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Il muro

200 metri
di Ameen Nayfeh
Palestina, Giordania, Qatar, Italia, Svezia, 2020
Con: Ali Suliman (Mustafa), Lana Zreik (Salwa), Anna Unterberger (Anne), Motaz Malhees (Kifah)
Trailer del film

Un muro di lastre di cemento e di reticolato lungo 730 chilometri separa da vent’anni Israele dalla Cisgiordania. Per entrare nello stato israeliano i palestinesi devono sottoporsi a controlli, permessi, continue vessazioni. Mustafa abita appunto in Cisgiordania. La moglie e i figli in Israele. Sono dirimpettai perché li separa una distanza fisica di soli 200 metri, tanto che possono accendere e spegnere le luci del terrazzo per salutarsi mentre parlano al cellulare. La distanza politica e simbolica è invece enorme. Quando il figlio di Mustafa subisce un incidente stradale e il padre non ha ancora un permesso valido, si rivolge a dei contrabbandieri di corpimente che in cambio di denaro percorrono centinaia di chilometri, caricano i ‘clandestini’ nel bagagliaio di automobili con targa israeliana e cercano di condurli dall’altra parte del muro. Molte cose però vanno storte e il viaggio si rivela uno stillicidio di tempo, di tensione, di dolore.
Come ci sono umani e umani, come ci sono guerre e guerre, così esistono muri e muri. Quello che divideva la città di Berlino era lungo 155 chilometri e venne condannato con virulenza dall’Occidente democratico; l’esistenza del muro israelo-palestinese è invece ritenuta dalle stesse potenze giusta e necessaria. Del primo si è festeggiata la caduta nel 1989, di quello palestinese non si vede la fine. Un muro che spezza le vite, che crea angoscia e disagio, che tiene prigioniere intere popolazioni in campi di detenzione a cielo aperto, che favorisce la corruzione e che accresce l’odio. Ma neppure il cemento è dappertutto uguale. C’è anche il cemento eticamente e politicamente buono.
Tra i film dedicati alla questione palestinese, 200 metri è forse il più bello e coinvolgente che abbia visto.

Palestina on Fire

Tel Aviv on Fire
(Il banale titolo italiano è Tutti pazzi a Tel Aviv)
di Sameh Zoabi
Lussemburgo, Francia, Belgio, Israele 2018
Con: Kais Nashif (Salam), Yaniv Biton (Assi), Lubna Azabal (Tala), Maisa Abd Elhadi (Mariam)
Trailer del film

Tel Aviv è in fiamme per la Guerra dei Sei Giorni che nel 1967 vide la sconfitta del popolo palestinese e dei suoi alleati, sancendo così la nakba del 1948; Tel Aviv è in fiamme per il muro che fa della Striscia di Gaza una prigione a cielo aperto che rinchiude milioni di persone; Tel Aviv on Fire è anche una soap-opera seguitissima da arabi ed ebrei. Salam dà un contributo minimo a questa serie televisiva, come ‘esperto di cultura ebraica’. In uno dei suoi quotidiani transiti al confine israelo-palestinese, per trarsi d’impaccio dice all’ufficiale israeliano, mentendo, di essere lo sceneggiatore della commedia. Assi, l’ufficiale, comincia a proporgli sviluppi, battute, una vera e propria sceneggiatura, anche allo scopo di compiacere la moglie, che non perde una puntata del programma. Salam è chiaramente nei guai, non essendo lui il vero autore della serie televisiva ma, nonostante la sua chiara imbranataggine, riesce a cavarsela con un’idea davvero imprevedibile.
Il film di Sameh Zoabi affronta con toni da commedia la tragedia palestinese ma non manca certo di far emergere l’arbitrio e la ferocia della potenza militare occupante. Lo sguardo di Salam, perduto sino ad apparire spento e tuttavia resistente, è una efficace metafora della debolezza e insieme della forza di un popolo che il mondo ha lasciato da solo a combattere per non essere cancellato dalla faccia della Terra.

Nazareth

Wajib. Invito al matrimonio
di Annemarie Jacir
Palestina, 2017
Con: Mohammad Bakri (Abu Shadi), Saleh Bakri (Shadi), Maria Zreik (Amal)
Trailer del film (anche in lingua originale)

On the road per Nazareth, padre e figlio. Devono consegnare gli inviti (centinaia) al matrimonio della figlia e sorella. Dentro una città caotica, antica, deturpata e litigiosa. Abu Shadi e Shadi sono palestinesi cristiani, che entrano ed escono da case piene di ammennicoli, santini, liquori. Il padre è un apprezzato insegnante che cerca di sopravvivere in una comunità di oppressi, ligio alle tradizioni anche se ne comprende tutti i limiti. Il figlio si è trasferito in Italia, fa l’architetto, è amareggiato dal disordine e dalla sporcizia della città. Ama la figlia di un dirigente dell’OLP e non ha mai accettato l’occupazione israeliana della Palestina. La madre è lontana, negli USA. Due umani, due mondi, due modi diversi di vivere la servitù allo straniero. Gli israeliani ebrei compaiono soltanto in una breve scena dentro un ristorante ma la loro presenza è pervasiva e rende teso ogni dialogo tra padre e figlio.
Annemarie Jacir riesce a descrivere in modo diverso ogni ripetuta visita dei due personaggi agli invitati; fa del loro muoversi una autentica narrazione e non soltanto un documento; entra nelle case, nelle abitudini, nell’antropologia arabo-cristiana di Palestina; mostra con prudente lievità e dunque con più struggente esito l’oppressione esercitata da Israele. I due protagonisti restituiscono di questo mondo ogni ruga, ogni sorriso, la malinconia, la forza.

In between

In between
(Titolo italiano:  Libere disobbedienti innamorate)
di Maysaloun Hamoud
Israele-Francia, 2016
Con: Mouna Haha (Leila), Shaden Kanboura (Noor), Sana Jammelieh (Salma)
Trailer del film

Tre donne palestinesi vivono a Tel Aviv. Leila è un avvocato che cerca di godersi la vita in un modo che il suo ragazzo non apprezza. Salma ama la musica, serve nei bar ed è costretta a nascondere alla famiglia cristiana la propria omosessualità. Noor viene da un ambiente islamico ortodosso e ha un fidanzato tanto pio quanto aggressivo. In modi differenti, le tre ragazze subiscono la costrizione e la violenza di un mondo bigotto, che esso sia laico, cristiano o musulmano. Il film si chiude con un fermo immagine sui loro volti pensosi, malinconici, delusi e in fondo sorpresi.
Il pessimo titolo italiano non restituisce la densità di quello inglese –Nel mezzo– né di quello originale Bar Bahar, che in arabo vuol dire tra terra e mare e in ebraico né qui né altrove. Le esistenze di Leila, Salma e Noor sono infatti sospese tra stili di vita incompatibili e rimangono prese nel mezzo tra aspirazioni all’emancipazione, ipocrisie maschiliste, rivolte che toccano la superficie ma non arrivano all’affrancamento.
Maysaloun Hamoud racconta queste storie in modo fresco e lieve ma a volte il film sembra fermarsi e ripetersi, come se la vita non fosse all’altezza dell’immaginazione. Dagli scarsissimi contatti delle tre donne con ambienti ebraici si comprende come la vita in Israele sia fatta di enclave, di ghetti esistenziali e religiosi che tutti i personaggi accettano come fossero naturali e immutabili. Mi è sembrato questo l’elemento inquietante, più del consueto racconto patriarcale

Cuori pesanti

The Idol
di Hany Abu-Assad
Palestina, Qatar, Gran Bretagna, 2015
Con: Tawfeek Barhom (Muhammad Assaf), Hiba Attallah (Nour bambina), Nadine Labaki
Trailer del film

A Gaza non è facile vivere e sopravvivere. Tanto più sembra impossibile aspirare a vincere il più importante concorso televisivo musicale che si tiene in Egitto:  Arab Idol. Ma Muhammad Assaf e sua sorella Nour sono abituati a correre, correre, correre, per sfuggire ai soldati e per raggiungere i loro sogni. Quando una malattia ferma la vitale e simpaticissima Nour, il fratello fa di tutto per regalare a lei e a se stesso il sogno. E ci riesce superando in modo rischioso e rocambolesco gli ostacoli più diversi: il muro eretto da Israele, la scarsità di risorse tecniche, l’intransigenza islamista, la rassegnazione. La sua bella voce gli apre le porte, la fortuna, la libertà.
Il film racconta una vicenda realmente accaduta, quella di un ragazzo diventato icona spettacolare del possibile riscatto di un popolo -i palestinesi- umiliato e offeso. Più fresco nella prima parte, quando Muhammad e Nour sono ragazzini, e più drammatico nella seconda, The Idol è certo un po’ televisivo e melodrammatico ma ha il merito di farci conoscere meglio la tragedia e la tenacia di un popolo che rischia il genocidio e i cui giovani anarchici hanno scritto un Manifesto dove si possono leggere parole come queste: «Siamo giovani dai cuori pesanti. Ci portiamo dentro una pesantezza così immensa che rende difficile anche solo godersi un tramonto. Come possiamo godere di un tramonto quando le nuvole dipingono l’orizzonte di nero e orribili ricordi del passato riaffiorano alla mente ogni volta che chiudiamo gli occhi? Sorridiamo per nascondere il dolore. Ridiamo per dimenticare la guerra. Teniamo alta la speranza per evitare di suicidarci qui e adesso. Durante la guerra abbiamo avuto la netta sensazione che Israele voglia cancellarci dalla faccia della Terra» (Libertaria 2016, Mimesis, Milano 2016, p. 106).

Vrai / Faux

Io sto con la sposa
di Antonio Agugliaro, Gabriele Del Grande, Khaled Soliman Al Nassiry
Italia-Palestina, 2014
Trailer del film

Io_sto_con_la_sposaIo sto con la sposa è un documentario che narra la vicenda di cinque profughi siriani arrivati in Italia -rischiando ovviamente la vita in mare- e da qui aiutati a raggiungere la Svezia, Paese a quanto sembra più generoso nel concedere asilo politico. Ad aiutarli ci sono degli italiani, compreso un palestinese che da poco ha ottenuto la nostra cittadinanza. Per attraversare l’Europa da Milano a Malmö -passando per Marsiglia, Lussemburgo, Bochum, Copenaghen- la comitiva finge un matrimonio. Ospitati da vari amici, tutti arrivano a destinazione. Lungo il tragitto i migranti narrano le loro vite, la tragedia, i progetti.
Un film come questo -al di là del suo specifico argomento- dice molto sui meccanismi della comunicazione contemporanea. Anzitutto la questione della sposa; in realtà la vicenda avrebbe potuto farne a meno e non sarebbe cambiato nulla. Non vediamo infatti mai la carovana del ‘matrimonio’ giustificare il proprio viaggio davanti a qualche polizia con la motivazione della sposa. Si è dunque trattato di un’idea funzionale non allo scopo del viaggio ma alla realizzazione del film.
Poi: tutte le frontiere vengono attraversate senza controlli poiché il Trattato di Schengen non li prevede. E però nel passaggio dall’Italia alla Francia invece di utilizzare l’automobile -come accade sempre nelle successive tappe-, si vedono la sposa -con il suo abito bianco- lo sposo e tutti gli altri inerpicarsi lungo i sentieri dei vecchi contrabbandieri, molto scomodi naturalmente. Anche questa sembra una scelta funzionale al film e non all’obiettivo di raggiungere la Svezia.
Infine: il film si concentra -legittimamente- sulle vicende personali dei profughi e delle loro famiglie rimaste in Siria. Non si entra quasi mai nelle questioni politiche che hanno generato quella guerra. E tuttavia parlare degli effetti misconoscendone le cause lascia l’impressione che in Siria ci sia una guerra condotta da dei resistenti contro un dittatore. Gli amici della sposa che combattono in Siria vengono infatti da lei definiti con l’espressione Esercito libero. Si tace completamente sul fatto che la tragedia siriana è analoga a quella irachena, libica e ucraina. Paesi la cui società multietnica e multireligiosa è stata distrutta dall’intervento della Nato e degli USA per ragioni geostrategiche ed economiche. Il risultato è stato guerra civile, massacri, ferocia, distruzione. Ed è stato la nascita dell’ISIS, del ‘califfato’ islamista ultrafanatico e armato da quegli stessi Paesi -Stati Uniti e loro alleati- in funzione antisiriana. Assad è certamente un dittatore, come lo erano Saddam Hussein e Gheddafi. Ma dittature sono anche quelle dei Paesi arabi alleati degli USA, a cominciare  dall’Arabia Saudita, una monarchia feudale-petrolifera dove non esistono libertà politiche e civili; dove non vi è alcun diritto per le donne, per gli omosessuali, per i dissidenti, per i credenti di religioni diverse da quella musulmana; dove è prevista la pena di morte per apostasia dall’Islam. Ma sono buoni amici degli americani.
Lodevole nella testimonianza personale, un po’ ripetitivo nei risultati, Io sto con la sposa è dunque soprattutto un’operazione di mascheramento, che narrando la tragedia di alcune persone sostiene coloro che a quella tragedia hanno dato inizio. In questo film la realtà si fa finzione e la finzione diventa realtà: «Dans le monde réellement renversé, le vrai est un moment du faux» (Debord, La Société du Spectacle, Gallimard 1992, § 9).

Scrivere

Mente & cervello 117 – settembre 2014

M&C_117_settembre_2014Le mente è una parte della materia consapevole di esistere. Mi ha fatto piacere trovarne ulteriore conferma negli studi di Mark Tegmark, fisico del MIT, il quale sostiene l’ipotesi che, per l’appunto, «la coscienza sia un diverso stato della materia, da collocare assieme a quelli solido, liquido, gassoso e plasmatici, che si meriterebbe il nome di perceptronium» (S. Gozzano, p. 9).
Il corpomente è sempre attivo, in qualunque momento situazione e condizione. Per questo siamo vivi. E per questo «stare da soli in una stanza vuota a pensare, anche solo per un breve periodo di 5-15 minuti, è un compito che la nostra mente trova quasi insostenibile», proprio per «la costante necessità della nostra specie  di ‘fare qualcosa’ anziché rimanere in silenzio e lasciar lavorare la mente in solitudine» (A. Romano, 20). L’Homo faber è un corpomente che impara di continuo, capace di apprendere sia per le componenti genetiche di ciascuno sia per quelle dell’ambiente nel quale ognuno si trova a vivere. Rispetto a tempi recenti, volti ad assolutizzare il condizionamento delle strutture sociali nell’apprendimento, «gli effetti della componente ambientale nello sviluppo delle capacità intellettive dei primati, sebbene non siano trascurabili, vengono quindi ridimensionati» (Id., 23).
Il corpomente apprende in una miriade di maniere. Tra di esse il modo principe è lo scrivere. Senza il linguaggio -nella

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