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Gadda, la guerra, il narcisso

Teatro Franco Parenti – Milano
L’ingegner Gadda va alla guerra o la tragica storia di Amleto Pirobutirro
Un’idea di Fabrizio Gifuni – da Carlo Emilio Gadda e William Shakespeare
Regia di Giuseppe Bertolucci
Con Fabrizio Gifuni
Vincitore Premio UBU come spettacolo dell’anno
Dicembre 2010

Tra gli archetipi, la Madre è per un umano il dominio stesso della vita e del dolore. Dominio nel duplice senso: luogo e insieme potere, la Madre accoglie, seduce, tradisce, dispera, ritorna. Amleto/Oreste dimostra come non sia possibile uccidere la Madre senza uccidere se stessi. Il Gonzalo Pirobutirro della Cognizione del dolore è un’ulteriore figura di questo rapporto totale con Lei, di quel tutto luminoso e mortale che la Madre rappresenta.

Qui sta il legame tra Shakespeare e Gadda, letto da Gifuni attraverso le pagine di diario che l’ingegnere scrisse sul fronte della Prima guerra mondiale e durante la prigionia in Germania. Scorrono la pietà e la vergogna per le condizioni dei compagni nelle trincee, la lucida percezione del tradimento che l’italia perpetrava nei confronti di tante persone mandate a morire, l’ammirazione e la gelosia nei confronti del fratello Enrico, la fatica del ritorno in una patria nella quale le speranze di grandezza e di rinnovamento vennero tutte tradite. Tradite soprattutto dal fascismo, da quel “Bombetta, Kuce, Mascelluto narcissico” al quale è dedicata l’ultima parte dello spettacolo.

Tratte da alcune pagine di Eros e Priapo, e recitate forse troppo velocemente per poter apprezzarne l’arcaico ma modernissimo linguaggio e il significato demistificatorio, sono parole di straordinaria potenza analitica, dalle quali la farsesca ferocia del Potere dei Presidenti del Consiglio -Mussolini allora, Berlusconi oggi- emerge in modo folgorante e annichilente.

Il folle narcissico (o la folle) è incapace di analisi psicologica, non arriva mai a conoscere gli altri: né i suoi, né i nemici, né gli alleati. Perché? Perché la pietra del paragone critico, in lui (o in lei), è esclusivamente una smodata autolubido. Tutto viene relato alla erezione perpetua e alla prurigine erubescente dell’Io-minchia, invaghito, affocato, affogato di sé medesimo. […]
Seconda caratterizzazione aberrante, e analoga alla prima, anzi figliata da lei, è la loro incapacità alla costruzione etica e giuridica: poiché tutto l’ethos si ha da ridurre alla salvaguardia della loro persona, che è persona scenica e non persona gnostica ed etica […] Tutto il lavoro, tutta la fatica, tutta la speranza, tutto il sogno, tutto il dolore umano sono a culminare nella loro vanità mal protesa, a turibolare il loro glande di porfido, porfidescamente incretinito. Lo jus, per loro, è il turibolo: religio è l’adorazione della loro persona scenica; atto lecito è unicamente l’idolatria patita ed esercitata nei loro confronti; crimine è la mancata idolatria.
[…]
Men che meno il narcissico può esser filosafo, o costituirsi discepolo di filosafi alla scuola d’Atene […] Il costruire sistemi filosofici sulla propria indole ghiandolare, cioè aventi la propria tiroide o le surrenali a meccanismo impulsore del mondo, il suo costituire il proprio bellìco a perno del mondo, a pivot, non è operazione filosofica.
[…]
L’autofoja, che è l’ismodato culto della propria facciazza, gli induce a credere, per poco che quattro scalmanati assentano, gli induce a credere d’esser daddovero necessarî e predestinati da Dio alla costituzione e preservazione della società, e che senza loro la palla del mondo l’abbi a rotolare in abisso, nella Abyssos primigenia: mentre è vero precisamente il contrario: e cioè che senza loro la palla de i’ mondo la rotola come al biliardo e che Dio esprime in loro il male dialetticamente residuato dalle deficitarie operazioni collettive, dalla non-soluzione dei problemi collettivi: essi sono il residuato male defecato della storia, lo sterco del mondo.
[…]
Sul palco, sul podio, la maschera dello ultraistrione e del mimo, la falsa drammaticità de’ ragli in scena, i tacchi tripli da far eccellere la su’ naneria: e nient’altro.
(Eros e Priapo [1967], Garzanti 2009, cap. 10, pp. 143-156)

A questo fiume di indignata invenzione, Fabrizio Gifuni dà corpo, maschera, figura, alternando la voce come da plurima orchestra e facendo del viso e di sé lo strumento variabile che lega la follia di Amleto, l’altera pietas di Gonzalo Pirobutirro, il disvelamento dell’infinita volgarità dei Bombetta di ieri, di oggi, di sempre.

L’omosessualo

Mussolini era certamente assai più colto e meno volgare ma tra i caratteri comuni ai due uomini politici più importanti dell’Italia del Novecento e del XXI secolo uno è evidentissimo: il fascino sessuale che entrambi hanno esercitato sulle masse. Freud e soprattutto Reich colsero bene la natura erotica del rapporto che il capo assoluto intrattiene coi suoi servi adoranti, in particolare nei fascismi. Il caso Berlusconi credo che però vada oltre e costituisca un impensabile gorgo somatico. I governi guidati da questo personaggio hanno prodotto risultati economici e sociali del tutto catastrofici, impoverendo le famiglie, annullando uno Stato sociale pur minimo (sanità, scuola, università, energia, trasporti) a vantaggio anche di dissennate guerre coloniali, raggiungendo il picco della corruzione amministrativa, trasformando l’Italia nello zimbello del pianeta, imponendo una televisione pubblica e privata degna della Romania di Ceausescu. Gli italiani, insomma, “la prendono nel culo” continuamente. E tuttavia sembra che ancora milioni di loro apprezzino, difendano o almeno giustifichino chi li sta violentando. Il disprezzo mostrato da costui verso gli omosessuali appare dunque una forma di denigrazione verso l’intera società da lui sodomizzata ma anche verso se stesso in quanto androgino. Berlusconi racconta infatti che «subito dopo la partita dello scudetto del 1988, un tifoso vede la mia macchina, mi riconosce, si pianta davanti al cofano e grida: “Silviooooo, Silviooooo: sei una gran bella figa!”. È stato il complimento più bello della mia vita» (M. Belpoliti, Il corpo del capo, Guanda 2009, p. 77). Insomma, disprezzando gli omosessuali disprezza la gran figa che è in lui.

(Su questo vortice politico-carnale segnalo un approfondito articolo di Andrea Cortellessa nel numero di ottobre di Alfabeta2, Dalla Pornocrazia alla Mignottocrazia; aggiungo che oggi, 6.11.2010, l’Unità ha pubblicato dei brani da Eros e Priapo di Gadda, dove -tra l’altro- lo scrittore disegna il seguente ritratto del potente narciso: «in lui tutto viene relato alla erezione perpetua e alla prurigine erubescente dell’Io-minchia, invaghito, affocato, affogato di sé medesimo»).

Il ghigno

«Egli era allora, come oggi, il tipo concentrato del piccolo borghese italiano, rabbioso, feroce, impasto di tutti i delitti lasciati sul suolo nazionale da vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti».
Così scriveva Antonio Gramsci su Ordine Nuovo del 15 marzo 1924. Si riferiva a Benito Mussolini ma la rabbia, il ghigno, la miseria umana, l’impasto dei delitti contro la libertà e la dignità dello stare al mondo, valgono assai più oggi che allora. Ottant’anni trascorsi invano. A conferma che nella storia non si dà progresso e che aveva ragione Étienne de La Boétie sulla «servitù volontaria» alla quale individui e masse si consegnano.

Vincere

di Marco Bellocchio
Italia 2009
Con: Giovanna Mezzogiorno (Ida Dalser), Filippo Timi (Benito Mussolini)
Trailer del film

 

Cinque minuti. Questo è il tempo che il Mussolini socialista massimalista dà a Dio per fulminarlo durante un dibattito a Trento nel 1907 con dei cattolici. Il vano trascorrere dei secondi sarà la prova -afferma- che Dio non esiste. Così comincia il film e così inizia anche la passione della giovane Ida Dalser per il dirigente del PSI. Da tale passione nasce il giovane Benito Albino. Alla carriera di Mussolini, nel frattempo transitato fra gli interventisti ed espulso dal suo partito, questo legame (sancito da un matrimonio in chiesa, mentre Rachele era stata sposata in municipio…) è però di ostacolo. Quando il rivoluzionario diventa il padrone dell’Italia, Ida e il figlio vengono isolati, controllati, reclusi in manicomio. Morranno prima del Duce.

Il film utilizza un raffinato intreccio di narrazione e documentazione, sceglie moduli espressivi del cinema degli anni di cui racconta -sovrapposizioni, dissolvenze, formule testuali dentro l’immagine-, restituisce il dolore degli eventi con un’atmosfera cupa e crepuscolare, nella quale domina il nero. I due protagonisti sono molto intensi e la vicenda culmina nel figlio ormai “pazzo” che imita alla perfezione i comizi del padre, accentuandone l’intrinseca e buffonesca follia.

 

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