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Wokismo

Wokismo e Decostruzione
Aldous, 28 maggio 2023
Pagine 1-3

Il wokismo è uno dei più significativi esiti sociali e culturali del postmoderno e del decostruzionismo. Due posizioni filosofiche, queste ultime, che si sono affermate soprattutto negli Stati Uniti d’America. Nato anche dalla volgarizzazione che Jacques Derrida ha compiuto della raffinata lettura heideggeriana di Nietzsche, il decostruzionismo ha tra gli altri ‘padri’ europei Deleuze e in parte Foucault. Queste prospettive filosofiche sono complesse e articolate ma nella lettura politica semplicistica che hanno ricevuto negli States (e, di rimbalzo, in Europa) sono diventate delle filosofie organiche al liberalismo woke.
Espressione e forma del decostruzionismo, nella sua applicazione woke, sono la dissonanza cognitiva, l’oscurantismo antibiologico, l’eliminazione delle differenze, l’ipermoralismo di impronta religiosa. In questo testo ho cercato di analizzarle una per una, seppur sinteticamente.
In particolare, la forma più clamorosa di oscurantismo antibiologico è la negazione dell’esistenza reale e innata del maschile e del femminile, ricondotti e ridotti a una pura costruzione sociale e culturale che bisogna in ogni modo smontare, a partire dai primi anni di formazione scolastica.
Non sarebbe neppure il caso di soffermarsi su questa evidente patologia – ritenere che maschi e femmine non esistano – se non fosse seriamente sostenuta in varie sedi. Si tratta di una patologia che costituisce l’ulteriore prova del rifiuto decostruzionista e woke della differenza in nome dell’uno, di una identità che deve eliminare ogni diversità ontologica, etica, politica, in nome di un’eguaglianza ridotta a pura uniformità dell’identico.
Uno dei teorici di tali tendenze è Paul B. Preciado, militante neofemminista spagnolo, autore di un manifesto contro ogni ‘stereotipo di genere’, che costituisce un’apologia dell’ano, «zona erogena comune a tutti gli umani senza differenze di sesso, orifizio che non discrimina ed è invece segno d’eguaglianza», che «si pone come il nuovo ‘centro controsessuale universale’. […] Elogio decostruzionista dell’ano, fondamento di un universalismo finalmente liberato dalla costrizione delle norme eterosessuali. […] Situarsi al di là del pene e della vagina, organi della differenza tra i sessi, dei quali va tuttavia sottolineato che si tratta solo di ‘costruzioni sociali’» (Pierre-André Taguieff).
Tale versione analocentrica del mondo dice davvero molto sulla totale assenza di umorismo che è un altro dei limiti della visione woke della società.

Gender

[Il testo è una riflessione a partire dal numero 51 (marzo 2021, pagine 204) della rivista Krisis, dedicato al tema dell’Amore. Discuto in particolare il contributo di Denis Collin, dal titolo La fin du désir et l’érotiquement correct. Collin è uno dei maggiori e più lucidi filosofi marxisti contemporanei, i cui testi mostrano quanto fecondo sia l’insegnamento di Marx quando viene elaborato per comprendere in modo critico le forme virulente e nascoste del liberalismo (e liberismo) del XXI secolo] 

L’amore ha uno statuto simile all’essere e al tempo, si dice in molti modi: «Le mot est polysémique, sa définition presque impossible, son histoire pleine de détours» (Damien Panerai, p. 3). I suoi tre principali significati sono:
φιλία, l’amicizia profonda, i legami familiari;
ἀγάπη, l’amore fraterno e universale, l’essere in comunione con qualcuno o qualcosa;
ἔρως, l’amore passione, l’amore desiderio, l’amore totale, l’unità corpomentale che noi animali siamo.
Non a caso quest’ultima parola, ἔρως, è «introuvable dans le Nouveau Testament grec» (Jean-François Gautier, 29). Ci sono poi altre forme, definizioni e significati dell’amore: l’amore trofeo nel quale l’amata, l’amato, l’amore stesso costituiscono un  titolo e un corpo da esibire; l’amore/innamoramento, intensissimo e dalla durata più o meno breve; l’amore/tenerezza frutto di una lunga consuetudine con l’oggetto amato; le tante, molteplici, radicali forme d’amore descritte da Stendhal e soprattutto la fenomenologia assoluta e completa del fatto amoroso che è l’intera Recherche proustiana.
L’ἔρως, il vero amore, è una potenza infinita, che «laisse dans les cœurs et les esprits des hommes des cicatrices d’impuissance» (Anthony Keller, 55). L’ἔρως è la più radicale forma di alterità, sia nel significato di un confronto/conflitto/relazione con l’altro da sé (con la Differenza), sia nel significato di una dimensione totalmente altra rispetto alle buone e moderate forme e norme del vivere sociale. E questo anche perché «l’amour est le royaume de la vulnérabilité, de l’abandon, de la faiblesse consentie, de la toute-puissance non de soi mais de l’autre sur nous» e perché «les cœurs parlant à l’unisson avec une intensité jumelle sont rares. L’expression d’un très grande amour, surtout quand il n’est pas partagé à hauteur égale, peut terroriser celui qui en est l’objet, le faire fuir»; l’esito è « une attitude à haut risque», è il dramma dell’abbandono e della fuga: «Se rappelle-t-on l’adage qui édicte: ‘Suis-mois, je te fuis, fuis-moi, je te suis’ ?»  (Anaïs Lefacheux, 109-110).

Anche per cercare di neutralizzare la potenza sovversiva e immedicabile dell’ἔρως sono nate nel corso della storia e in molte società (non in tutte) delle vere e proprie ‘Leghe di virtù’ che hanno cercato di ostracizzare il dio (Διόνυσος / Ἔρως). Numerose correnti e tendenze religiose ne costituiscono degli esempi chiari e influenti. Il cristianesimo è una di queste leghe moralistiche e virtuose. Si tratta di una tendenza radicata nella psiche dell’Occidente e camaleontica nelle sue espressioni. La più pericolosa tra quelle contemporanee è «le féminisme nouveau [il quale è] maintenant l’équivalent des anciennes ligues de vertu» arrivando persino, con «les fanatiques de #metoo» a chiedere l’inversione dell’onere giuridico della prova e che quindi sia l’accusato a dover dar prova della sua innocenza. Una barbarie giuridica che si origina dall’idea che «les hommes sont coupables par nature!» (Denis Collin, 72).
In generale il politically correct  si esprime anche come una pulsione di morte eroticamente corretta, la quale «s’inscrit pleinement dans le processus de ‘désublimation répressive’ analysé voilà plus de soixante ans par Herbert Marcuse. Loin d’une libération de l’Éros, il pourrait bien en signifier le déclin, vaincu par les forces de Thanatos, cette pulsion de mort qui taraude la société capitaliste d’aujourd’hui» (Id., 69); tale pulsione segna e determina una progressiva decadenza della libido e del piacere, tanto che «la conclusion ultime de la ‘ révolution sexuelle ’ est, paradoxalement, la fin du sexe, son éradication promise» (Id., 73).

Questa ondata di moralismo virtuoso e punitivo sembra avere a fondamento -come sempre– un vero e proprio odio verso la corporeità, il piacere, il sesso. Odio che si esprime anche come separazione/opposizione tra sesso, erotismo e amore, che sono in realtà la stessa dinamica espressa in forme diverse. Infatti «sans l’impulsion fondamentale de la pulsion libidinale, il n’y aurait pas d’érotisme, ni de sublimation amoureuse. […] Judith Butler est une idéaliste au plus mauvais sens du terme, et avec elle tous les champions du ‘ tout est construction sociale ’, puisq’elle prétend émanciper le rapport érotique de tout son fondement  naturel, ‘ matériel ’ pourrait-on dire» (Id., 74-75).
Le prospettive di Butler e di molti altri teorici della distinzione sesso/genere affondano nella tradizione dualistica della cultura occidentale per tendersi verso un culturalismo radicale, un volontarismo culturalista che disprezza o almeno ignora la potenza dei corpi ritenendo ad esempio che si possa «liquider les ‘ genre fixes ’ pour faire place à la liberté du ‘genre flottant ’. Je suis ce que je veux être à l’instant» (Id., 75). Chistine Delphy afferma con chiarezza che «ciò che è sociale non deve niente alla natura» e che «dietro la maschera della biologia è la società ad esprimersi come un ventriloquo» (Les Féminismes en question. Éléments pour une cartographie, 2005). Tesi, queste, talmente lontane dalla materia e dai corpi da  risultare del tutto sterili.
Il sentirsi maschi in un corpo di femmina e femmine in un corpo di maschio è certamente legittimo e anch’esso naturale ma questo non significa che la persona non abbia e non costituisca uno statuto ontologico che è maschile o femminile, senza incertezze. I maschi non hanno il ciclo mestruale, i maschi non vengono ingravidati, i maschi non partoriscono e non allattano. Le femmine non penetrano e non eiaculano con un pene. Dover ricordare simili ovvietà è segno di una inquietante negazione dell’animalità umana, sostituita dall’ennesima tendenza spiritualista che prende il nome di gender. È una delle tante tendenze del liberismo capitalistico, una delle molte espressioni del self-made-man, che costruisce da sé se stesso, la propria identità e il proprio mondo, una delle numerose tendenze dell’antropologia liberale che «postule l’interchangeabilité des individus, qui mène à leur atomisation» (David L’Épée, 103). 

Queste tendenze sono state analizzate a fondo da Eugenio Mazzarella in L’uomo che deve rimanere. La smoralizzazione del mondo (Quodlibet 2017). Il filosofo vi sostiene che «lo scenario ideologico che si apre è la pura e semplice smoralizzazione di massa del mondo, di cui la teoria del gender è oggi il ‘manifesto’ biopolitico più avanzato del work in Progress della reingegnerizzazione sociale in atto della sociogenesi ‘naturale’ fin qui attestata dalla ‘tradizione’. […] A scelta di un individuo che a priori, naturalmente e socialmente, non è ontologicamente nient’altro (o almeno tale si pretende) se non persona giuridica, fiction sociale titolare dei diritti che la società gli riconosce in una pattuizione ogni volta a determinarsi (pp. 43 e 45). La smoralizzazione della quale parla Mazzarella non è naturalmente un «banale immoralismo» ma costituisce la pretesa di rimoralizzare l’umano «su nuove basi tecnicamente e socialmente ‘escogitate’» (p. 48).
Simili confusioni ontologiche producono delle contraddizioni logiche come quella tra il gender e il trans. Se infatti ognuno è ciò che vuole essere, perché mai sarebbe necessario intervenire sugli organi genitali di un corpo/volontà che è già ciò che pensa di essere? «Les partisans des opérations de réassignation de genre apportent aux thèses de Butler et tutti quanti un démenti flagrant. On ne doit pas pouvoir être en même temps queer et trans» (Collin, 78). Dal punto di vista esistenziale, «c’est la haine de la nature et la haine de la chair qui animent ces gens. Rien d’autre. Et effectivement, ils son sürement très malheureux» (Id., 80).
E però, nonostante la grancassa mediatica del liberismo gender, nonostante le intimidazioni, l’arroganza e il fanatismo dei «commissaires politiques du sexuellement correct» (Id., 73), «en dépit des contrôles, des brimades et des interdictions, le désir finit toujours par se frayer un chemin» (Ludovic Maubreuil, 162). Nonostante i nuovi Pentèo che temono e disprezzano il piacere e vorrebbero ingessare le relazioni tra uomini e donne in una gabbia di norme fuori dalle quali gridano allo stupro, alla violenza, al maschilismo, alla molestia, nonostante questa barbarie puritana, Dioniso rimane il dio della ζωή, il trionfo del corpomente, la gloria del σῶμα.

La rosa, il respiro

Suite of Love – Nobuyoshi Araki
fOn Art Gallery – Aci Castello (Catania)
Fondazione OELLE Mediterraneo Antico
A cura di Filippo Maggia
Sino al 25 luglio 2021

Si respira. Liberi dal soffocamento moralistico che dietro l’apparenza del ‘rispetto per la donna’ nasconde ancora una volta la paura verso la potenza del corpo femminile, verso il suo abisso, la sua gloria. Paure oscurantiste e superstiziose, a fatica celate dietro lo scintillio delle etiche postmoderne. Paure profondamente maschili verso il gorgo di follia, di μανία, che la vulva e la bocca sempre rappresentano per chi teme di essere afferrato dalla loro inemendabile potenza. Paura del gioco, del rischio, dell’inquietudine che sesso e desiderio costituiscono ma senza i quali rimane soltanto la piattezza casta e funebre del politicamente corretto.
E invece le 1000 Polaroid selezionate da Nobuyoshi Araki sono strutture di pienezza e  di gioia, sono un vivere e un agire nei quali la forma femminile, il suo εἶδος, è fatta di Ἔρως / θάνατος, di Amore e Morte -come ci ha ricordato Carmelo Nicosia, guida esperta e splendida alla mostra. Queste immagini sapientemente costruite e nello stesso tempo rubate all’istante danno vita a un gioco seriale e potenzialmente illimitato, nel quale la rosa del sesso femminile che si apre è accostata alle rose fatte di petali, entrambe irresistibili, profumate, possenti e delicate; nel quale i rettili, quanto forse di meno erotico si possa immaginare, convivono con lo sguardo che freme di possesso; nel quale il dualismo di natura e artificio è oltrepassato nella metamorfosi dell’immagine fotografica in desiderio. Le Polaroid fungono da ingresso al bagno e alla camera da letto della suite, camera arredata con intense immagini in bianco e nero nelle quali si ripete ancora una volta ciò che affresca le stanze di Pompei, l’intimità della fellatio, il gioco vibrante, malinconico e segreto dei corpi. Al di là della suite, il primo piano della fOn Art Gallery ospita altre immagini erotiche di Araki: bamboline mescolate e custodite dentro ai fiori e fiori che si declinano nella effimera potenza della loro gloria quotidiana.
Dopo aver visitato la mostra, docenti e studenti del Dipartimento di Scienze Umanistiche di Unict e dell’Accademia di Belle Arti di Catania abbiamo discusso l’Estasi dell’arte. «Surrealismo orientale» ha definito Nicosia l’arte ludica e mortale di Nobuyoshi Araki, questa disseminazione del desiderio quotidiano nei luoghi di ogni giorno, questa cura ossessiva per l’immagine che diventa divertimento dell’immagine. Un Oriente e un Giappone molto greci, sacri. La «dimensione ieratica dell’arte» (ancora Nicosia) emerge infatti in Araki nel modo più impensato e del tutto naturale: quello di membra che fremono, di sguardi che desiderano, di istanti perfetti di piacere, di amore e di morte. «Post coitum animal/anima triste».

Di simboli e di furia

Needle Boy
di Alexander Bak Sagmo
Danimarca, 2016
Con: Nicklas Søderberg Lundstrøm (Nick), Marie Tourell Søderberg (Lisa), Lea Baastrup Rønne (Kamilla), Ditte (la prostituta), Marie Louise Wille (la madre).

Nick studia biologia ad Aarhus, in Danimarca. Si arma per uccidere i suoi colleghi ma quando arriva in Università apprende che sono tutti morti in un incidente in mare. La fidanzata lo accoglie con gioia ma lui la umilia. La madre lo abbraccia a saperlo ancora vivo ma lui insulta l’intera famiglia. Vaga per locali dove gli sembra di incontrare i propri compagni morti, partecipa a feste nel bosco dove rifiuta di essere sedotto, incontra prostitute, va a dormire nelle aule del Dipartimento. Ha ancora la pistola in tasca ma piange in una solitudine senza sbocchi.
Un film di grande qualità estetica ed esistenziale. La cinepresa non osserva la vita, non la riprende, non la filma. È come se la cinepresa emergesse dalla vita. Dai suoi frammenti di percezione, dai corpi che si muovono e si lavano, dai potenti desideri erotici, dall’impulso a dire agli altri le peggiori cose che pensiamo di loro, dagli spazi, dagli edifici, dalle stanze nelle quali abitiamo, dalla memoria angosciosa della nascita, dal silenzio e dalla morte.
E tutto questo con geometrica eleganza, con tagli di colore e di forma raffinati e inconsueti, con poche ed essenziali parole, con lo sguardo gelido della solitudine. La vita, la vita umana, la vita profonda. Piena di simboli e di furia, di attese e di sperma, di immaginazione e di materia.

Gender Theory

Negli studi accademici e nei mezzi di comunicazione di massa si va imponendo la Gender Theory, vale a dire l’idea di «sostituire a categorie come il sesso o le differenze sessuali, che rimandano alla biologia, il concetto di genere che, viceversa, dimostra che le differenze tra gli uomini e le donne non sono fondate sulla natura, ma sono storicamente costruire e socialmente riprodotte». Queste parole si trovano in una dichiarazione della deputata socialista francese Julie Sommaruga (cit. da A. de Benoist, in Diorama letterario 329, p. 1).
Si tratta di una posizione che va ben oltre qualunque forma di platonismo e di storicismo. È infatti una teoria che attribuisce uno degli elementi fondamentali dell’identità umana e animale -la differenza tra i sessi- al semplice effetto di opzioni culturali, di costume, di credenze ideologiche, filosofiche, religiose. Una teoria che dissolve esplicitamente la differenza a favore dell’identità. Caroline de Haas sostiene infatti che «noi non neghiamo le differenze tra gli esseri, ma diventiamo indifferenti alle differenze: così faremo un grande passo in avanti verso l’eguaglianza» (Id., p. 2). Monique Wittig va oltre e afferma che «per noi, non ci possono più essere né donne né uomini. […] In quanto categorie di pensiero e di linguaggio, essi devono scomparire politicamente, economicamente, ideologicamente» (Id., p. 3).
L’antimaterialismo culturalista nasce da una radicale ostilità verso la struttura biologica dei corpi umani e animali, «in particolare verso il corpo sessuato. Il corpo smette di essere il dato iniziale attraverso il quale noi apparteniamo alla specie. L’appartenenza alla specie è staccata in maniera metafisica da qualunque ‘incarnazione’: preesiste al sesso» (Ibidem). Le obiezioni mosse da Alain de Benoist a tali posizioni mi sembrano del tutto condivisibili. Ne riporto qui alcune.
«L’ideologia del genere poggia su due fondamentali errori. Il primo consiste nel credere che il sesso biologico non abbia alcun rapporto con l’identità sessuale né con la personalità, e che il genere si costruisca senza alcun’altra relazione con il sesso al di fuori delle ‘convenzioni’ alimentate dalla cultura, dall’educazione  o dall’ambiente sociale. Il secondo consiste nel confondere sistematicamente il genere, nel senso esatto del termine, le preferenze o gli orientamenti sessuali ed infine il ‘sesso psicologico’ o ‘bisessualità psichica’, cioè il grado di mascolinità o di femminilità presente in ciascuno di noi» (Ibidem).
È del tutto evidente che «ci sono solo due sessi, ma esiste una pluralità di pratiche, di orientamenti o di preferenze sessuali. […] Quel che il sesso biologico non determina non è il ‘genere’, ma la preferenza sessuale. La molteplicità delle preferenze sessuali non fa scomparire i sessi biologici, e neppure ne aumenta il numero. L’orientamento sessuale, quale che sia, non rimette in discussione il corpo sessuato» (Id., pp. 3-4). Il sesso biologico determina quindi sin dall’inizio l’essere femmine/donne o maschi/uomini, senza che questo vincoli poi le preferenze sessuali. Da maschio/uomo posso accoppiarmi con un altro maschio/uomo senza però diventare una femmina/donna. Ho esercitato la mia giusta libertà erotica ma non ho potuto negare la mia struttura biologica.
Pensare il sesso, comprenderlo, gestirlo, non è dunque possibile al di fuori di una prospettiva che sia insieme biologica e culturale. «La credenza secondo cui non si nasce donna o uomo è una manifesta controverità. Il sesso (xx o xy) si decide in realtà sin dalla fecondazione dell’ovocito da parte dello spermatozoo, cioè prima ancora della comparsa morfologica degli organi genitali. […] La differenza dei sessi appare quindi marcata ben prima della nascita. E il ruolo degli ormoni sessuali prosegue durante tutta la vita. L’umanità unisex, di conseguenza, è un non senso per definizione. Si appartiene alla specie umana solamente in quanto uomo e donna, e questa differenza è acquisita sin dai primi istanti della vita» (Id., p. 4).
Negare quest’ultima evidenza è una forma di ultraplatonismo che Platone sarebbe il primo a rifiutare. Si tratta di un’espressione estrema del dualismo metafisico, un dualismo scatenato e sbagliato. Coerentemente, i suoi sostenitori dovrebbero chiedere di modificare alla radice, ad esempio, la legislazione sportiva, che continua a separare le squadre maschili dalle squadre femminili; dovrebbero proporre che in una squadra di calcio, basket, pallavolo, i membri siano indifferentemente maschi o femmine, proprio perché non si sarebbe per natura né l’uno né l’altro. O correre insieme -maschi e femmine- i cento metri piani.
La mia critica (che qui ho solo accennato) dei presupposti, delle tesi e delle conseguenze implicite della Gender Theory si fonda su una prospettiva materialista. Infatti «Leib bin ich ganz und gar, und Nichts ausserdem [corpo io sono in tutto e per tutto, e null’altro]» (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, parte I, «Dei dispregiatori del corpo»)

Possesso

L’impero dei sensi
(Ai no Korīda – L’Empire des sens)
di Nagisa Oshima
Giappone, Francia 1976
Con: Eiko Matsuda (Sada Abe) Fuji (Kichizo Ishida)

Sada Abe lavora in una pensione, si lega al padrone in un rapporto erotico totale che li condurrà a esiti estremi. La vicenda accadde realmente in Giappone.
Molte scene sono esplicite: i corpi, le bocche, i membri, le vagine si intrecciano; i gesti, le posizioni, i movimenti dell’uno esigono e rispondono a quelli dell’altro, stabilendo una dipendenza e possesso perfetti. E tuttavia è un film gelido, nel quale a dominare è il Körper, l’organismo, più che il Leib, il corpo vissuto; è una tecnica di godimento e non una storia.
Il desiderio dell’altro implica certamente anche il desiderio del piacere che l’altro può offrirci, ma bisogna sopportare ciò che di effimero e inafferrabile è in gioco per saper riconoscere all’altro il suo proprio senso, irriducibile al nostro. Qui Sada non ammette interruzioni al loro inesauribile piacere, cerca sempre più e soltanto il membro del suo amante, per portarlo costantemente con sé. Kichi san, dal suo canto, si lascia possedere con totale abbandono, quasi a preferire la morte a una boccata d’aria tra gli orgasmi.
L’impero dei sensi è un elegante esercizio dello sguardo; è una illustrazione persino didascalica del legame tra Eros e Thanatos; è la disperazione proustiana dell’inoltrepassabile solitudine degli amanti, preferibile a tutto.
Non c’è erotismo ma c’è eleganza in quest’opera, l’eleganza di una civiltà avvezza a esprimere in forme misurate la ferocia. Come se il Sole che sorge sull’Oriente illuminasse ogni volta una Notte destinata a non finire. L’Eros è un’altra cosa. È scambio, sorriso, gioia.

Inno a Dioniso

Museo Archeologico
Museo della cultura bizantina

Thessaloníki

Mosaici, colonne, statue, porte, tombe, meravigliosi gioielli, oggetti d’uso quotidiano, descrivono le esistenze e le tonalità di vita degli antichi abitanti di Thessaloníki. L’ideale della bellezza femminile era esattamente l’inverso di quello attuale. Esso consisteva infatti nel mantenimento di una pelle bianchissima: «For this reason, upper-class women avoided the Sun».
Thessalonìki_Museo_archeologico_erosAssai diverso era anche il modo semplice e naturale di vivere la sessualità. Su vasi e altri oggetti, infatti, sono dipinte delle esplicite scene erotiche; qualcosa che nelle società cristiane sarebbe semplicemente pornografia. Dalle steli funerarie -davvero numerose in questo museo- non traspare nessuna angoscia ma, semmai, la malinconia del saluto. È che Thessaloníki dedicava un particolare culto a Dioniso e ad Asclepio. Il cratere Derveni narra in modo splendido le nozze di Arianna e Dioniso, è un vero e proprio «hymn to the god Dionysus».
Il vicino Museo della cultura bizantina raccoglie nelle prime sale la prosecuzione del mondo classico in quello cristiano. Significativa testimonianza di tale compenetrazione non sono soltanto le architetture religiose ma anche il fatto che cristiani e pagani fossero sepolti negli stessi cimiteri. Poi il dominio politico dei cristiani e il loro esclusivismo biblico posero fine a tale molteplicità e moltiplicarono i segni del lutto e della tristezza. Le croci nazarene sostituirono il Sole pagano. E fu il tramonto di un mondo dedito alla Bellezza. Ma gli dèi sanno aspettare.

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