romano ha attraversato il Novecento di una Sicilia sempre uguale e di un’Italia inquieta. È stato amico di altri artisti; ha ospitato pittori e amici nella sua casa museo di Morra, vicino ad Assoro nell’ennese; ha ricevuto committenze da istituzioni pubbliche e private, creando affreschi al modo dei rinascimentali. Ha plasmato le tele, la carta, il gesso, il bronzo. I suoi quadri, e i filmati che ne testimoniano il divenire, mostrano un uomo che sembra aver avuto la fortuna di fare ciò che ha voluto di sé e del proprio talento.
Le 57 opere raccolte a Catania costituiscono anche un’antologia del fare pittorico nel Novecento: impressionismo, fauves, espressionismo, macchiaioli, persino qualcosa del realismo magico. I soggetti sono soprattutto la campagna riarsa, antica, cupa e luminosa del latifondo siciliano; nudi dipinti come da distanze; ritratti assai intensi realizzati con la tecnica della china su carta – forse le cose sue migliori – e su tutto la solitudine di una terra enigmatica, al di là del tempo, dentro ogni tempo.

L’impressione è però di un epigono, di un artista che ha scelto volutamente di isolarsi in luoghi splendidi ma che sociologicamente costituiscono periferia dell’arte contemporanea. A chi gli chiedeva che cosa ci facesse a Morra, Romano rispondeva «coltivo il giardino». Una citazione dal Candide di Voltaire, certo, ma il rischio di una scelta come questa è indicato da alcuni versi di Vittorio Sereni: «…Pensare / cosa può essere –voi che fate / lamenti dal cuore delle città / sulle città senza cuore- / cosa può essere un uomo in un paese, / sotto il pennino dello scriba una pagina frusciante / e dopo / dentro una polvere di archivi / nulla nessuno in nessun luogo mai» (Gli strumenti umani, Einaudi  1980, p.  67).
L’arte, la filosofia, la vita non sono un’acquisizione soltanto individuale e intima ma costituiscono sempre un riflesso e un’espressione del tempo e dello spazio dai quali germinano. Per questo bisogna sempre abitare la distanza ma saper rendere anche quella distanza il centro del mondo.

Gelati

Paradise. Una nuova vita
di Davide Del Dean
Italia, 2020
Con: Vincenzo Nemolato (Calogero), Giovanni Calcagno (il killer), Catarina Kas (Claudia), Branko Zavrsan (Padre George), Selene Caramazza (Lucia)
Trailer del film

Nello splendore di Cefalù. Due uomini portano in piazza una bara vuota. La buttano a terra, le sparano contro. E minacciano il destinatario di questo lugubre rito. Il destinatario è un gelataio che ha assistito a un omicidio, ha visto il killer, ha testimoniato contro di lui. Per salvarlo gli si dà una nuova identità: venditore di granite nel gelo dell’inverno friulano, ospite di un residence – Paradise – aperto soltanto per lui. Ma non, alla fine, solo per lui. Arriva infatti un altro ospite, nel quale a Calogero sembra di riconoscere l’assassino. Lo afferra, ovviamente, il panico ma la vicenda si dipana senza tragicità, piuttosto attraverso una mescolanza di usanze alpine, affetti trattenuti, μετάνοια, rasserenanti presenze di bambine. E magnifici paesaggi innevati che sembrano indifferenti alla presenza di questi animaletti dotati di maglioni, lampadine e carabine, alcuni dei quali vengono dall’Isola, da Σικελία, dalla Trinacria
«Io non so niente – disse il confidente – […] non so niente: ma tirando a indovinare allo scuro, posso dire che le proposte le avrà fatte Ciccio La Rosa, o Saro Pizzuco… – e già quel verticale volo di gioia diventava caduta, pietra che precipitava al centro del suo essere, della sua paura» (Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, Einaudi 1972, p. 31).

Siciliani

Teatro ABC – Catania
La roba
da Giovanni Verga
con Enrico Guarneri (Mazzarò), Rosario Marco Amato, Nadia De Luca, Alessandra Falci, Alice Ferlito, Francesca Ferro, Gianni Fontanarossa, Maria Chiara Pappalardo, Giuseppe Parisi, Giampaolo Romania
regia Guglielmo Ferro
Sino al 13 novembre 2022

La roba e il resto avrebbe dovuto intitolarsi questo spettacolo. Guarneri e Ferro mescolano infatti la scarna e perfetta novella che ha questo titolo con altri testi delle Novelle rusticane e di Vita dei campi; con altri personaggi quali Nedda, Janu, Jeli, Mara; con altre miserie, altri amori, altri tradimenti; con la disgrazia dell’esser nati poveri o d’avere molto danaro e farselo rubare o saper mantenere e moltiplicare la roba e poi dover morire; con la pazienza, la solitudine e la violenza a stento mascherata «d’indifferenza orientale che è la dignità del contadino siciliano» (Jeli il pastore, in Giovanni Verga, Tutte le novelle, Einaudi 2015, p. 130).
E poi le piogge che rovinano il raccolto e il sole tremendo che moltiplica l’arsura. E la diffidenza verso i potenti. E su tutto la morte. La morte che fa impazzire Mazzarò al pensiero che dovrà lasciare ad altri – a degli sconosciuti – quella roba che è diventata la sua sostanza stessa, per la quale ha commesso la stoltezza di continuare a mangiare pane e cipolle quando i suoi granai straboccavano, per la quale ha vissuto, respirato, faticato, odiato. Senza ottenere una pace diversa dalla consolazione di vedere «gli scimuniti» perdere la loro roba e lui acquistarla.
La messa in scena assai tradizionale ma piacevole di Guarneri-Ferro inizia con Mazzarò che recita l’incipit della novella, il suo canto del possesso nello spazio sconfinato della terra:

«Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell’ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristemente nell’immensa campagna e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: — Qui di chi è? — sentiva rispondersi: — Di Mazzarò —. E passando vicino a una fattoria grande quanto un paese, coi magazzini che sembrano chiese, e le galline a stormi accoccolate all’ombra del pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli occhi per vedere chi passava: — E qui? — Di Mazzarò —. E cammina e cammina, mentre la malaria vi pesava sugli occhi, e vi scuoteva all’improvviso l’abbaiare di un cane, passando per una vigna che non finiva più, e si allargava sul colle e sul piano, immobile, come gli pesasse addosso la polvere, e il guardiano sdraiato bocconi sullo schioppo, accanto al vallone, levava il capo sonnacchioso, e apriva un occhio per vedere chi fosse: — Di Mazzarò —. Poi veniva un uliveto folto come un bosco, dove l’erba non spuntava mai, e la raccolta durava fino a marzo. Erano gli ulivi di Mazzarò. E verso sera, allorché il sole tramontava rosso come il fuoco, e la campagna si velava di tristezza, si incontravano le lunghe file degli aratri di Mazzarò che tornavano adagio adagio dal maggese, e i buoi che passavano il guado lentamente, col muso nell’acqua scura; e si vedevano nei pascoli lontani della Canziria, sulla pendice brulla, le immense macchie biancastre delle mandre di Mazzarò; e si udiva il fischio del pastore echeggiare nelle gole, e il campanaccio che risuonava ora sì ed ora no, e il canto solitario perduto nella valle. – Tutta roba di Mazzarò. Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle, e il sibilo dell’assiolo nel bosco. Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra».
(Tutte le novelle, pp. 256-257)

La roba è parola tra i siciliani sacra, anche quando essa non riguarda direttamente dei beni economici ma il possesso di cariche politiche, amministrative, accademiche. La roba è il concetto materico per eccellenza. La roba è una droga capace di porre fine alla miseria e di dare senso al regime quotidiano della lotta. Greci e hobbesiani; solitari «sul cuor della terra» e splendenti d’ironia come il sorriso dell’ignoto di Antonello, i siciliani vivono la pienezza dell’assurdo mentre vengono inghiottiti dalle tenebre della storia e del tempo.

Pindaro

Di Pindaro (520-446) von Balthasar scrive che «un solo poeta lirico ha ancora inteso la sua arte unicamente come glorificazione di quanto esiste di regale, di vittorioso e di magnifico nel mondo, dove la gloria totale è il preciso e necessario confluire delle due glorie: della trasfigurante e della trasfigurata. […] Celebrazioni dei vincitori – uomini e fanciulli – ai giochi panellenici in Olimpia, Delfi (Pizia), sull’istmo di Corinto e a Nemea . […]
Il mondo è giustificato: vincitori e poeti insieme uniti ne fanno festa. Gli epinici sono un’opera d’arte totale, venivano cantati da un coro e danzati in termini mimici; le parole senza musica che ci sono rimaste, nonostante la loro elevatissima arte linguistica, non possono più comunicarci l’intero effetto di un tempo»1.
Dalla Beozia alla Sicilia, dal cuore della Grecia a Etna (Catania) e ad Agrigento – la quale è «καλλίστα βροτεᾶν πολίων, bellissima fra le umane città»2 -, dal tempo profondo dell’antica Ellade all’oggi. Pindaro è il canto, Pindaro è Apollo.
I suoi epinici, i suoi inni per la vittoria, mostrano quanto naturale fossero per i Greci il corpo, gli spazi, la relazione e la forza. Le Olimpiadi, le Nemee, le Istmiche, le Pitiche e altre manifestazioni più circoscritte sono i momenti nei quali da ogni città della Grecia partono giovani, sovrani, poeti, musici, per mettere alla prova se stessi sperando di dare lustro alla propria città. E Pindaro prende spunto dal successo dell’uno o dell’altro nella corsa a piedi – 200 metri, mezzofondo, fondo – e in quella con i cavalli, nella lotta – pugilato o pancrazio -, nel salto in lungo, nel lancio del disco e del giavellotto, prende spunto da queste sfide per attingere ogni volta con il canto la storia e il mito greci, inseparabili. 

Sembra proprio che gli dèi vivano con noi, che ogni volta si ricordino di noi mentre noi ci ricordiamo di loro, della loro luce. Soprattutto di quella di Apollo, che «ὅσσα τε χθὼν ἠρινὰ φύλλ᾽ ἀναπέμπει, χὠπόσαι / ἐν θαλάσσᾳ καὶ ποταμοῖς ψάμαθοι / κύμασιν ῥιπαῖς τ᾽ ἀνέμων κλονέονται, χὤ τι μέλλει, χὠπόθεν / ἔσσεται, εὖ καθορᾷς, di ogni cosa sai / lo sbocco sicuro e tutte le vie / e quante foglie fa germinare la terra a primavera e quanti / grani di sabbia in mare e nei fiumi / sono travolti dalle onde e dalle raffiche dei venti / e con certezza riconosce che cosa / sarà e per quale ragione» (IX, 45-49, p. 178), sì, la mente (νόῳ) del Λοξίας davvero «πάντα ἰσάντι, tutto sa» (III, 28, p. 98).
Pindaro sa che dismisura bisogna evitare, perché «χρὴ δὲ κατ᾽ αὐτὸν αἰεὶ παντὸς ὁρᾶν μέτρον, dobbiamo sempre guardare la misura d’ogni cosa in accordo col nostro stato» (II, 34, p. 88).
Pindaro sa che «σθένος ἀελίου χρύσεον, l’aurea energia del sole» (IV, 144, p. 124) riempie di gioia la vita dei mortali, l’esistenza degli «ἐπάμεροι», degli effimeri che possono chiedersi «τί δέ τις; τί δ᾽ οὔ τις; σκιᾶς ὄναρ / ἄνθρωπος. ἀλλ᾽ ὅταν αἴγλα διόσδοτος ἔλθῃ, / λαμπρὸν φέγγος ἔπεστιν ἀνδρῶν καὶ μείλιχος αἰών, Cosa siamo? Cosa non siamo? Sogno di un’ombra / l’uomo. Ma quando, dono degli dèi, appare un bagliore, / vivida luce si spande sugli umani, e dolce la vita» (VIII, 95-97, p. 172).
Pindaro sa che se gli effimeri qualche gioia pur vivono, essa però «ἄνευ καμάτου / οὐ φαίνεται, senza pena  /non si mostra» (XII, 28-29, p. 208) poiché «θεὸς εἴη / ἀπήμων κέαρ, solo un nume / può restare immune da rovina» (X, 21-22, p. 190).

Gli umani senza dolore non sono raggiungibili né veleggiando con navi né percorrendo a piedi i cammini e le terre; solo Apollo conosce «ἐς Ὑπερβορέων ἀγῶνα θαυματὰν ὁδόν, la via meravigliosa che porta all’accolta degli Iperborei» (X, 30, p. 190). Noi βροτοί, noi mortali, possiamo e dobbiamo diventare ciò che siamo – «γένοι᾽ οἷος ἐσσὶ μαθών» (II, 72, p. 92) -, dobbiamo e possiamo diventare tempo che va, tempo che pensa, tempo che si raggruma e che si dissolve nella potenza senza fine della materia sacra.
Pindaro ci fa proprio sentire che «gli dèi ci sono»3. 


Note

1. Hans Urs von Balthasar, Nello spazio della metafisica. L’antichità, vol. IV di Gloria. Un’estetica teologica (1965), trad. di G.  Sommavilla, Jaca Book 2017, pp. 87-88.

2. Pindaro, Pitiche (498-446), a cura di Franco Ferrari, Rizzoli 2018, XII, 1, p. 204. Le successive indicazioni bibliografiche appariranno tra parentesi nel corpo del testo: numero della composizione, verso, numero di pagina dell’edizione Rizzoli.

3. Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, Der Glaube der Hellenen, cit. in Warburg e il pensiero vivente, a cura di Monica Centanni, Ronzani Editore 2022, p. 107.

D’Arrigo

Il mare e la morte nell’opera di Stefano D’Arrigo
in Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre-ottobre 2022
pagine 147-151

Indice
-Il mare, la morte
-Omero / Heidegger
-L’Orca, la materia
-La potenza della femmina
-Un lessico arcaico, splendente e magico
-Il mare della Nonsenseria

Dentro le spire dello spazio e i gorghi del tempo; dentro una lingua antica, espressionistica e lontana, «quell’isola macerata e persa, la Sicilia» ha generato lungo i secoli eventi, parole e umani sorridenti e solitari. Alla fine ha generato il mare, ha generato la morte. La morte e il mare che sono la stessa cosa, il secondo rende visibile la prima.
Alla fine la Sicilia ha generato l’Orca di Stefano D’Arrigo, emblema fisico e materico dell’essenza del vivente, che è appunto il morire, il quale comincia sin dal primo istante dello stare al mondo.
Horcynus Orca è un romanzo omerico e heideggeriano. Omerico per il mare e per i nomi, per la struttura epica che tutto lo pervade, perché romanzo marino e occidentale. Romanzo heideggeriano perché incentrato sull’«essere che passa per la Morte», sulla morte come necessità del vivente e destino cosmico.
Horcynus Orca è soprattutto una macchina linguistica che senza requie inventa la propria strada e la percorre con gli strumenti della parola, delle parole inventate, ricreate, rese una cosa sola con il reale. Un lessico arcaico, splendente e magico nel quale un siciliano ritrova suoni, verbi, avverbi, aggettivi della propria storia, quali: incantesimato, scandaliare, pìccio, per la madosca, tappinara, nisba; nel quale i costrutti e il vocabolario sono a ogni pagina inventati, creati, reinventati, metabolizzati, metamorfizzati. Parole dentro le quali si sprofonda: «La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro più dentro dove il mare è mare».

[La foto di D’Arrigo è di Ferdinando Scianna (1988)]

Forme / Vibrazioni

Ruggero Savinio. Opere 1959-2022
Palazzo Reale – Milano
A cura di Luca Pietro Nicoletta
Sino al 4 settembre 2022

Le stanze assai belle dell’Appartamento dei Principi di Palazzo Reale sono arredate con preziosi mobili dell’Ottocento. In singolare e armoniosa continuità, questo luogo ospita sino al settembre del 2022 alcune opere di Ruggero Savinio, che vanno dalle strutture e modalità più lineari degli anni Sessanta sino allo stile sempre più agglutinato del presente. Sempre però le macchie diventano colori, i colori diventano forme, le forme diventano figure. I gialli e gli azzurri sono intensi, puliti, pompeiani, geometrici, dinamici. Un sentimento panico del paesaggio si esprime come materia che vibra, pigmenti che si fanno tempo. E questo può accadere perché gli oggetti che percepiamo e che ci sembrano stabili – dai sassi alle montagne, dai sorrisi di chi ci sta vicino alle onde del mare – sono in realtà un flusso continuo e continuamente variabile, una vibrazione senza fine, una costante e inoltrepassabile incostanza. Sono tempo.
Spesso i titoli dei quadri sono vergati sui quadri stessi, insieme alla firma e a volte con l’aggiunta di alcuni versi. Roma, città privilegiata dall’artista, appare come densa e dissolta tra il suo pieno e le sue rovine. Un quadro dedicato alla Sicilia scolpisce il blu del mare e del cielo, il rosso dei campi, l’impotenza e la bruttura delle costruzioni, la prospettiva e la fuga delle linee. Forme umane, forme architettoniche, forme paesaggistiche disegnano e fanno emergere «il cuore luminoso delle cose», come si intitola un libro di Savinio. Una luce che ha il sapore di antichi e lunghi crepuscoli invernali, quieti, placati nel silenzio degli spazi.

Sciascia / Marpessa

FERDINANDO SCIANNA
Viaggio Racconto Memoria
Palazzo Reale – Milano
A cura di Paola Bergna, Denis Curti, Alberto Bianda
Sino al 5 giugno 2022

In cinquant’anni di immagini, Ferdinando Scianna ha scattato più di un milione di fotografie. Ma, dichiara, «pochissime sono le foto buone». In effetti, qualunque mostra fotografica -tanto più se l’autore è molto noto- costituisce un distillato dello sguardo incessante che indaga le forme del mondo e da esso cerca di ricavare senso, simbolo, bellezza. Nonostante le sue dichiarazioni sul primato del reale rispetto alle immagini, nonostante le affermazioni per le quali «le fotografie non sono metafore» poiché «mostrano, non dimostrano», la più parte delle opere di Scianna sembrano in realtà costruite; non emergono dal mondo ma lo plasmano con degli obiettivi ben precisi per quanto ogni volta diversi in relazione ai soggetti: paesaggi, umani, ritratti, moda, feste, lavoro, solitudini. Emblematica una immagine dal titolo Mantova, 1991 nella quale una serie artificiosa di specchi inquadra una donna, le sue cosce, in una fuga che fa pensare a Velázquez.
Scianna scrive molto e dichiara apertamente che «fare libri è diventata la ragione e l’ossessione essenziale della mia esistenza e del mio lavoro». Esistenza e lavoro che si sono aperti ai luoghi più diversi del pianeta ma che trovano nella Sicilia il loro vero centro estetico ed esistenziale: le feste religiose, la nebbia di Enna, gli umani di Bagheria (città natale del fotografo), il latifondo e il mare, la solitudine e l’arcaico, il Sole. Al quale Scianna dice di essere interessato «soltanto perché fa ombra». Ma per un siciliano sole e ombra sono inseparabili, sono la stessa realtà, sono il «barbaglio della promiscuità» che sfocia «in una limpida e attonita sfera» (Ungaretti). Lo si vede anche nei tagli di luce che chiudono il loro raggio illuminando un cane solitario tra le strade di Valencia.
Il «sentimento del tempo» di Ungaretti è simile a quello che prova Scianna quando vorrebbe «fermare il tempo, non fosse che per un istante». L’istante maschile/femminile, femminile/maschile che si coniuga in due delle migliori espressioni della sua arte, che sono anche due nomi: Leonardo Sciascia e Marpessa Hennink.
Coniugare uno dei massimi scrittori del Novecento e una modella olandese può sembrare bizzarro e tuttavia è su questi due corpi, sui loro volti e posture, che Scianna ha dato il meglio di sé: Marpessa è la femmina, nella sua potenza sensuale divertente distante funerea e maliziosa. Sciascia non è Sciascia, Sciascia è il pensare dei siciliani, il loro «sentimento» che in siciliano significa appunto anche «pensiero».
Entrambi, Sciascia e Marpessa, sono emblema di ciò che emerge con chiarezza nell’immagine forse più singolare di questa mostra, scattata a Bagheria nel 1972: una testa sorridente e quasi divertita, che emerge da alcune ghirlande di un funerale. La femmina, il maschio, la morte, la Sicilia, la gloria e il disincanto, l’ovunque.

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