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«Giovinezza, giovinezza…»

Luce – L’immaginario italiano
Catania – Palazzo della Cultura / Palazzo Platamone
A cura di Roland Sejko e Gabriele D’Autilia
Sino al 19 febbraio 2017

L’Unione Cinematografica Educativa (LUCE) venne fondata nel 1924 e subito divenne strumento d’avanguardia del fascismo e della persona di Benito Mussolini. Allo stesso modo di quanto stava accadendo in Unione Sovietica e da lì a poco avverrà in Germania, il regime italiano fu del tutto consapevole delle potenzialità che i nuovi mezzi di comunicazione di massa -stampa, radio, cinema- offrono al Potere. Informazione, educazione e propaganda furono elementi inseparabili dell’Istituto LUCE e tali sono sempre rimasti. Questa mostra documenta con fotografie, filmati, registrazioni sonore, l’azione pervasiva del LUCE nella vita quotidiana degli italiani.
I pannelli didascalici che illustrano le immagini sono troppo lunghi e stampati a caratteri piccoli, penso che pochi visitatori li leggano; sulle pareti compaiono invece a grandi lettere parole come Fascistizzazzione, Libro e moschetto, Impero, Autarchia, Vincere e vinceremo!, Il Duce ha sempre ragione, Uomo Nuovo. Vale a dire l’uomo ottimista, attivo, obbediente, contento, cieco, che il fascismo intendeva plasmare. Il controllo dell’immagine del Duce era totale. Mussolini il Pubblicitario non argomentava ma convinceva. Il corpo del Duce strabuzzava gli occhi, scandiva le parole, placava con la mano, muoveva continuamente la fungia (sicilianismo per dire che sporgeva mento e labbra). A noi, oggi, simili mossette appaiono quelle di un buffone ma allora manifestavano un dio. Perché questo era Mussolini. Ogni suo apparire costituiva un’epifania del Potere, era l’immagine della politica diventata religione.
Dove finirono dopo il 1943 le masse osannanti e devote? Sparite, naturalmente. E sostituite dagli anni che la mostra definisce di Ricostruzione, di conseguimento del Miracolo italiano. Le parole sulle pareti sono adesso Resistenza, Modernità/Arcaismo, Modi di vita, Italiani e Italiane, Migranti, Classe operaia. Una sezione è dedicata alla vita delle città italiane, a Catania in particolare con la sua Grande Festa che ogni anno -dal 3 al 5 febbraio- incorona la vergine Sant’Agata come regina del desiderio popolare.
E poi immagini consacrate al teatro, allo sport e soprattutto al cinema. È questo il luogo d’elezione dell’Istituto LUCE, quello in cui la Società dello Spettacolo attinge la sua piena legittimità, espandendosi poi in ogni altro ambito della vita collettiva. Il sostegno che l’Istituto diede al cinema italiano fu totale. Nell’ultima, grande sala di Palazzo Platamone compaiono le fotografie e i filmati di tutti -proprio tutti- i più conosciuti attori, registi, divi del cinema italiano e internazionale dal 1950 al 2000. Appaiono nello sfolgorio della loro giovinezza, la sola età legittima in quel mondo di ombre, come nel fascismo e nel Sessantotto. Sono quasi tutti morti.

Brianza

Carlo Emilio Gadda
LE BIZZE DEL CAPITANO IN CONGEDO e altri racconti
A cura di Dante Isella
Nuova edizione riveduta
Adelphi, 2007 (1981)
Pagine 258

Quello della Brianza è un eterno ritorno nelle pagine di Gadda. Torna torna «questa terra felice, denominata Breanza» (p. 13), con i suoi improbabili ma realissimi villini, ville, villette; con i proprietari commendatori e sciuri che abitano le loro terrazze «da far prendere adeguato fresco, in su le belle sere estive, a loro coglioni spalancati» (14). In questa terra le costruzioni umane hanno distrutto l’armonia e impresso nello spazio «una sorta di mancamento della propria anima di popolo» (17). In queste lande e simili può trionfare la struggente ingiustizia narrata nella Passeggiata autunnale (1918, la prima prosa narrativa di Gadda) o può affacciarsi l’«anima ancor fervida di puerile bontà e di altri sentimenti elevati, ma inverosimilmente inutili» (70). Nelle città, invece, si accalca «una folla, solita a deprecare la pessima organizzazione del mondo» e che però il mondo «lo percorreva allegra» (74). Folla che si spinge e si odia al tumultuoso ingresso nei cinema ma che iniziato il film sembra trasfigurarsi nell’incanto del silenzio, dove a parlare è il sogno: «Nella tenebra liberatrice in cui piombammo ad un tratto, ogni urto fu attenuato e il boato delle passioni umane vaniva. I silenti sogni entrarono così nella sala» (84).
Su tutto questo, sui pochi sensati e sui tanti stolti, su tutti tutti gli umani così ben impegnati da millenni «a voler rimanere abbarbicati alla meravigliosa crosta terrestre» (36) piomba il tempo a cancellare i finti assi e «ogni finta grandezza e ne rimane lo scalcinato muriccio» (16), piombano le bizze del capitano «contro Semiramide, lo sciacquone, i cilindri zincati, l’architetto Gutierrez e il fisico Wollanston» (33).
Tra gli otto racconti tristi e irati, assatanati e poco umanistici, emerge l’ultimo –L’interrogatorio (1946)- che è un intero capitolo, il IV, espunto dal Pasticciaccio brutto de via Merulana, espunto per ragioni di suspense, poiché troppo anticipava e diceva di come sarebbe andata la vicenda. E qui il godimento del lettore è totale. Qui torna e trionfa una lingua plebea ed espertissima, sanguigna e dolente, schopenhaueriana e napoletana. Lingua nella quale «il Merda» (Mussolini) si mescola ad «occhi, di già malinconici, bellissimi» che «smorirono a un tratto, spenti come da un disperato incanto…» (159). Poco dopo la faccia proprietaria di quegli occhi «sembrava la figura dell’interrogazione: di mano d’un manierista coi fiocchi…» (182).
L’imputato, all’inizio reticente, parla e nei suoni sbrodola un’antologia delle assurdità del mondo: «L’accattoni se sa che so tutta na camorra…» (176); alcune donne «de quelle…ch’oggi, poi, so’ dde moda…che de quand’in quando preferischeno de sonà la ghiatarra intra de loro…» (175); i ragazzini che «ce so’ pure loro a sto monno: e de li regazzini…chi tee sarva?…» (188); i rimorsi che con il loro aspro mordere «gli pullulavan fuori da ogni borro dell’anima, gli rotolavano sull’anima i loro ciottolacci» (167). E i tessili ed enigmatici «mestrui della Gran Madre» che «le tingevano di nero infino le mutande, allora, contro ogni mestruale previsione» (167), affermazione che una nota chiarisce -diciamo così- in questo modo: «In anni che si ponno collocare tra il 1924 e il 1928 si diffuse in Europa la moda della non dirò biancheria ma lingeria color nero. […] Detta moda cadde quant’altre opportuna sulla bambinesca totalitarietà dei razionali e dei fedelissimi di provincia nostra: inquantoché le mutande nere: primo le ti confermano e le ti bollano la fede nera su i’ ddidietro ed eventualmente su qualche altro pezzo di pelle, cooperandovi gli estivi essudati: e poi ancora: quegli che s’è dato a credere, obbedire, combattere, non deve mutarsele a ogni piè sospinto, come accade fare delle liliali» (167-168).
Puro linguaggio, soltanto forma, questo è la letteratura. Nessun messaggio, nessuna morale, nessun concetto che non scaturisca dalla forma, che non sia forma.

Partito Democratico Mussoliniano

PDFLe istituzioni italiane sono sempre state tentate dal potere di uno solo, che si chiami Mussolini, Berlusconi o Renzi. Come Gadda e Pasolini hanno ben compreso e scritto, questa società non sembra possedere anticorpi nei confronti del mussolinismo e della sua perenne nostalgia.
Nella storia d’Italia la fiducia sulla legge elettorale era stata posta -prima che dal Partito Democratico nell’aprile del 2015- da Mussolini nel 1923 con la Legge Acerbo e dalla Democrazia Cristiana nel 1953 con la «legge truffa», tentativo poi fallito.
Ieri Sinistra e Libertà ha lanciato crisantemi sulla Camera dei Deputati. Ed è grottesco che gli zombi del Partito Democratico non si rendano conto che in questo modo muoiono pure loro e al posto del PD nascerà il Partito della Nazione. In ogni caso, la democrazia è un sistema fragile, che richiede il rispetto di alcune procedure senza le quali si svuota dal di dentro: il voto di fiducia su una legge elettorale è un’enormità che è legittimo definire fascista.

Gadda, i luoghi, la Gnosi

Verso la Certosa
di Carlo Emilio Gadda
(1961)
A cura di Liliana Orlando
Adelphi, 2013
Pagine 249

Libro nato da travagliato parto, come spesso in Gadda, ma che di tale fatica non risente. Nella varietà dei suoi temi parla infatti una scrittura classica, direi radicalmente classica nelle sue variazioni espressionistiche, violente, e però sempre intrise di un’armonia inimitabile. Milano e la Lombardia rappresentano l’orizzonte geografico e antropologico privilegiato: la Fiera campionaria; i luoghi visitati e vissuti da Petrarca; la bizzarria della Borsa; il mercatino di Senigallia; il risotto alla milanese descritto in uno stupefacente capitolo/ricetta dal quale si sprigiona il sapore stesso della pietanza. E poi il titolo. Verso la Certosa per i milanesi vuol dire infatti anche verso il cimitero, verso il luogo dove cesseranno insieme lo «scarso cervello del mondo» (p. 11) e «la disperazione» che «mi chiamava, chiamava, dal fondo dei suoi deserti senza carità» (36). A Milano c’è questo e c’è tutto il resto, per chi sappia vederlo e viverlo, poiché «tutto esiste a Milano, Milano è la scansia d’ogni possibilità […] dentro la cerchia dell’onniprassi milanese» (48).
Gadda intrattiene uno stretto rapporto con Manzoni, il cui nome e le cui parole tornano spesso, condite di costretta ammirazione e d’ironia liberatrice, come nel «magno seggiolone» scoperto tra i mobilieri brianzoli e sul cui barocco d’imitazione «par di vedere assiso, col suo collare di pizzo, il Conte Zio» (94), o nei pensieri di fronte al Resegone: «Il totem orografico della manzoneria lombarda mi pareva levantarsi, castigo ingente, da un fallimentare ammucchio di bozzoli: emerso dal vaporare delle filande, di tutte le bacinelle di Brianza: o dell’Adda o del Brembo» (34).
Parla spesso in queste pagine l’ingegnere, anche con dettagli tecnici come quelli descritti per il Duomo di Como o la critica esatta e pungente all’utilizzo esclusivo del cemento armato nelle case, nei falansteri vittime della scarsa inerzia del calcestruzzo, del rimbombare di ogni pur minimo suono, vittime dello «svantaggio termico: le stanze si raffreddano e si riscaldano al variare della temperatura esterna con le ore del giorno: il sorgere del sole è percepito attraverso la scemenza dei forati dall’inquilino a levante, la bestiale autorità del sole estivo delle sedici diciotto è patita attraverso la inefficienza dei forati dalla indifesa agonia e dal sudore turco dell’inquilino a ponente» (122).
Al di là della Lombardia, Gadda vede ovunque moltiplicarsi ciò che Ortega Y Gasset definiva il pieno, lo spremersi e infoltire degli umani nello spazio, come nella Versilia che fu dei poeti e che adesso è invasa da scalmananti e turistiche folle: «Infiniti giornali, infinita gente, infinite tasse di soggiorno, infiniti pullman: infinite biciclette, ora: e l’oblioso ozio, nel giorno, d’una gente che sguazza, si cura i piedi, cuoce, cuoce sotto il sole» (115). Masse che ben servono da carburante e da combustibile a quei singoli che proclamano di parlare e agire a lor vantaggio e che invece è naturalmente al proprio e personale bene che sanno puntare lestamente. Nell’arco storico che da Mussolini va a Renzi, e passando per i troppi intermediari che li uniscono, sembra davvero che in Italia comandi sempre l’incessante e «truculento guappismo dei novatori coûte que coûte», lo «sconsiderato padreternismo dei tira linee quattordicenni: sì, età mentale quattordici» (121). Coûte que coûte è il «costi quel che costi» proclamato a ogni piè sospinto da Renzi, dal suo -per l’appunto- «truculento guappismo» di «novatore».
Osservando il mondo, vivendolo, andando verso la Certosa, lo scrittore Carlo Emilio Gadda conclude con una giustificata bestemmia nei confronti del funesto demiurgo che ha dato essere alle cose che son vive. Meglio non l’avesse fatto, «che il diritto è una bella balla: e che Giove Pluvio è un cialtrone, un istrione, e un porcone» (127).

 

Il governo di un vecchio reazionario

«Son dunque gli stessi popoli che si fanno dominare, dato che, col solo smettere di servire, sarebbero liberi. […] È il popolo che acconsente al suo male o addirittura lo provoca» (Étienne de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, 1552 ca., trad. di F. Ciaramelli, Chiarelettere 2011, p. 10). Rimane l’enigma del perché gli umani siano così facilmente spinti a rinunciare alla libertà e a sottomettersi anche e soprattutto nei confronti di chi li danneggia.
Una questione politica e antropologica che appare singolarmente grave nella storia d’Italia, un Paese che da Mussolini a Renzi -passando per Andreotti, Craxi, Berlusconi- ha acclamato e sostenuto dei capi di governo spesso buffoni e/o criminali. È quanto si chiede anche Alberto Burgio in questa sua analisi finalmente esplicita, che chiarisce la natura socialmente criminale del governo italiano in carica e di chi lo guida.


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Pubblico impiego, ora sappiamo chi è Renzi
di Alberto Burgio, il manifesto 5.9.2014

Si dice che con­ti­nui la luna di miele tra il governo e il paese. Renzi se ne vanta, con quella vanità gon­fia di vuoto che Musil defi­niva biblica. Fosse vero, si ripro­por­rebbe un clas­sico pro­blema. Sa que­sto popolo giu­di­care? O forse ama essere irriso, deriso, abbin­do­lato? Era meglio per­sino Monti (ci si passi l’iperbole), il nostro can­cel­lier Morte (parola del Finan­cial Times, che ebbe modo di assi­mi­larlo al rigo­ri­sta che spianò la strada a Hitler). In pochi mesi Monti rase al suolo la parte più indi­fesa del paese, ma almeno non vestiva panni altrui. Renzi non fa pra­ti­ca­mente altro che infi­noc­chiare il pros­simo, con quella sua fac­cia di bronzo da bam­bino viziato e prepotente.
Le balle più odiose riguar­dano ovvia­mente la ridu­zione delle tasse (gli 80 euro per i quali si ribloc­cano i salari del pub­blico impiego). Non­ché la difesa di ceti medi e lavoro dipen­dente. In realtà il governo col­pi­sce duro entrambi.
Nei diritti (è vero, l’art. 18 è un sim­bolo: poi c’è la sostanza, come dimo­stra que­sta novità del mana­ger sco­la­stico che arbi­trerà le car­riere dei col­le­ghi a pro­pria discre­zione). Nelle tutele (per­sino l’Ocse segnala che la «riforma» Poletti esa­gera con la pre­ca­rietà). Nei già esan­gui red­diti. Tor­nano i tagli lineari, ver­go­gnosi in sé, e tanto più per­ché val­gono a soste­nere l’indifferenza tra biso­gni essen­ziali (la salute, la for­ma­zione, la vita stessa) e spre­chi veri, a comin­ciare dalla scan­da­losa spesa mili­tare. E torna – per la quinta volta – il blocco degli scatti nelle retri­bu­zioni dei dipen­denti pub­blici. Non una por­che­ria: un vero e pro­prio furto.
Hanno lor signori idea di che signi­fi­chi di que­sti tempi in Ita­lia per milioni di fami­glie, spe­cie al Sud, per­dere mille euro l’anno? Certo, per chi ne gua­da­gna quin­di­ci­mila al mese o più, è una baz­ze­cola. Per molti invece è un dramma, come dimo­stra quel 5% di fami­glie (l’anno scorso era appena l’1%) costrette a inde­bi­tarsi con ban­che e finan­zia­rie per com­prare libri e cor­redo sco­la­stico. Anche di quella che con­ti­nua a chia­marsi scuola dell’obbligo.
Il peg­gio è la moti­va­zione for­nita cini­ca­mente dalla mini­stra Madia. «Non ci sono risorse». Il che può tra­dursi in un solo modo: «Per que­sto governo sono intan­gi­bili ren­dite e patri­moni, pur in larga misura accu­mu­lati con l’illegalità» (leggi: elu­sione ed eva­sione fiscale).
Ora final­mente chie­dia­moci: che razza di governo è mai que­sto? Chie­dia­mo­celo senza guar­dare alle eti­chette, badando alle cose che fa e pro­getta, dalla poli­tica eco­no­mica alle scelte inter­na­zio­nali, dalla con­tro­ri­forma del lavoro a quella della Costituzione.
Chie­dia­mo­celo noi. Ma se lo chie­dano prima di tutti seria­mente sin­da­cati e poli­tici. La Cgil minac­cia mobi­li­ta­zioni in difesa del pub­blico impiego. Vedremo. Parte del Pd mugu­gna e medita di dar bat­ta­glia sull’art. 81 della Costi­tu­zione. Vedremo. Ma all’una e all’altra sug­ge­riamo di guar­darsi final­mente dall’errore che ci ha por­tati a que­sto stato.
Non c’è più tempo per trac­cheg­giare. Ne va della loro resi­dua cre­di­bi­lità, ma soprat­tutto della vita di milioni di persone.

Gadda, l’anarchico

Eros e Priapo
Da furore a cenere
di Carlo Emilio Gadda
Introduzione di Leone Piccioni
Garzanti, 2001 (1963)
Pagine 175

gadda_eros_priapo«Dopo i nove mesi di soggiorno nel Grand Hotel materno» (pag. 132) si viene gettati «sulla scena tragica e in un tempo carnevalesca del mondo» (169), dove identità e relazioni, speranze e sogni, angosce e disincanti frullano nel mulino del tempo. E nel tempo accade la “storia”, questa sequela di progetti e di morte, di bandiere e di soldi, di utopie e di ferocia.
Una feroce farsa fu agli occhi di Gadda il fascismo, la cui più intima forza e ragione di successo è data dal consentire profondamente con il carattere degli italiani, con la loro vicenda di servitù, di furbizia e di finzioni. «E i dimolti italioti di cui Modellone Torsolone incarnava come non altri la fatua scempiaggine e la livida malafede, sentivano risuonar di sé l’una e l’altra per συμπαθεια co’ le grandezze ricattarorie di lui: e ad ogni nuova sparata entravano secolui in vibrazione armonica» (76).
Infanti male e poco cresciuti, gli italiani si fecero governare per vent’anni da un “folle narcisista” la cui grottesca teatralità è il cuore di questo libro inclassificabile e furioso. Dal balcone il duce emanava «i berci, i grugniti, i sussulti priapeschi, le manate in poggiuolo, e ‘l farnetico e lo strabuzzar d’occhi e le levate di ceffo d’una tracotanza villana» (42). Proclamatosi «genio tutelare» dell’Italia, «la redusse a ceneri ed inusitato schifo» (66), la ridusse a un’apparente grandezza, «in realtà scempiata grandiloquenza» che «altre genti meno verbose e più serie calpesteranno» (141), mandando a morire senza pietà, senza intelligenza e senza gloria i «sacrificati figli d’Italia», verso i quali «lui non ebbe amore per nulla, se non simulato e teatrale» (71), poiché tutto nel duce «è sfarzo baggiano da fuori, e nulla è angoscia vera da dentro» (152), «sul palco, sul podio, la maschera dello ultraistrione e del mimo, la falsa drammaticità de’ ragli in scena, i tacchi tripli da far eccellere la su’ naneria: e nient’altro» (156).
La descrizione di Benito Mussolini -l’uomo, il politico, il massimalista, il capo del regime, l’ideologo, il maschio- è realistica sino alla documentazione, per quanto trasfigurata nella incredibile e magnifica lingua di Gadda.

Questo qui, Madonna bona!, non avea manco finito di imparucchiare quattro sue scolaresche certezze, che son qua mè, son qua mè, a fò tutt mè a fò tutt mè. […] Pervenne, pervenne. Pervenne a far correre trafelati bidelli a un suo premere di bottone su tastiera, sogno massimo dell’ex agitatore massimalista. Pervenne alle ghette color tortora, e che portava con la disinvoltura d’un orango, ai pantaloni a righe, al tight, al tubino già detto, ai guanti bianchi del commendatore e dell’agente di cambio uricemico: dell’odiato ma lividamente invidiato borghese. […] Pervenne. Alla feluca, pervenne. Di tamburo maggiore della banda. Pervenne agli stivali del cavallerizzo, agli speroni del galoppatore. Pervenne, pervenne! Pervenne al pennacchio dell’emiro, del condottiere di quadrate legioni in precipitosa ritirata. (Non per colpa loro, poveri morti; poveri vivi!). Sulle trippe, al cinturone, il coltello: il simbolo e, più, lo strumento osceno della rissa civile: datoché a guerra non serve: il vecchio cortello italiano de’ chiassi tenebrosi e odorosi, e degli insidiosi mal cantoni, la meno militare e la più abbietta delle armi universe. […] E la differenza la sapete bene qual è, la differenza che passa tra Lissandro Magno e codesto brav’uomo: che l’Alessandro Magno l’è arrivato (sic) ad Alessandria col cocchio: e lui c’è arrivato col cacchio. Si tenne a dugèn chilometri di linea. Riscappò via co’ sua cochi e marmellate dell’ulcera. Scipione Affricano del due di coppe. (27-28)

Questo fu, davvero, Mussolini e l’Italia con lui. Una descrizione esatta del fenomeno fascista nei suoi risultati storici e nella scaturigine dall’«Io-minchia, invaghito, affocato, affogato di sé medesimo» (143), dell’«ismodato culto della propria facciazza», che sarebbe disposto anche a morire pur di andar a finire sui giornali (147 e 157), volendo tutto imbarcare «nell’Arca onnialbergatrice della propria insaziabile vanità e stoltezza» (152) poiché la “persona” dell’antropologia narcisistica e fascista «è persona scenica e non persona gnostica ed etica» (145).
Il discorso politico diventa subito discorso biologico, da esso inseparabile come il frutto è inseparabile dal suo involucro. Frutto la biologia, involucro la politica. Egli, il Duce Mussolini, agì sulle donne allontanando i concorrenti, gli altri uomini, ergendosi quale maschio dominante, e ciò con ogni strumento del potere politico, anche il più violento. Poiché soltanto lui, solo il “kuce” era «detentore de i’ barile unico e centrale dello sperma» (63). L’immenso virilismo fascista -«dacché tutto era, allora, maschio e Mavorte: e insino le femmine e le balie: e le poppe della tu’ balia, e l’ovario e le trombe di Falloppio e la vagina e la vulva. La virile vulva della donna italiana» (68)-, questo virilismo fece presa sulle donne, sul loro arcaico e naturale culto del fallo, che però nella modernità utilitaristica e non più sacra si fece obbedienza cieca ai dogmi del regime e non orgiastica libertà dai divieti. A tale culto, un misto di invidia ed emulazione, si accodarono e sottomisero naturalmente molti maschi.
In questo modo Eros coincide con Priapo, e dunque con una sua parte, essenziale sì ma non esclusiva e unica. Poiché «Te, se ami, a un certo punto di Io te tu diventi Tu» (169) e invece il culto assoluto che la personalità narcissica rivolge verso se stessa -perché altro non sa fare-  costituisce la negazione più evidente dell’Eros, la caricatura, la farsa. Vera cifra, quest’ultima, dell’Italia fascista e del suo Capo.
Il libro di Gadda dispiega in questo e in altri modi la propria natura anarchica. Che vuol dire impianto anticlericale1, antimilitarista2, antipatriottico3, avverso soprattutto a ogni omologazione, conformismo, servitù, per quanto volontaria. «La cosiddetta “civiltà contemporanea”, in realtà sudicia e inane verbosità, ha reso inetti i cervelli di miliardi di uomini a esercitare la benché minima funzione critica nei confronti della carta stampata, del proprio giornale in ispecie» (157). Allora il giornale, oggi ancora la stampa ma soprattutto la televisione, nella quale Gadda lavorò e che è diventata ora il luogo della più irredimibile volgarità. Quella volgarità della quale il Fascismo e il suo Duce furono emblema.


Note

1. «Religione non è l’accomodarsi col Papa per l’averne o sperarne licenza o assistenza alle sbirrerie e alle ladrerie, non è il battezzare le navi da guerra con l’asperges, non è il berciare da i’ balcone “la santità della famiglia” per poi spaparanzarsi adultero ai tardi indugi di un sonnolento tramonto» (48)
2. «Sadismo è il modo della guerra, è l’arma naturale della guerra, di ogni guerra pensabile» (113).
3. «Gli occhî tuttavia mi si velano pensando i sacrifici, i caduti, il giovine spentosi all’entrare appena in quella che doveva essere la vita, spentosi a ventun anno appiè i monti senza ritorno: perché i ciuchi avessono a ragghiare di patria e di patria, hi ha, hi ha, eja eja, dentro al sole baggiano della lor gloria. Che fu gloria mentita» (72).

 

Antropologia italica

Il capitale umano
di Paolo Virzì
Con: Valeria Bruni Tedeschi (Carla Bernaschi), Fabrizio Bentivoglio (Dino Ossola), Fabrizio Gifuni (Giovanni Bernaschi), Matilde Gioli (Serena Ossola), Valeria Golino (Roberta Morelli), Luigi Lo Cascio (Donato Russomano), Bebo Storti (l’ispettore), Gianluca Di Lauro (il ciclista), Giovanni Anzaldo (Luca Ambrosini), Gugliemo Pinelli (Massimiliano Bernaschi)
Italia, 2014
Trailer del film

Capitale_umano_Dino_OssolaLe parole sono il mondo, si sa. Definire un ente e un evento in una maniera o in un’altra significa conferirgli una diversa realtà. Nell’epoca dell’ultraliberismo vincente e di sinistra -da almeno vent’anni- uomini e donne che lavorano sono diventate delle risorse umane, la fine dei finanziamenti a fondamentali bisogni sociali si chiama spending review, la subordinazione della politica alla finanza ha preso il nome di governamentalità, le più squallide operazioni di potere e una miriade di intrallazzi vengono definite responsabilità. E così via nello schifo che soltanto il servilismo dei giornali e dei giornalisti di proprietà delle banche e dei partiti può trasformare in profumo.
Questo in tutto l’Occidente e, di fatto, nel mondo. In Italia, solita fortunata, si aggiunge da vent’anni la presenza di un bandito ricattato e ricattatore, le cui televisioni -come Pasolini ben aveva previsto- hanno trasformato non soltanto il vivere sociale ma assai più a fondo l’antropologia di questo popolo, il quale possedeva già comunque tutte le condizioni per diventare ciò che è. Tale popolo ha infatti per due volte nello stesso secolo dato credito e gloria a due scaltri buffoni carismatici come Mussolini e Berlusconi. Il risultato è un modo di esistere e di pensare che il film di Virzì ben esprime attraverso una storia brianzola (la Brianza di Carlo Emilio Gadda!) intrisa di ferocia, di tracotanza, di culto verso il denaro, di dissoluzione di ogni legame sociale, di provincialismo e soprattutto di volgarità. Una volgarità culturale (nel senso antropologico) incarnata da due magnifici attori che interpretano -rispettivamente- la cialtroneria del piccolo imprenditore che vuole diventare ricco in poco tempo (Dino Ossola) e l’elegante spietatezza di uno squalo della finanza (Giovanni Bernaschi).
Assistendo alla progressiva parabola discendente di questi e degli altri personaggi ho goduto, augurando a tutti i loro emuli e consimili nella vita reale il medesimo destino.  Il loro personale «lieto fine» con il quale il film si chiude è, certo, l’ammissione della sconfitta di una giustizia più alta di quella del diritto, l’ammissione del fatto che «sulla terra è la volgarità che è immortale» (J. Burckhardt, Sullo studio della storia, Boringhieri 1958, p. 214) ma è anche la conferma della nullità assoluta di queste vite, degne soltanto di disprezzo. Lo stesso disprezzo che meritano gli italiani.

 

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