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Geometria / Rivolta

FLATLANDIA
Racconto fantastico a più dimensioni
di Edwin A. Abbott 
(Flatland. A Romance of Many Dimensions, 1882)
Traduzione e prefazione di Masolino D’Amico
In appendice un saggio di Giorgio Manganelli
Adelphi, Milano 1999 (1966)
Pagine XX – 166

 

FlatlandiaUn Quadrato parla. E racconta la propria vita nel Paese della Superficie, dove le dimensioni della materia sono soltanto due –lunghezza e larghezza- e non si ha idea alcuna dell’altezza. Narra usi e costumi di questa terra piatta, di questa società assolutamente gerarchica nella quale i criteri del valore sono il numero dei lati e degli angoli. Dalle donne che sono Linee -e dunque poste al livello più basso dell’essere e del capire, tenute nell’ignoranza, inaffidabili e vessate ma sempre pericolosissime con la loro micidiale punta acuminata- ai Triangoli isosceli stupidi e violenti con i loro angoli acuti; dagli Equilateri operai ai Quadrati professionisti; dai Pentagoni ed Esagoni -sempre più raffinati e colti- fino alle somme Circonferenze, che sono –in realtà e naturalmente- dei Poligoni con un numero altissimo di lati estremamente piccoli.
Questa società dura, armoniosa e implacabile come può esserlo solo la Geometria, vive della morte continua di ogni Figura che con i suoi angoli mal gestiti possa costituire un pericolo per gli altri; viene scossa da periodiche rivolte capeggiate da Forme irregolari; è governata da una casta sacerdotale potentissima e pervasiva: «Da noi i Preti sono gli Amministratori di ogni Affare, Arte e Scienza […] senza far nulla direttamente, essi sono la Causa di ogni cosa che valga la pena di fare e che viene fatta da altri» (pag. 81). La dottrina che pervade questo spazio è una Razionalità geometrica consapevole della Necessità di ogni ente ed evento poiché non l’educazione o l’esperienza ma è «la Configurazione che fa l’uomo» e dunque «a un giudizio sereno, buona e cattiva condotta non sono ragioni sufficienti né di lode, né di biasimo» (84).
Al Narratore accade di ricevere la sconvolgente rivelazione -da parte di una Sfera- dell’esistenza della Terza dimensione e dunque dello Spazio. Poco prima il Quadrato aveva sognato un Paese della Linea ai cui abitanti lui stesso tentava inutilmente di dimostrare la parzialità della loro struttura. Ora riceve dalla Sfera un’analoga lezione. Rifiuta però questa saggezza e allora viene letteralmente “rapito” nel Paese dei solidi e lì finalmente vede ciò che fino ad allora aveva soltanto dedotto. Si scioglie così alla sua mente l’enigma che non comprendeva quando la Sfera gli parlava. Incapace dello sforzo di volontà che gli garantirebbe, a detta della Sfera, di lasciare il suo piatto mondo, una violenza pedagogica lo trasporta «verso l’Alto, ma non verso il Nord» (139), secondo la formula con la quale cercherà –tornato nella Pianura- di ricordare la ricchezza senza fine della prospettiva spaziale.
Infatti questo Quadrato regolare, pedante e insieme avventuroso -questo «povero Prometeo della Flatlandia» (150) come da sé si definisce- comincia a chiedere al suo maestro e salvatore di insegnargli anche la Quarta, la Quinta e le altre dimensioni. Ma questo dio circolare mostra anch’egli la povertà delle proprie vedute quando respinge tali aspirazioni come follie e sogni, non avendo dunque appreso la verità essenziale: che ogni ente vive nel proprio ambiente commettendo l’errore di pensarlo come l’unico, quando invece lo Spazio è davvero senza fine. Anche la Sfera somiglia insomma a quella creatura infima e adimensionale che vive in Pointlandia e che di se stessa si compiace come dell’unico e totale universo, chiamandosi It, Esso: «Infinita beatitudine dell’esistenza! Esso è: non c’è altro al di fuori di Esso» (141). Altrettanto convinta che oltre le tre del proprio mondo altre dimensioni non si diano, la Sfera scaglia il Quadrato là da dove lo trasse. Nella insensata speranza di convertire i suoi simili alla sapienza dello Spazio, il Narratore viene imprigionato ed è da un carcere quindi che egli racconta.
Così si chiude «questo universo di visioni tragiche e gnostiche» permeato di «una gelida grazia astratta» come con esattezza lo definisce Giorgio Manganelli (165 e 155). Un libro intriso di ironia e di rigore, di invenzioni fantastiche e di dimostrazioni matematiche, di intenti satirici (verso la società vittoriana e non solo) e di serietà mitologica. Un’autentica visione della mente. Un invito a cogliere la plausibilità dell’ipotesi che -oltre alla materia e al movimento- la struttura delle cose sia fatta di un’ulteriore dimensione che è il Tempo.
Il libro di Abbott ha una Wirkungsgeschichte ampia, imprevedibile e carsica. La sua eco riaffiora, ad esempio, anche nelle scenografie di Dogville (2003), il film per il quale Lars von Trier sceglie una scenografia bidimensionale fatta di semplici linee che consente di vedere dall’alto la città, esattamente come il Quadrato vedeva la sua Terra una volta uscito da essa.
Un libro sovversivo, alla fine, con la sua tenace ambizione di suscitare «con qualsiasi mezzo nell’intimo dell’umanità sia Piana che Solida uno spirito di rivolta contro la presunzione che vorrebbe limitare le nostre Dimensioni a Due, a Tre o a qualsiasi numero che non sia Infinito» (132).

 

Dentro il Castello

Luca Beltrami. Storia, arte e architettura a Milano
Castello Sforzesco – Milano
Sino al 29 giugno 2014

mostrabeltrami3Il Castello Sforzesco è un’icona di Milano. In ottime condizioni, con grandi cortili dove si svolgono numerose manifestazioni, con sale e sotterranei che ospitano mostre temporanee e dove soprattutto hanno sede le raccolte d’arte e archeologia tra le più preziose della capitale lombarda. Eppure alla fine dell’Ottocento mancò poco che venisse raso al suolo. Era stato, infatti, luogo di prigionia e di sofferenza per quanti si opponevano al dominio straniero sulla città. Era stato anche luogo di residenza per gli eserciti nemici. Dopo l’Unità la convergenza di questa pessima fama e delle mire speculative spingeva molti a volerne la distruzione. Per fortuna ci furono artisti, intellettuali e politici (sì, allora persino politici) che seppero guardare più lontano e che ne chiesero invece la salvezza e il restauro.
Il principale protagonista della salvaguardia e ricostruzione del Castello, e di molti altri luoghi della Milano borghese di fine Ottocento e inizi Novecento, fu Luca Beltrami (1854-1933). Architetto, incisore, storico dell’arte, Beltrami ha lasciato sulla sua città un segno che tuttora è quello dominante. Piazza della Scala, il Palazzo della Permanente, la Sinagoga, la sede del Corriere della Sera, costituiscono le sue principali realizzazioni. Aveva anche pensato a una diversa facciata del Duomo ma questo progetto non venne realizzato.
E poi il Castello, appunto. Qui Beltrami esprime al meglio il suo profondo rispetto per la stratificazione storica, la sua puntuale preparazione documentaria, l’equilibrio tra quanto fu da cancellare, ciò che andava preservato/trasformato e le parti nuove. Di aspetto quattrocentesco, la sagoma e il corpo del Castello familiarissimo ai milanesi sono in realtà ottocenteschi e si devono a questo architetto.
Castello_Sforzesco_MilanoÈ dunque un giusto omaggio quello che il Castello ora gli dedica. Si possono così consultare i progetti, vedere le immagini che testimoniano del prima e del poi dell’edificio, seguire l’avanzare dei lavori, godere del risultato non semplicemente guardando e leggendo ma standoci proprio dentro. L’ultima parte della mostra ha sede nella Sala del Tesoro prospiciente la Rocchetta -un austero e bellissimo cortile- e contiene le opere rinascimentali salvate e valorizzate da Beltrami.
Questa città che non si ferma mai, che trasforma continuamente se stessa e il proprio paesaggio urbano, ha trovato in Beltrami un architetto non soltanto competente e corretto ma anche davvero innamorato di Milano.

 

Les Fleurs

I fiori del male
(Les Fleurs du mal)
(1857-1868)
di Charles Baudelaire
Garzanti, 1978
Pagine XXIII-349

«Mais mon coeur, que j’amais ne visite l’extase» (L’irreparabile), eppure è tutta un’estasi questo canto notturno, ironico e fremente, che sembra precipitarsi verso il Nulla. Satana lodato e benedetto, padre delle tenebre e protettore dei disperati, è una maschera rovesciata del Dio che mai è stato; l’amore si trasforma in spettro; l’oppio e il vino diventano gli strumenti del nirvana. E il Tempo, il Tempo che precipita, annienta e purifica, è odiato dal poeta come l’immagine di un «dieu sinistre, effrayant, impassible» (L’orologio). «Amour…gloire…bonheur!» sono delle chimere e nonostante la magnificenza di alcuni paesaggi -«La gloire du soleil sur la mer violette, / La gloire des cités dans le soleil couchant»- la vera «chose capital» è «le spectacle ennuyeux de l’immortal péché». Il Baudelaire che loda San Pietro per aver rinnegato Gesù ha nel fondo il sentimento più desolato e irreparabile del peccato che involve l’umano sin dal suo apparire. E dunque disgusto, putrefazione, violenza, assassinio, illusioni, voluttà, maledizioni, demenza, oppio, «Tel est du glob entier l’éternél bullettin» (Il viaggio).
C’è tuttavia in questo libro l’affermazione decisa di un sì, l’affermazione della potenza dell’arte come unico «Inconnu» nel quale si possa «trouver du nouveau!» (Il viaggio). Così se «Lorsque, par un décret des puissances suprême, / Le Poëte apparaît en ce monde ennuyé» (Benedizione) l’universo intero sembra rifiutare questa creatura strana e insensata, tuttavia nel procedere dei tempi la poesia appare compagna e amica della vita, la bellezza splende come «unique reine» della mente e di quei pochi uomini che sanno ancora ascoltare la Terra sacra e maledetta (Inno alla bellezza).

Myškin

L’idiota
(1869)
di Fëdor Dostoevskij
Trad. di Alfredo Polledro
Con un saggio introduttivo di Vittorio Strada
Einaudi 1981
Pagine XXXII-609

Una raffinata barbarie, una giovane decadenza, un segno e un’eco di antiche civiltà, una speranza. Nel principe Myškin e nei grandi e piccoli personaggi che lo circondano vive la Russia santa e tellurica. La presenza del Cristo si staglia come impossibile incarnazione dell’Ideale, nella consapevolezza che «la parola “cristianesimo” è un equivoco-, in fondo è esistito un solo cristiano e questi morì sulla croce. Il “Vangelo” morì sulla croce» (F. Nietzsche, L’anticristo, trad. di F. Masini, in «Opere», vol. VI, tomo 3, Adelphi 1975, § 39, p. 214). L’immagine che forse meglio descrive il Cristo è quella di un “idiota”, un essere felice e ignaro ma anche turbato e malato, dal grande cuore e di una altrettanto grande ingenuità.
Questo idiota diventa il catalizzatore dei sentimenti di chi lo incontra. Alla sua luce si fanno chiari l’odio, l’abiezione, la stravaganza, la generosità, l’orgoglio, la vigliaccheria, la rivolta, la stupidità, l’amore degli umani.
Questo principe ingenuo e bambino viene amato con passione dalla due più contorte e potenti figure femminili del romanzo. «Sai tu che una donna è capace di tormentare un uomo con le sue crudeltà e le sue derisioni senza provare il più piccolo rimorso, perché ogni volta che lo guarda pensa tra sé: “Ecco, ora lo torturo a morte, ma in cambio, poi, lo ricompenserò col mio amore…”?» (pag. 361); «La odierai per tutto l’amore che le porti oggi, per tutte queste torture che ora provi» (212).
E però Myškin non può amare come un uomo, il suo è un sentimento che proviene da un’altra regione dell’essere, da un altro universo di significati e di azioni. La sua vita è una vicenda sentimentale e barbarica, desiderante e dolorosa, sanguinosa e vitale, religiosa e nichilistica. Una vicenda profondamente orientale. L’Occidente è troppo consapevole o forse semplicemente vive in modo diverso la sua volontà di pienezza e di nulla.
Ma L’idiota non è soltanto la testimonianza di una civiltà nichilistica. Al di là del suo svolgersi, del suo esito e della miriade di eventi che racconta, questo libro contiene una matura fierezza: l’orgoglio di un’intelligenza che sa indagare nei meandri dell’umano, che sa trasformare la morte e il sacrificio nella luce della letteratura e della poesia. «Ma l’anima altrui è tenebra, e anche l’anima russa è tenebra, per molti è tenebra» (227).

Burckhardt, la storia

Sullo studio della storia
(Uber geschichtliche Studium [Weltgeschichtliche Betrachtungen, 1868-1873])
di Jacob Burckhardt
Trad. di Mazzino Montinari
Boringhieri, 1958
Pagine 310

In queste sue lezioni pubblicate postume nel 1905 -anche con delle manipolazioni1– Burckhardt rifiuta le concezioni storicistiche che interpretano il divenire storico come lo sviluppo progressivo di un’idea, di un valore, di una qualsiasi Provvidenza. Cerca, piuttosto, di vedere la storia nella sua più concreta e non garantita empiria, a partire comunque da tre grandi concetti: stato, religione, cultura.
Lo stato e la religione sono per Burckhardt elementi statici, di controllo, alla fine sempre oppressivi. La cultura, invece, è la dimensione dinamica, libera, viva e costantemente nuova. Essa è «la quintessenza di tutto ciò che si è formato spontaneamente per promuovere la vita materiale e come espressione della vita spirituale e morale» (pp. 42-43). In quanto tale, essa costituisce la critica delle altre due strutture, «l’orologio che rivela l’ora in cui la forma e il contenuto in esse non coincidono più» (74).
Attraverso ampie pennellate ed efficaci excursus, Burckhardt enuncia una serie di tesi che saranno condivise e rielaborate da Nietzsche, il quale in uno dei biglietti del 4 gennaio 1889 definì il collega basileese «il nostro grande, più grande maestro»2. Tra queste tesi: il pluralismo metodologico; la Grecia come il luogo dove cultura e arte hanno avuto i migliori esiti, senza che però questo implichi la romantica e «fantastica predilezione per una antica e idealizzata Atene» (151); il cristianesimo come tipica religione dei passivi e dei dogmatici, che non è stata nemmeno capace di migliorare la condotta morale dei suoi adepti; il riconoscimento del conflitto come elemento dinamico della storia; la critica alle società massificate, i cui membri si adeguano sempre a chi meglio garantisce loro «tranquillità e guadagni» (239). Alle masse Burckhardt contrappone le «individualità possenti [che] si impongono e indicano le direzioni» (80-81).
Oscillando tra pragmatismo e metafisica, disincanto e progetto, Burckhardt si pone alla confluenza di numerosi itinerari della cultura e del pensiero moderno. Lo studioso riservato, il silenzioso maestro, insegna a Nietzsche «che in generale non si valuti la vita terrena più di quel che merita» (193). Era la stessa convinzione di Platone: «Certo è vero che le vicende umane non meritano poi una grande considerazione, ma è anche vero che bisogna pur occuparsene, per quanto possa essere un compito ingrato»3. Questo compito è la storia.

Note

1. Nel 1998 Einaudi ha pubblicato una nuova edizione, presentandola con queste parole: «Le lezioni che Burckhardt tenne all’Università di Basilea tra il 1868 e il 1873, uno dei momenti salienti della moderna riflessione storiografica. Condotta sui manoscritti originali, la nuova edizione a cura di Maurizio Ghelardi restituisce gli appunti dello storico svizzero alla loro vera natura, facendo giustizia delle deformazioni nate dalle precedenti manipolazioni e riproducendo le frequenti osservazioni critiche che Burckhardt annotava in margine ai fogli».

2. F. Nietzsche,  Briefe. Januar 1887 – Januar 1889, in «Nietzsche Briefwechsel. Kritische Gesamtausgabe», herausgegeben von Giorgio Colli und Mazzino Montinari, vol. III/5, de Gruyter, Berlin-New York 1984, lettera 1245, p. 574. Nel recente quinto e ultimo volume della traduzione italiana dell’Epistolario (Adelphi, 2011) la lettera si trova a p. 889.

3. Platone, Leggi, 803 a, trad. di R. Radice.

Giovanni Passannante

Sergio Colabona
Passannante
Con: Fabio Troiano (Passannante), Ulderico Pesce (Pesce), Andrea Satta (Satta), Alberto Gimignani (Marchitelli), Bebo Storti (il ministro), Maria Letizia Gorga (madre di Passannante)
Italia, 2011
Trailer del film

È una storia istruttiva. Giovanni Passannante era nato a Salvia di Lucania nel 1849. Poverissimo ma desideroso di apprendere, riuscì a imparare a leggere e a scrivere ed entrò in contatto con i mazziniani e con gli anarchici. Nel 1878 barattò la sua giacca con un coltellino per compiere un attentato dimostrativo contro Umberto I, in visita a Napoli. Conoscendo lo Statuto albertino, Passannante sperava di essere giudicato dal Senato in quanto responsabile di un tentato regicidio. Ma il governo e le polizie lo definirono pazzo, consegnandolo a un tribunale ordinario che lo condannò a morte. Umberto I commutò la pena in ergastolo. E fu questa la vendetta del re. Passannante venne infatti sepolto vivo in una cella bassa, buia, umidissima perché posta sotto il livello del mare, davanti all’isola d’Elba. Legato a una pesante catena lunga pochi centimetri, venne lasciato per decenni imputridire nei propri escrementi. Soltanto un’eccezionale complessione fisica lo fece -per sua disgrazia- sopravvivere. Quando un deputato lo visitò, rimase così sconvolto da attivarsi per chiederne il trasferimento. E Giovanni morì nel 1910, cieco e folle, in un manicomio criminale.
Ma non bastava, no, non bastava tutto questo. Sua madre, i fratelli e le sorelle furono anch’essi reclusi -senza aver mai commesso nulla- in un manicomio. E dopo la morte la testa di Passannante venne mozzata e il cranio e il cervello vennero dati a Lombroso. Poi rimasero per anni nel Museo criminale di Roma, sotto la dicitura di “criminale abituale”.
Ulderico Pesce è un attore che va raccontando da anni questa storia e che insieme a un cantante -Andrea Satta- e a un giornalista -Marchitelli- ha perorato davanti a ben quattro ministri di Grazia e Giustizia ciò che Antigone impose a se stessa anche a costo della morte: dare sepoltura al fratello. Incredibile è che soltanto nel 2007 i pochi resti -il corpo venne disperso- di Passannante vennero infine portati dal Museo romano al suo paese d’origine e lì tumulati. Ma, ancora una volta, senza cerimonie né ricordi. E tutto ciò mentre ai Savoia è stato permesso di tornare in Italia.

Il film racconta questa vicenda alternando la ricostruzione storica con le scene -grottesche- della perorazione verso i ministri e con parti dello spettacolo di Pesce. Un film che andava realizzato per sottrarre alla damnatio memoriae un uomo che non fece mai del male a nessuno se non a se stesso e che la ferocia dell’«Italia Unita» ha offeso da vivo e da morto.
Ma non è ancora finita. Non soddisfatti del male inflitto alla sua famiglia, i regnanti d’Italia imposero che il paese natale si dovesse chiamare Savoia di Lucania, nome che tuttora possiede. Chi impone i nomi impone se stesso. Ed è anche per questo che al paesino della Basilicata andrebbe restituito il vero nome, non insozzato da quello di un’infima dinastia di rozzi provinciali che soltanto delle circostanze estremamente fortunate portarono alla conquista dell’intera penisola. I Savoia sono sempre stati, e continuano a essere, un clan meschino e vigliacco. Dall’infoiato Vittorio Emanuele II al firmatario delle leggi razziali Vittorio Emanuele III, per tacere dei successori. Bene fece Gaetano Bresci a giustiziare Umberto I non soltanto per i fatti di Milano del 1898 ma anche per la strazio e la vendetta attuate contro Passannante. I nomi, le parole, sono la vita stessa degli umani. E che piazze e strade d’Italia siano dedicate ai Savoia assassini invece che alle loro vittime -dai cinque fucilati di Bronte del 1860 a Dirk Geerd Hamer nel 1978– è una vergogna nazionale.
Una storia istruttiva della miseria del potere.

Lo sguardo umano

Abdel Kechiche
Venere nera
(Venus noire)
Con: Yahima Torrès (Saartjie), Andre Jacobs (Caezar), Olivier Gourmet (Réaux)
Francia-Italia-Belgio, 2011
Trailer del film

Nel 1810 a Londra una donna del Sudafrica viene esposta come fenomeno da baraccone. Il suo guardiano domatore la mostra al pubblico in una gabbia da cui la tira fuori come fosse una selvaggia, suscitando un’esitazione eccitante. È la Venere ottentotta. Pochi anni dopo, a Parigi, la donna viene presentata in feste aristocratiche più o meno licenziose. L’eco dello spettacolo arriva ai naturalisti dell’Università che pagano i suoi padroni per studiarne il corpo e misurarne ogni dettaglio, soprattutto le grandi natiche e la particolarissima estensione delle piccole labbra della vulva. Quando la donna rifiuta di mostrarsi completamente nuda agli scienziati viene picchiata dai suoi sfruttatori. La degradazione subita la conduce a un bordello e poi per le strade, sino a che sifilide e tubercolosi non la uccidono. Questa la vicenda di Saartjie Baartman. Il corpo venne venduto dopo la morte agli stessi naturalisti che non erano riusciti a studiarla in vita come pretendevano. Un calco dell’intera persona a grandezza naturale, gli organi genitali e il cervello conservati nella formalina costituirono oggetto di lezione di anatomia razziale da parte di insigni studiosi, tra i quali Georges Cuvier. Costoro affermarono con sicurezza che la conformazione del cranio, del volto e del sedere di questa “femmina” la avvicinava assai più all’orangotango che all’Homo sapiens sapiens. Soltanto nel 2002 i resti e lo scheletro di Saartjie vennero restituiti al Sudafrica e trovarono finalmente sepoltura.

Il film si chiude proprio sulle immagini reali dell’arrivo delle spoglie di Saartjie Baartman in Africa. Si apre, invece, su una lezione tenuta da Cuvier, nella quale lo scienziato espone le proprie opinioni razziste come un dato del tutto evidente, empiricamente e razionalmente evidente. Merito non piccolo di questo film è dunque contribuire a smascherare ancora una volta la presunta neutralità delle scienze dure, le quali in realtà -come tra gli altri Foucault e Kuhn hanno dimostrato- costituiscono uno dei più formidabili strumenti al servizio del potere degli Stati e dei pregiudizi diffusi nelle società. Ma non è questo a dare senso e valore al film. Neppure lo è la critica al razzismo che intride la storia europea come quella di tutti gli altri continenti e civiltà. La magia di Venus noire sta nell’essere una descrizione dello sguardo umano. Non succede infatti nulla in questo film. Tutto quello che accade è dentro e intorno al corpo di Saartjie, nei suoi occhi. Il suo sguardo rimane sempre colmo di una profonda dignità, qualunque cosa accada, anche quando viene toccata, derisa, violata non soltanto dalle mani degli altri ma anche e soprattutto dai loro sguardi famelici, sprezzanti, curiosi, lascivi, violenti, umilianti, volgari, arroganti, avidi, gelidi. Lo sguardo di Saartjie e quello di tutti gli altri appaiono in un tessuto di primi e primissimi piani scolpiti da una cinepresa in moto perpetuo, che mostra come lo sguardo umano sia uno sguardo di ferocia.

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