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Eleusi. Una negazione

Piccolo Teatro – Milano
Eleusi
di Davide Enia
Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
10-11 giugno 2023

Dalle ore 21.00 del 10 giugno 2023 alle ore 21.00 del giorno successivo in due delle sedi del Piccolo Teatro di Milano è andata in scena una recitazione collettiva che ha visto al Teatro Studio l’alternarsi di 32 cori mentre una voce registrata raccontava fatti di violenza, senza nomi di persone e di luoghi ma assai probabilmente riferiti ai viaggi dei migranti dall’Africa del Nord all’Europa; al Teatro Grassi a ogni inizio d’ora e per una ventina di minuti sono stati messi in scena alcuni brevi testi dedicati a violenze, torture, sottomissioni.
Che cosa c’entra una simile operazione con il titolo Eleusi? Che cosa hanno a che fare le espressioni della ὕβρις contemporanea con il rito greco? Nulla, non hanno in comune nulla.
I Greci non erano moralmente buoni ma antropologicamente disincantati. I Greci non erano misericordiosi ma feroci. I Greci non erano accoglienti: l’ospite per loro è sacro come individuo, non certo come masse di popolazioni, all’arrivo delle quali rispondevano ovviamente con le armi. I Greci non erano sentimentali ma leggevano gli eventi alla luce del cosmo; il Timeo è una delle più profonde testimonianze di questo atteggiamento ma è l’intera cultura greca a esserne pervasa. I Greci, in una parola, non hanno nulla a che fare con le miserie, la viltà, le ipocrisie, il conformismo e la sottomissione che intridono le società contemporanee e che emergono in modo evidente in operazioni come questa realizzata dal Piccolo Teatro. Il quale è transitato negli ultimi anni da Brecht e da un progetto di emancipazione  politica a una pressoché completa omologazione alle mode morali del presente.
I testi letti mentre i cori cantavano tendono, nella loro crudeltà, a suscitare emozione e, probabilmente, a convincere che i migranti vanno accolti tutti. Ma è proprio questa stolta convinzione una delle principali cause delle crudeltà subite dai migranti. Ne ho parlato in passato anche in questo stesso sito sulla base di testi scientifici ben documentati, come ad esempio l’indagine di grande valore dal titolo La ruée vers l’Europe. La jeune Afrique en route pour le Vieux Continent (Grasset, Paris 2018, tradotta in italiano da Einaudi).
A favorire violenza, annegati e morti sono le ONG che dispongono di grandi risorse finanziarie (provenienti da dove?), che con un sistema di collegamenti satellitari conoscono le rotte delle imbarcazioni prima ancora che esse si mettano in mare, che sono complici degli scafisti, dei trafficanti di persone umane; ONG che sono una delle espressioni contemporanee del colonialismo e dello schiavismo che depauperano il continente africano del ceto medio (i più ‘poveri’ non hanno neppure i soldi per tentare il viaggio) e producono conflitti etnici in Europa. Quei conflitti che poi le stesse ONG e i cittadini ‘solidali, inclusivi e accoglienti’ denunciano con la parola-grimaldello razzismo. A essere ‘razzisti’ sono coloro che ritengono l’Africa un luogo di inferiorità culturale dal quale fuggire. Il colonialismo ha molte forme e le ONG ‘in soccorso dei migranti’ sono una di esse. Più in generale è in atto – mediante televisione, giornali, teatri, social network- una tendenza alla semplificazione emotiva e sentimentale di complessi problemi sociali e politici il cui esito è l’aggravarsi di tali problemi.
Al contrario, se si vuole fare lo sforzo di capire al di là dello spettacolo emotivo, il flusso senza interruzioni di migranti dall’Africa e dall’Asia verso l’Europa conferma le tesi marxiste a proposito dell’«esercito industriale di riserva», la cui disponibilità serve ad abbassare i salari e a incrementare il plusvalore: «Un esercito industriale di riserva disponibile [eine disponible industrielle Reservearmee] che appartiene al capitale in maniera così assoluta come se quest’ultimo l’avesse allevato a sue proprie spese. Esso crea per i propri mutevoli bisogni di valorizzazione il materiale umano sfruttabile sempre pronto [exploitable Menschenmaterial]» (Il Capitale, libro I, sezione VII, cap. 23, «La legge generale dell’accumulazione capitalistica», §§ 3-4).
Ma perché porre questa propaganda a favore della globalizzazione capitalistica sotto il titolo Eleusi? Una risposta superficiale consiste nel ritenere che chi ha scelto il titolo non sappia nulla di Eleusi e della società greca o che abbia cercato di trovare un titolo che funga da tipico ‘specchietto per le allodole’. Una risposta forse più profonda potrebbe far riferimento al bisogno di nobilitare la violenza contemporanea ponendola sotto l’egida di una civiltà che viene inconsciamente percepita come superiore. Ma proprio per questo i Greci non possono essere strumentalizzati nel modo sfacciato e miserabile di Eleusi.
«Come a Eleusi, così a Samotracia, Dioniso è dio segreto dei Misteri» (Angelo Tonelli, Negli abissi luminosi. Sciamanesimo, trance ed estasi nella Grecia antica , Feltrinelli 2021, p. 292) durante i quali si venera anche il fallo e ci si immerge in un rito di iniziazione nient’affatto ‘inclusivo’ ma riservato a pochi. In La sapienza greca Giorgio Colli scrive infatti che «l’accesso al peribolo sacro di Eleusi era proibito ai non iniziati, a costo di pene gravissime», un brano citato nel programma di sala (p. 37), così come altri testi (di Mircea Eliade, ad esempio) che però non hanno alcun collegamento con questa operazione teatrale e anzi ne rappresentano la negazione.
I misteri di Eleusi erano volti a rendere l’umano una sola cosa con Γῆ e con Demetra, con la Madre Terra e con il suo perenne rinascere. Che cosa ha a che fare tutto questo con la dismisura contemporanea delle azioni e dei sentimenti? La motivazione data da Davide Enia è la seguente: «Si chiama Eleusi, perché, nell’antica Grecia, quella era la città dove ci si recava in pellegrinaggio rituale, e anche qui ci si sposta tra un teatro e l’altro per accostarsi a un “mistero”» (programma di sala, p. 7). Una motivazione inaccettabile nella sua pura esteriorità analogica. Che lascino in pace i Greci, una buona volta, e chiamino le loro operazioni intrise di ‘accoglienza’ con i nomi contemporanei del dominio e della menzogna.

Islam

Differenze
Oltre il politicamente corretto
in Dialoghi Mediterranei
Numero 52, novembre-dicembre 2021
Pagine 373-384

Indice
-Premessa
-Le tesi di Ciccozzi
-Razzismi e altro
-La guerra giusta
-Il tramonto di Westfalia e l’emergere del terrore
-Potere, informazione, globalizzazione
Migranti. Un’analisi sociologica
-Identità e Differenza

Per 11 anni ho insegnato Sociologia della cultura nel Dipartimento di Scienze Umanistiche di Unict. Essendomi stato affidato un nuovo insegnamento nel corso magistrale di Scienze filosofiche, ho dovuto rinunciare a insegnare SdC nel corso triennale di Filosofia. Devo dire che mi dispiace perché ho trovato degli studenti sempre assai coinvolti nelle tematiche che ho loro proposto e perché insegnando sociologia ho imparato (a cercare di) osservare i fatti sociali con il maggior rigore possibile e con il necessario distacco scientifico.
Il testo uscito sul numero 52 di Dialoghi Mediterranei nasce dal confronto con un saggio di Antonello Ciccozzi dedicato al tema complesso e delicato del rapporto tra cultura e costumi europei e cultura e costumi islamici. Un saggio secondo me illuminante, a partire dal quale ho tentato di delineare altri aspetti del rapporto tra la civiltà europea e la civiltà musulmana, con riferimenti alle questioni razziali, alla geopolitica, al diritto pubblico europeo nato con le paci di Westfalia (1648). Credo infatti che solo alla luce della vicenda secolare del Mediterraneo si possano comprendere le potenzialità di arricchimento e gli insuperabili limiti del rapporto con le ondate migratorie provenienti dai Paesi islamici. Mi auguro insomma che questo testo, anche se breve, possa testimoniare la fecondità di una prospettiva sociologico-filosofica con la quale leggere i fenomeni più profondi della storia contemporanea.

Psicopatologie razziali

Il numero 355 (maggio/giugno 2020) della rivista Diorama Letterario ospita un articolo di Alain de Benoist dal titolo Il nuovo regime dell’apartheid.
È un’analisi acuta e critica, che mostra con chiarezza il vero e proprio coacervo di contraddizioni che la questione del genere e della razza suscita, sino a esiti francamente psicopatologici.
Quella descritta in queste pagine sembra infatti una commedia dell’assurdo e invece è ben vera e ben dentro la cultura contemporanea. Ed è anche una straordinaria eterogenesi dei fini, che tramite il politicamente corretto sta restituendo piena legittimità al concetto di razza proprio per opera di chi crede di combattere contro il razzismo.

Un brano:
«Lʼetnicizzazione dei rapporti sociali costituisce uno dei sintomi maggiori di una società in via di atomizzazione e di dissoluzione generalizzata, in cui gli uni e gli altri tentano di ricollegarsi ad identificazioni culturali che sono a loro volta in via di esaurimento.
Per una volta ben ispirato, il saggista Jean-Loup Amselle scrive: “Esistono al contempo una razzializzazione, intrapresa dai discriminanti, di coloro che discriminano, e una razzializzazione reciproca, speculare, che è essa stessa opera dei discriminati o di coloro che parlano a loro nome. La Francia sembra ormai entrata in un processo di separazione etnica e razziale che serve da sostituto della coscienza di classe di un tempo”.
In questo mondo in cui sia lʼassimilazione che la laicità sono già morte de facto, lʼautosegregazione geografica, e quindi la suddivisione etnica, è in realtà già allʼopera.
Nelle sue Note sulla questione degli immigrati, del 1985, Guy Debord scriveva: “Gli immigrati hanno il più bel diritto per vivere in Francia. Sono i rappresentanti dellʼespropriazione; e lʼespropriazione è a casa sua in Francia, a tal punto vi è maggioritaria e quasi universale. Gli immigrati hanno perso la loro cultura e il loro paese, molto notoriamente, senza poter trovarne altri. E i francesi sono nello stesso caso, soltanto un poʼ più segretamente. […] In questo orribile nuovo mondo dellʼalienazione, non c’è più nessun altro se non immigrati”».

 

Sfruttamento / Discriminazione

«Quando al negro capita di guardare il Bianco con ferocia, il Bianco gli dice: ‘Fratello, non c’è differenza fra noi’. Eppure il negro sa che vi è una differenza»
(Frantz Fanon, Pelle nera, maschere bianche, ETS, 2015)

Più che opportuno, un approccio critico all’idea e all’ideologia dei diritti umani è proprio necessario in un’epoca che sembra vedere in essi una nuova religione. È questa la prospettiva del numero 2/2018 del «Giornale critico di storia delle idee. Rivista internazionale di filosofia / Critical Journal of Ideas. International Review of Philosophy», che ha come titolo Dell’uomo e dei diritti / On Human and Rights (Mimesis, 2019; vi è è stato pubblicato anche un mio contributo dal titolo Oltre l’umanismo, oltre l’umanitarismo).
L’obiettivo metodologico, scrivono i due curatori del volume, «era quello di fornire una mappatura sul dibattito intorno ai diritti umani con il fine di portarne in superficie le contraddizioni, le paradossalità e le antinomie, per far deflagrare ed esplodere l’immagine della loro presunta neutralità e naturalità. […] Compito della storia critica delle idee è infatti quello di porre in discussione e ripensare i ‘diritti dell’uomo’ al di là tanto della loro presunta naturalezza, nella forma dell’evidenza della loro definizione, quanto della presunta neutralità della loro applicazione» (Gianpaolo Cherchi e Antonio Moretti, Nota editoriale, pp. 7-8).
L’origine borghese di questi diritti li caratterizza ab ovo non soltanto come puramente formali e quindi  adattabili a qualsiasi autorità, istituzione e scopo -emblematica una formula quale «guerra umanitaria»– ma soprattutto come falsamente universali. Dietro e dentro la loro formulazione abita infatti (come è ovvio) una certa e determinata idea di umano, quella dell’Occidente cristiano, che è una delle molte possibili ma che si presenta e si impone come l’unica pensabile.
La relatività, il particolarismo, la cangiabilità, la funzionalità a determinati obiettivi della teoria dei diritti umani sono mostrate in modo evidente e plastico dal plesso semantico terrorismo/terrorista. Nel suo saggio -uno dei più interessanti del volume– dal titolo Artefatti, ostensione e realtà istituzionale. Le ‘Unità anti-terrore’ nella guerra siriana, Davide Grasso analizza le ragioni per le quali individui, gruppi e istituzioni vengono definiti e si definiscono anche reciprocamente ‘terroristi’ e pertanto la grave debolezza epistemologica di questa caratterizzazione, che acquista senso soltanto in una prospettiva di propaganda politica: 

L’alone semantico del termine ‘terrorismo’ è estremamente oscuro tanto nel linguaggio giuridico che nel linguaggio ordinario. […] Il termine terrorismo è quindi da considerarsi, nei fatti, uno strumento concettuale utilizzato da attori differenti per squalificare questa o quella manifestazione di potere, che si origini contro le istituzioni o da parte di istituzioni considerate illegittime. Questo spiega in gran parte la difficoltà giuridica, e ancor più metafisica, di definire il terrorismo. […] Una qualifica attribuita dagli stati, da almeno un secolo, alle organizzazioni armate che promuovono o difendono istituzioni alternative a quelle esistenti (136-137).

I diritti umani sono, anche e specialmente, un dispositivo del tutto impolitico e per questo molto pericoloso. Hannah Arendt, filosofa di acuta intelligenza sulle cose umane, nelle Origins of Totalitarianism ha sostenuto che «i Diritti dell’Uomo sono i diritti di coloro che sono solo esseri umani, che non hanno altra proprietà rimasta loro se non quella di essere umani. In altre parole, sono i diritti di chi non ha diritti, la mera parodia del diritto» (Jacques Rancière, Who is the Subject of the Rights of Man?, p. 27).
Una parodia del diritto che fa da fondamento alla sostituzione dell’elemento politico con quello morale e psicologico. Sostituzione che giustifica ogni struttura oppressiva. Un esempio tratto da un ambito apparentemente lontano ma spero chiaro è il concetto francescano di povertà. Esso favorisce la rassegnazione alla diseguaglianza economica perché giustifica la condizione di povertà, addirittura esaltandola come veicolo di santità, e permette a chi non è povero di mostrarsi solidale e umanitario dando parte della propria ricchezza a chi sta peggio. A condizione che questo scambio volontaristico e personale non intacchi le strutture economiche e sociali che generano povertà e ricchezza: «i poveri li avrete sempre con voi; e quando volete, potete far loro del bene», come disse il Rabbi galileo (Mc., 14,7, trad. Nuova Diodati).
Significativo sino a risultare fondamentale è anche lo slittamento semantico che ha in pratica cancellato dalla saggistica e dal discorso pubblico la parola sfruttamento sostituita dal termine discriminazione. «Sfruttamento» si riferisce infatti a una struttura socioeconomica, «discriminazione» a un atteggiamento psicologico-giuridico. La prima parola implica la necessità di un cambiamento oggettivo, per la seconda è sufficiente una modifica formale dei rapporti di potere.
La «recensione critica» che Andrea Caroselli e Miguel Mellino hanno dedicato al libro di Didier Fassin Ragione umanitaria. Una storia morale del tempo presente (Gallimard 2010; trad. it. DeriveApprodi 2018) si intitola La trappola umanitaria: l’umano come cifra dell’accumulazione neoliberale. Ne riporto alcuni brani che non hanno bisogno di commento.

Le molteplici ‘emergenze’ degli ultimi anni mostrano come il discorso umanitario, che trasforma l’appello a una medesima condizione umana nella sostanza stessa della politica, necessiti non solo di mostrare la presenza di soggetti sofferenti, mobilitando un immaginario caritatevole, ma, ancor più significativamente, di spostare l’attenzione dalla struttura a un soggetto, costruito in termini morali, nel quale sarebbe possibile riconoscerci perché garantiti da una presunta unità del genere umano. Un’economia dello sguardo, dunque, nella quale all’analisi delle cause si sostituisce una cura degli effetti (242-243).
[…]
Il dispiegamento della logica umanitaria, difatti, non fa che spogliare gli eventi di qualsiasi specificità di ordine storico-politico-economico e, nella ripetizione senza differenze di eventi drammatici, riafferma continuamente sia lo stato di emergenza da cui è legittimata, sia i rapporti di disuguaglianza entro cui si iscrive (243).
[…]
Ed è qui che risiede l’essenza  e la forza (ideologica) della ‘ragione umanitaria’ come nuovo dispositivo egemonico di governo: nella sostituzione del vecchio lessico della politica organizzato attorno a espressioni come lotta, sfruttamento, dominio, diritti, giustizia, con una nuova grammatica discorsiva in cui a prendere il sopravvento sono nozioni di tipo morale come compassione, sofferenza, solidarietà (243).
[…]
Tuttavia, se è chiaro che ci troviamo permeati da un ordine del discorso politico dominato dall’empatia e dai sentimenti morali, è ormai altrettanto chiaro, a nostro avviso, come, per quanto riguarda le migrazioni, ‘il governo umanitario’ sia indissociabile dalla mercificazione progressiva del sistema dell’accoglienza, ovvero dai processi neoliberali di valorizzazione economica e di messa al lavoro di quegli stessi soggetti descritti attraverso la figura del ‘bisognos* d’aiuto’. Descrivere i dispositivi di governo umanitario senza metterne in evidenza né gli aspetti di rendita e di profitto, né la loro centralità nella produzione ’istituzionale’ di una forza lavoro precarizzata e semi-servile, equivale a de-politicizzare quella stessa critica alla de-politicizzazione che è la tesi forte dell’autore (244-245).
[…]
Per quanto la lotta per cercare di salvare vite umane sia assolutamente importante, ci sembra necessario che essa si rifletta all’interno di un’analisi che tenga conto della complessità del presente. Un’accettazione acritica del paradigma umanitario rischia infatti non solo di non rivelarsi all’altezza della sfida, ma di produrre effetti politici perversi (247)
.

Analisi come queste segnano la differenza tra una prospettiva economico/politica -e quindi strutturale ed emancipatrice dallo sfruttamento– e una prospettiva soltanto morale e sentimentale, limitata alla discriminazione formale e quindi reazionaria.

Contro la bêtise

Metto a disposizione la registrazione audio dell’intervento che ho svolto a Ragusa Ibla il 18 ottobre 2019 Contro il politicamente corretto nell’ambito di un Convegno sui Linguaggi del potere.
Ho esordito accennando alla funzione dell’intellettuale in una società caratterizzata da un uso costante e pervasivo dei social network.
Il primo riferimento teoretico-critico è a Proudhon e Schmitt, al loro concetto di umanità come imbroglio: «Wer Menschheit sagt, will betrügen», ‘chi dice umanità, sta cercando di ingannarti’. Il politicamente corretto è infatti una conferma del loro sospetto, essendo un dispositivo produttore di tabù, di ortodossia, di autoritarismo cognitivo.
Ho poi distinto nozioni e termini vicini ma diversi come l’etnocentrismo, la xenofobia, il pregiudizio, il razzismo.
Ho evidenziato soprattutto gli atteggiamenti sessuofobici e spiritualisti -e una generale avversione al materialismo- coltivati dalla sinistra immaginaria che si esprime nel politically correct, il quale è stato definito da Robert Hughes una «sort of linguistic Lourdes, where evil and misfortune are dispelled by a dip in the waters of euphemism», «una sorta di Lourdes linguistica, dove il male e la sventura svaniscono con un tuffo nelle acque dell’eufemismo», senza che la realtà, naturalmente, muti  in alcun modo.
Ho discusso un inquietante esempio di politicamente corretto, che chiede la censura di Shakespeare e l’abolizione della lettura e dello studio della Divina Commedia dalle scuole italiane.
Ho concluso difendendo invece la libertà di parola, lo splendore e la varietà del linguaggio, in tutte le sue forme e contenuti, anche quelli che una determinata società in una specifica epoca giudica ‘inaccettabili’. Le fonti di questa mia convinzione sono Spinoza, i libertini del Sei-Settecento e soprattutto un grande amore verso la libertà, la quale è messa in pericolo da ogni atteggiamento politically correct: «Tale libertà è soprattutto necessaria per promuovere le scienze e le arti, poiché queste sono coltivate con successo soltanto da coloro che hanno il giudizio libero e del tutto esente da imposizioni. Ma supponiamo che questa libertà possa essere repressa e che gli uomini siano tenuti a freno in modo tale che non osino proferire niente che non sia prescritto dalle sovrane potestà. Con questo, certamente, non avverrà mai che non pensino niente che non sia voluto da esse; e perciò seguirebbe necessariamente che gli uomini, continuamente, penserebbero una cosa e ne direbbero un’altra [atque adeo necessario sequeretur, ut homines quotidie aliud sentirent, aliud loquerentur] e che, di conseguenza, verrebbe meno la lealtà, in primo luogo necessaria allo Stato, e sarebbero favorite l’abominevole adulazione e la perfidia, quindi gli inganni e la corruzione di tutti i buoni principi»  (Spinoza, Trattato teologico-politico, cap. 20, §§ 10-11; in Tutte le opere, Bompiani 2011, trad. di A. Dini, p. 1117).
La registrazione dura 26 minuti.

 

Non è una guerra

Una deputata dell’estrema destra israeliana ha scritto che «tutti i palestinesi meritano di morire» (Fonte: Televideo, 20/07/2014, 00:05). E infatti stanno morendo, con la complicità dell’intero Occidente, dell’Italia che fabbrica armi per Israele, dello squallido Nobel per la pace Barack Obama.
Le generazioni future si vergogneranno di un’epoca “democratica” che ha permesso il genocidio giustificando in tutti i modi i carnefici. Si chiederanno come sia potuto accadere. Troveranno le risposte nel razzismo degli eletti da Dio, nel fanatismo, nella geopolitica, negli interessi finanziari, nella menzogna, nell’indifferenza.

 

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