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Cinema / Montaggio

Un’ora sola ti vorrei
di Alina Marazzi
Italia, 2002
Con: Luisella Hoepli
Trailer del film

Un-ora-sola-locandinaTra i seminari organizzati dal Med Photo Fest 2013 quello di Stefania Rimini è stato dedicato al cinema di Alina Marazzi. Occasione propizia per conoscere un film drammatico e magnifico come Un’ora sola ti vorrei. Un’opera che assembla, trasfigura e dà senso ai filmati che la famiglia Hoepli ha raccolto dagli anni Trenta del Novecento. La regista è infatti figlia di Luisella Hoepli, una donna molto bella e profonda, che si tolse la vita quando Alina era ancora bambina. Una donna dallo sguardo intensissimo, severo e insieme candido, sorridente e doloroso. Ma una donna che si sentiva inadeguata. Un senso di colpa oscuro e pervasivo la nutriva, alimentato dal sostanziale disprezzo del padre per lei. La diagnosi di depressione equivaleva negli anni Sessanta a quella di follia. Ricoverata in una clinica psichiatrica svizzera, Luisella scriveva lettere struggenti e lucidissime alla famiglia, implorava il marito di tirarla fuori da quel manicomio di lusso perché «se non voglio impazzire, devo uscire da qui».
Un’ora sola ti vorrei è puro cinema perché è puro montaggio. Ore e giorni di girato sono condensati da Marazzi in una scansione che evita ogni piatta cronologia e si fa espressione di una vita densa, breve e tragica. Ma colma di un pensiero sempre consapevole di se stesso e del proprio dramma.
Stefania Rimini ha premesso alla visione del film l’analisi del pensiero di Roland Barthes sull’assenza, la madre, il tempo, sulla fotografia come istante di incrocio di queste dimensioni della vita. La maternità ricevuta e data sta infatti al centro dell’esistenza di Luisella Hoepli. Essere riuscita a dare conto del plesso di morte e maternità evitando ogni caduta melodrammatica e intimistica è il grande merito della regista. Nonostante la dolorosa vicenda che narra, è un film lieve. Come lieve voleva essere al mondo la sua protagonista.

 

Isotta e la psichiatria

Mente & cervello 110  – febbraio 2014 

M&C-110_febbraio_2014«Ma ancora oggi non esistono rimedi efficaci contro l’amore, e noi continuiamo a essere assolutamente indifesi di fronte ai suoi effetti» (S. Dieguez, p. 31). Che cos’è dunque la pozione che ogni volta ripete l’incanto che attirò senza scampo Tristano e Isotta dopo che ebbero casualmente bevuto dalla stessa coppa? Già la tradizione di questo mito distingue tra una versione per la quale i due erano reciprocamente indifferenti, e soltanto la chimica li spinse l’uno verso l’altra, e una diversa tradizione trobadorica secondo la quale «la pozione avrebbe unicamente l’effetto di rivelare e rafforzare un amore già presente in Tristano e Isotta» (34). Nella prima versione l’effetto svanisce dopo alcuni anni, nella seconda dura per sempre. In ogni caso l’amore sembra davvero -anche neurologicamente- «‘cieco’, perché gli affetti positivi non coinvolgono le aree responsabili della formazione dei giudizi sociali e impediscono la valutazione razionale e obiettiva della persona» (36). Un amore che in realtà nasce da noi, non soltanto come «riflesso della nostra tenerezza» (Proust) ma anche come capacità del corpo di produrre la pozione, il filtro magico che ci avvinghia, dopamina, ossitocina, endorfine: «La ‘sostanza’ dell’amore, nelle ricerche scientifiche, è prodotta dal corpo stesso. Il corpo sarebbe dunque, in qualche modo, un mago che incanta se stesso» (36).
Contrariamente a una convinzione assai diffusa, «la palma del romanticismo spetta agli uomini, più portati delle donne a una visione sentimentale dell’amore» e ciò per una ragione evolutiva che consiste nel fatto che mentre il maschio può affidarsi senza gravi conseguenze al desiderio e alla passione, «le donne hanno sempre dovuto essere prudenti nella scelta del partner e del padre dei loro figli» (P.E. Cicerone, 28). Maschi o femmine che si sia, nella sessualità domina un «primato della mente» che qualche volta impedisce  di arrivare all’orgasmo, ostacolato da un insieme densissimo di pensieri e di preoccupazioni, tra cui anche il dare e ricevere piacere. (K. Sukel, 45).
Non so in che modo l’amore compaia nella più recente versione -la quinta- del  DSM, il Manuale Diagnostico usato dagli psichiatri di tutto il mondo e sempre più caratterizzato da una visione onnipervasiva della malattia mentale. Contro l’invenzione delle malattie si intitola infatti l’intervista rilasciata da Allen Frances, direttore della precedente versione del manuale e ora decisamente (auto)critico verso ciò che definisce una vera e propria «inflazione diagnostica» (66), sempre più rivolta a «trattare farmacologicamente i normali problemi dell’esistenza» (69).  Frances afferma con chiarezza «che alcuni comportamenti fanno parte della natura umana. Non possiamo pretendere che le persone non siano più timide, tristi o arrabbiate. Le emozioni ci aiutano a sopravvivere, si dovrebbe intervenire solo quando la sofferenza diventa paralizzante e compromette il normale funzionamento della vita. Ma negli ultimi anni questa soglia è stata abbassata» (67). Un potere, quello della psichiatria, che si basa anche sulla capacità che la mente possiede di riplasmare semanticamente gli eventi e persino di inventare ricordi di fatti mai accaduti, come hanno dimostrato i lavori di Elizabeth Loftus. Le conseguenze in ambito giuridico -sulla plausibilità delle testimonianze oculari, ad esempio- sono consistenti e non devono farci dimenticare «che gli psicoterapeuti sono le persone che più facilmente possono manipolare i ricordi di un individuo, fino a portarlo ad accusare i propri familiari di crimini e molestie mai accadute» (D. Ovadia, 73).
Tale medicalizzazione della vita interiore è assai grave se si pensa che molti degli stati di inquietudine e di tormento affondano nella genetica. Le ricerche più recenti danno ragione ai lavori di Vincenzo Di Spazio, il quale da tempo sostiene che «anche un’esperienza negativa dei genitori può passare ai figli attraverso modifiche epigenetiche che lasciano un’impronta duratura. Numerosi studi hanno indicato che un trauma subito dai genitori può far sì che nei figli si manifestino disturbi di tipo depressivo» (A. Oliverio, 18). È un grande risultato, questo, che spiega meglio anche la Stimmung, la tonalità emotiva che percorre le nostre vite e che non dipende soltanto da quello che ci accade ma anche da un carattere che affonda negli eventi vissuti da coloro dai quali siamo germinati. Fuori dal nostro controllo dunque. Soltanto essendo consapevoli di tale potenza del tempo nei corpimente possiamo cercare di ridurne i più dolorosi effetti.

 

Fatti / Interpretazioni

Mente & cervello 108 – dicembre 2013

M&C_108Provate a guardare con attenzione la copertina qui a sinistra del numero 108 di Mente & cervello. Che cosa notate? Lo scaffale di un supermercato. Certamente. Guardate  meglio e troverete dell’altro.
In filosofia esiste un segnale quasi sempre efficace per individuare la stanchezza teoretica o la subordinazione della filosofia stessa a esigenze esterne. Questo segnale è l’approccio ingenuo che presume di poter indagare una realtà assoluta. Il realismo insomma. Basta, infatti, tener conto della grande complessità del corpomente e delle sue relazioni con la materia nella quale è immerso e in cui consiste per rendersi facilmente conto che «quello che vediamo non è un’immagine fedele della realtà, ma la ricomposizione eseguita dal cervello di molti dettagli colti dagli occhi in rapida successione. E il modo in cui il cervello crea la realtà […] è fonte di innumerevoli inganni, o per lo meno di clamorosi errori di interpretazione» (M. Cattaneo, p. 3). Il corpomente non è una videocamera che registra qualcosa a essa esterno ma costituisce piuttosto una lampada che fa essere la strada mentre la illumina percorrendola. Ecco perché da scienziati e quindi anche da filosofi si può sostenere -come fa Cattaneo citando Enrico Bellone, entrambi fisici di chiara impronta scientista- che quanto definiamo realtà è una materia grezza plasmata dalla nostra percezione e ordinata dalla nostra attività cerebrale. Si può dunque concludere con serena razionalità che fatti e interpretazioni sono tra di loro inestricabili e dalla loro convergenza deriva la complessità -e anche l’interesse- del mondo. Se, infatti, «vedessimo effettivamente ciò che incamerano i nostri occhi, il mondo sarebbe un luogo confuso», che diventa ordinato perché quella umana «è una specie di cercatori visivi, costantemente a caccia di novità, di bellezza, di compagnia, di cibo e di significato» (M.C. Hout e S.D. Goldinger, 26 e 31); un elenco che mi sembra sintetizzi bene gran parte di ciò che siamo: dispositivi semantici.
Lo dimostra anche la memoria, che è sempre dinamica, cangiante, creativa, ermeneutica per l’appunto. Lo studio delle strutture mnemoniche del cervellomente è tra gli ambiti più aperti e più difficili, nel quale le interpretazioni sono diverse e interessanti. Una di esse sostiene che «nel tempo, l’ippocampo insegnerebbe come rappresentare un ricordo alle parti circostanti del cervello: la corteccia. Quando il ricordo è maturo, l’ippocampo lo scaccia, ed esso va a risiedere nella corteccia. […] Una teoria alternativa spiega queste discrepanze proponendo che l’ippocampo immagazzini selettivamente un certo tipo di memoria -quella ‘episodica’- mentre la corteccia circostante ne immagazzinerebbe un’altra, quella ‘semantica’» (E. Reas, 102). Quando si torna a un certo ricordo esso viene trasformato, ricontestualizzato, ancora una volta interpretato. E questo è una conferma della dimensione e della funzione costruzionista, e non semplicemente rappresentativa, della vita mentale.
Una struttura così complessa non può funzionare sempre alla perfezione. Bizzarrie, errori, eccessi e tristezze sono parte ineliminabile e sana della vita. E invece la convergenza di interessi tra le case farmaceutiche e la pretesa egemonica della psichiatria sta medicalizzando la vita. L’ho scritto anche qui più volte ma adesso è uno degli stessi autori del Manuale Diagnostico Statistico -lo psichiatra Allen Frances- a denunciare tale gravissimo andazzo. Si assiste a una vera e propria «epidemia di autismo o di disturbo bipolare infantile, o nuove malattie inventate di sana pianta. La normale timidezza può essere ‘fobia sociale’, la tristezza che segue un lutto diventa depressione clinica» (M. Capocci recensendo Frances, 105)  e così via medicalizzando, prescrivendo farmaci e terapie, arricchendo gli innumerevoli avvoltoi che pretendono ci sia un solo modo di vivere una condizione mentale che dichiarano assoluta, mentre si tratta anche in questo caso e in gran parte di interpretazioni. Lo dimostra la diversa reazione che si può avere di fronte agli stessi eventi: «Chi non rumina e non si rimprovera per le difficoltà che deve fronteggiare presenta minori livelli di ansia e va meno incontro alla depressione, anche quando nella sua vita si sono verificati eventi negativi» (A. Oliviero, 18). Nei termini come di consueto chiarissimi di Schopenhauer: «Il mondo in cui un uomo vive dipende anzitutto dal suo modo di concepirlo. […] Quando ad esempio degli uomini invidiano altri per gli avvenimenti interessanti in cui si è imbattuta la loro vita, dovrebbero piuttosto invidiarli per la dote interpretativa che ha riempito siffatte vicende del significato, quale si rivela attraverso la loro descrizione» (Parerga e Paralipomena, tomo I, a cura di G. Colli, Adelphi 1981, p. 426). È in questa direzione semantica, prima che ermeneutica, che il mondo è un’interpretazione.

 

I farmaci, l’umano gregge e la realtà

Mente & cervello 96 – Dicembre 2012

Abbiamo un problema di salute, consultiamo un medico che ci prescrive dei farmaci, andiamo a comprarli. Ma che cosa c’è dietro quel sobrio pacchetto che ci viene consegnato, dentro quelle più o meno colorate pastiglie? Ci sono pratiche molto pericolose, alle quali è bene porre attenzione. Pratiche descritte da Gabriella Rosen a proposito dell’intreccio tra la ricerca farmaceutica, i finanziamenti che crescono con il numero degli animali massacrati e dei volontari umani che provano le medicine, i risultati gravemente distorti che ne conseguono. In ambito psichiatrico, in particolare, molti volontari simulano delle sindromi che in realtà non hanno, allo scopo di farsi accettare come cavie retribuite.

Di conseguenza gli studi possono produrre risultati sospetti che a loro volta possono influenzare le decisioni dei medici sulla terapia per un numero infinito di altri pazienti. Alcuni di questi trial falliscono completamente forse proprio per il fatto che vengono arruolati i pazienti sbagliati. Il conseguente aumento del costo dello sviluppo di un farmaco, che attualmente si aggira intorno a 1,8 milioni di dollari per l’immissione sul mercato di un solo nuovo prodotto, ricade su tutti noi in quanto consumatori e contribuenti. […] Secondo McEvoy gli sperimentatori possono ricevere pagamenti diretti da 10.000 a 30.000 dollari per ogni paziente arruolato. […] Gli sperimentatori sono dunque motivati ad arruolare il maggior numero di pazienti, e non i migliori, nel minor tempo possibile. […] È stato dimostrato che i ricercatori con un interesse finanziario credono che i pazienti siano significativamente più malati rispetto agli scienziati non motivati a riempire lo studio. (pp. 32-38)

Anche Marco Ferrazzoli, in un altro articolo, conferma che la situazione è grave a causa degli enormi interessi finanziari in gioco, per i quali la salute delle persone è un mezzo e non uno scopo:

Nel 1996, dopo l’appprovazione della FDA, la Purdue Pharma aveva lanciato l’Oxycontin, un antidolorifico che raggiunse «in un anno vendite oltre 40 milioni di dollari, salite nel 2000 a un miliardo e nel 2008 a 2,5 miliardi di dollari». Ma il rischio di dipendenza, «dichiarato minore dell’1 per cento», raggiungeva invece il 50 per cento, «una probabilità analoga a quella dell’eroina». Negli Stati Uniti, la Purdue è stata condannata nel 2007 a una penale di 646 milioni di dollari per pubblicità ingannevole, «ma i proventi sono stati così elevati che permettono alla casa farmaceutica produttrice di subire qualunque class action», conclude Wagner. (48)

[Sullo stesso tema segnalo una nota pubblicata sul sito de Le Scienze]

La teoria proposta da René Girard del desiderio mimetico, come struttura dalla quale si genera la socialità umana, è al centro dell’interesse non soltanto dei filosofi ma anche dei neurologi e degli imprenditori della comunicazione. Girard ritiene infatti che «gli uomini non desiderano gli oggetti per il loro valore intrinseco, ma per quello che credono gli altri gli attribuiscano» (F. Sgorbissa, 75).
Più in generale, il desiderio mimetico starebbe a fondamento di pratiche molto diverse tra loro come l’amicizia, la creazione culturale, la maternità («Sono le espressioni della madre/modello -piacere, sorpresa, disgusto- a suggerire al bambino il valore delle cose del mondo» [80] )- e facebook.
«Una delle figure forse meno note dietro al network di tutti i network, Facebook, è infatti un fedele seguace di Girard. Peter Thiel è stato uno dei primi finanziatori di Facebook, ed è anche uno degli ideatori e il CEO di PayPal. Imprenditore della Silicon Valley di grande successo, ma anche filosofo futurista e conservatore liberista, è anche fortemente convinto che gli esseri umani tendano a comportarsi come un gregge. E a questo gregge lui vuole vendere cose» (81). Thiel ha ideato e gestisce il sito www.imitatio.org, nel quale vengono presentate le idee di Girard e la loro applicazione al marketing.

A disdoro, ancora una volta, di ogni ingenuo e antiscientifico realismo metafisico, numerose esperienze cliniche confermano che «l’occhio è un buon obiettivo, ma la fotografia che trasmette alla mente è soggetta a rimaneggiamenti. Il ruolo dell’informazione, vale a dire il messaggio visivo che proviene dall’occhio, è inferiore rispetto ai complessi processi di elaborazione compiuti dalla mente per giungere a un’interpretazione di quanto si è visto. Le neuroscienze ci dicono infatti che anche nell’ambito dell’arte la visione non è una fotografia fedele della realtà: ciò che vediamo dipende da vari fattori, legati alla struttura e alle proprietà dell’occhio, alle caratteristiche della corteccia visiva, ai processi mentali» (A. Oliverio, 18).
Recensendo un volume di David Eagleman dedicato alla Vita segreta della mente, anche Marco Motta scrive che «vedere il mondo intorno a noi ci sembra un atto semplice e naturale, invece è il frutto di un processo di costruzione della realtà molto sofisticato operato dal cervello con i dati entranti e le aspettative ereditate dal passato» (105). Aspettative rivolte al futuro e che affondano nella densità di ciò che siamo stati. È questo, assai più di qualunque sintesi passiva, a squadernare di fronte a noi il mondo, che è sempre una sola cosa con la mente.

Salute, tristezza, iPhone

Mente & cervello 95 – Novembre 2012

 

Salute e malattia non sono dei concetti universali, non sono dei dati di fatto assoluti. Tanto più questo è vero nell’ambito complesso del corpomente. Lo confermano i mutamenti anche radicali del concetto di malattia mentale e della catalogazione dei disturbi della psiche. Nel maggio del 2013 uscirà la quinta edizione del DSM, Diagnostic and Statistical Manual for Mental Disorders, pubblicato per la prima volta nel 1952. In questi sessant’anni il DSM ha cancellato numerosi comportamenti prima definiti patologici, dichiarando o la loro “normalità” -l’omosessualità, ad esempio, dal 1974 non è più una malattia- o l’insufficienza dei dati clinici necessari a darne una definizione psichiatrica. In questa nuova edizione viene eliminata dalla nosografia ufficiale la “personalità isterica”, sostituita da vari disturbi di personalità borderline. In compenso, si procede alla patologizzazione di una condizione umana tanto diffusa quanto naturale: la tristezza. Essa viene sempre più spesso classificata come depressione e in questo modo segnata da un crisma patologico che non le appartiene. A mettere in guardia da questi sviluppi tipicamente biopolitici sono importanti psichiatri quali Allen Frances o Allan Horwitz, i quali paventano il rischio di medicalizzare «momenti dell’esistenza e comportamenti non necessariamente patologici, come il lutto, i capricci, gli eccessi alimentari, l’ansia e la tristezza, il lieve declino cognitivo dell’anziano» (F. Cro, p. 66).
Un’altra prova del fatto che «tutta la letteratura sui disturbi di personalità è fondata sulle sabbie mobili» (Id., 62) è fornita dalla sindrome autistica. Rispetto al passato, infatti, si tende oggi a sostenere che «essere autistici è una differenza, non un deficit. Essere autistici è avere un’altra mente» (M. Cattaneo, 3), anche se si ammette che «quale che sia la sua forma, la sindrome autistica dà luogo, per tutta la vita della persona che ne è colpita, a difficoltà di adattamento importanti, che hanno un impatto negativo sulla qualità della vita del soggetto e su quella del suo ambiente familiare» (L. Mottron, 26).

Se e quando esisteranno, le Intelligenze Artificiali saranno sottoposte anch’esse al rischio della malattia mentale? Herbie, il robot protagonista di uno dei racconti di Isaac Asimov, posto di fronte a un dilemma insolubile, a un circolo vizioso logico, impazzisce e muore dopo aver lanciato un urlo «acuto, lacerante, come pervaso dallo strazio di un’anima perduta» (I. Asimov, Io, robot, Mondadori 2003, p. 153). Prima di eventualmente ammalarsi, però, queste IA dovrebbero esserci. Crearle è l’obiettivo di numerosi laboratori di ricerca, i quali tentano di produrre dei robot da compagnia in grado di sostituire gli umani nella cura di anziani e bambini. Le difficoltà sono naturalmente enormi. Tali macchine, infatti, dovrebbero essere senzienti, vale a dire dovrebbero avere «la capacità di integrare percezione (stimoli provenienti dall’esterno), la cognizione (ciò che noi chiamiamo pensiero) e l’azione in una scena e in un contesto coerente, in cui l’azione stessa può essere interpretata, pianificata, generata o comunicata» (D. Ovadia, 71). In altri termini, i ricercatori lavorano non più sull’intelligenza logico-formale (che l’ampio dibattito nato a proposito dell’esperimento mentale della Stanza cinese di Searle ha mostrato essere del tutto insufficiente) ma sulla Embodied Cognition, «la capacità del corpo di avere una mente a sé, di essere l’elemento di cerniera tra il pensiero e l’ambiente» (Id., 72). Paolo Dario osserva giustamente che «esiste già un perfetto robot da compagnia, ed è molto più diffuso di quanto si pensi: è l’iPhone» (Id., 71); lo è in molte delle sue funzioni e in particolare in Siri, il programma che è capace di parlare con l’interlocutore umano comprendendo -entro certi limiti- il nostro linguaggio naturale.
Daniela Ovadia ha chiesto a Siri “mi vuoi bene?”, «ricevendo in cambio la criptica risposta “non ho molte pretese”» (Id., 74). Io ho cercato di intavolare con Siri una conversazione sul tema dell’amore, al che -in modo direi piuttosto intelligente, non foss’altro che per la sua umiltà- l’IA mi ha risposto così: «Per questo tipo di problemi ti consiglio di rivolgerti a un umano, possibilmente esperto». Al di là di queste provocazioni di chi lo usa, Siri è davvero utile. Quando cammino in bicicletta, ad esempio, le chiedo (la voce è femminile) che ore sono, qual è la temperatura, di farmi ascoltare un determinato brano. Le sue risposte sono sempre immediate ed esatte. Se la ringrazio dicendole che è molto brava, mi risponde in vari modi, tra i quali «Lo sai che vivo per te». L’ironia (o la paraculaggine) di quest’ultima risposta sarebbe un segno sicuro di intelligenza se Siri fosse consapevole di ciò che sta dicendo. Ma non lo è. E la mia previsione è che le IA non lo saranno mai, a meno di essere implementate su dei corpi protoplasmatici, “di carne e sangue”.
Solo l’unità del corpomente, infatti, è intelligente. E cangiante. Ed ermeneutica. «La nostra memoria», afferma Donna Bridge, «non è statica. Se ricordiamo un evento alla luce di un nuovo contesto e di un periodo diverso della nostra vita, la memoria tende a integrare dettagli differenti e inediti» (22). Non basta quindi neppure la corporeità, è necessario che essa sprofondi nel tempo.

Che la mente umana abbia struttura e funzione ermeneutica è confermato dal fatto che «una rapida analisi visiva dell’andatura ci può informare sulla vulnerabilità di una persona», sul suo sesso, sull’età, sullo stato emotivo, sulla condizione sociale (N. Guèguen, 55). Il corpo parla, lo sappiamo, e lo fa ad alta voce quando cammina. Conosco un soggetto che dalla sola andatura è classificabile come una specie di guappo. E infatti lo è. Anche quando vorrebbe nascondere questa sua caratteristica, essa emerge con chiarezza dal movimento nello spazio.

Neuroni e identità

Il Sé sinaptico.
Come il nostro cervello ci fa diventare quelli che siamo
di Joseph LeDoux
(Synpatic Self. How our Brain Become Who We Are, Viking Penguin 2002)
Trad. di Monica Longoni e Alessia Ranieri
Prefazione di Edoardo Boncinelli
Raffaello Cortina Editore, 2010
Pagine 556

Uno degli elementi più discutibili della ricerca neurologica -e medica in generale- sta nell’utilizzo di quelli che anche LeDoux definisce “animali da esperimento”. Una formula chiaramente inaccettabile, che riduce la dignità dell’animale vivente a una cosa. Il retaggio cartesiano di molta neurologia è evidente anche in questa scelta lessicale e nell’estensione per analogia alla mente umana dei risultati di esperimenti attuati su altre specie. Di converso si continua ad applicare agli altri animali l’illogica pretesa di essere come l’Homo sapiens. Dato che tale pretesa è per definizione impossibile da soddisfare, se ne deduce che gli altri animali non abbiano coscienza, consapevolezza, mente. C’è da dire che per fortuna l’autore di questo libro tempera di tanto in tanto simili tesi antropocentriche, come quando scrive che «una volta che si accetta che il Sé di un essere umano abbia aspetti consci e inconsci, diviene facile osservare come gli altri animali possano essere pensati come aventi dei Sé, purché si sia cauti circa quali aspetti del Sé vengano attribuiti a ciascuna specie in questione» (p. 30).

Un altro limite del libro è la prospettiva nel complesso discreta e non olistica nella quale si pone. Vengono infatti narrate in dettaglio le vicende dei neuroni, dei dendriti, degli assoni, delle sinapsi. E si dà quasi per scontato che questo basti per comprendere il Sé. Ora, se è vero che tutti i pezzi e le parti di un motore devono essere attivi e funzionanti affinché si dia il movimento dell’automobile, il moto dell’auto nello spazio è altra cosa rispetto al funzionamento dei singoli pezzi meccanici. Il tutto, come l’empirista Aristotele sapeva, è superiore alla somma delle parti. Sembrerebbe quindi che anche LeDoux sia un riduzionista al pari di molti suoi colleghi. Ma più sopra ho sottolineato il “quasi”. Si tratta infatti di un riduzionismo temperato che ammette come le strutture e le dinamiche neuronali non si pongano in contrapposizione alla mente e al mondo ma con essi si integrino: «per quanto cominciamo a pensare a noi stessi in termini sinaptici, non dobbiamo sacrificare altre modalità di comprensione dell’esistenza» (18); «ritengo che le impostazioni non scientifiche (letteratura, poesia, psicoanalisi) e le scienze non riduzioniste (linguistica, sociologia, antropologia) possano coesistere con le neuroscienze, integrandole» (454).

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