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Dalí, la materiatempo

Salvador Dalí. La persistenza degli opposti
Complesso rupestre Madonna delle Virtù e San Nicola dei Greci – Matera

Pensata come temporanea, questa mostra è diventata di fatto permanente e dà la possibilità di visitare uno dei luoghi più belli di Matera, il complesso rupestre di Madonna delle virtù e San Nicola dei Greci. Sui diversi livelli che lo compongono, dalle grotte affondate nella terra a quelle che spaziano sul panorama della gravina che delimita i Sassi materani, questo spazio racchiude ed espande l’identità e il segreto della città.
Le opere che Dalí ha dedicato al tempo, al mito, al Cristo, all’animalità e alla metamorfosi sembrano collimare con la sostanza delle pareti, delle colonne, delle pietre che le ospitano, in costante permanenza e metamorfosi, come il tempo, tanto da diventare anch’esse il mito vivente di Matera. Alcune delle opere in mostra sono infatti riprodotte a scala ingrandita ed epica tra le vie della città, a battere il suo tempo.

L’artista spagnolo aveva ragione a dire «Le surréalisme c’est moi!», tanto inesauribile e feconda è la sua capacità di fondere stilemi, inventare figure, rendere possibile l’inverosimile, dare grazia al mostruoso. E aveva ragione a intuire la natura ovidiana, metamorfica del tempo, che non è una linearità semplice e precostituita ma è un rizoma labirintico e molteplice.

Il tempo non è una corrente «dentro la quale gli eventi accadono ma a produrre il flusso temporale è lo stesso accadere degli eventi. Non esiste una retta del tempo dentro la quale gli eventi scorrono o si dànno ma sono gli eventi che esistendo producono tale retta. Non c’è un tempo nel quale gli eventi accadono ma l’accadere degli eventi è il tempo. Che dunque non è un dato soltanto mentale ma non è  neppure soltanto fisico. È la differenza della materia nei diversi istanti del suo divenire ed è l’identità di questo divenire in una coscienza che lo coglie. Il tempo nel quale accadono gli eventi è un’illusione fisicalistica e teologica. La realtà – l’essere – consiste nell’accadere degli eventi come identità /differenza della materia nei diversi strati e strutture che la compongono» (Temporalità e Differenza, p. 111).
L’arte di Dalí e la materiatempo di Matera costituiscono una conferma di tale ipotesi.

Perfezione

Inferno
Scuderie del Quirinale – Roma
A cura di Jean Clair
Sino al 23 gennaio 2022

Percorsa l’ampia spirale che una volta serviva ai cavalli del Re d’Italia al Quirinale, si arriva a un muro sul quale vengono proiettate alcune scene di Inferno, girato nel 1911 da Bertolini, De Liguori e Padovan (è possibile vedere qui l’intero film, dal quale consiglio di eliminare l’audio posticcio). Immagini ingenue e insieme espressioniste, ispirate a Gustave Doré ma colme più che in lui di una fisicità che ha preso alla lettera le invenzioni dantesche del ghiaccio, del fuoco, dei fiumi attraversati da anime del tutto corporee.
Si giunge da qui alla Porta dell’Inferno di Rodin, che cerca di esprimere nel marmo il dolore senza fine dei dannati. Il Giudizio finale di  Beato Angelico, dove persino la dannazione assume l’armonia delle sfere, sta accanto a una ben più terrificante Morte scolpita nel 1522 da Gil de Ronza (qui a destra).
Alcune magnifiche edizioni quattrocentesche del De civitate Dei introducono altri antichi volumi, compresi alcuni manoscritti. Gli Inferi di Monsü Desiderio (1622; immagine qui sotto) descrivono una profonda e terribile architettura che sembra scavare dentro e oltre e prima delle sofferenze umane e animali. Non potevano mancare Hieronymus Bosch con i suoi inferni, i suoi incubi, il suo grottesco, la sua Visione apocalittica, e Albrecht Dürer con Il cavaliere, la morte e il diavolo, una delle immagini più potenti dell’arte universale.

In mezzo a tutto questo la Medusa del 2008 di Ivan Theimer, in realtà eterna, fuori dal tempo, puro orrore. Di rappresentazione in rappresentazione si arriva ai Lussuriosi di Victor Prouvê (1889) (immagine di apertura), una delle opere più inquietanti e perfette di questo viaggio nel dolore: Paolo è carne senza volto che tocca ancora una volta la carne desiderabile di Francesca ma questi corpi e gli altri spinti dalla «bufera infernal, che mai non resta» (Inferno, canto V, v. 31) danno l’impressione di essere tutti in agonia, nel preciso senso della ‘piccola morte’ -l’orgasmo- che è diventata subito, in quell’istante stesso, il momento della fine. Un istante che la dannazione rende eterno. E poi ancora: gli acquarelli di Miguel Barceló (2001) si alternano alle molteplici versioni delle Tentazioni di sant’Antonio, soprattutto quella di Odilon Redon (1896) in cui la Morte dice alla vita «sono io che ti rendo seria».
C’è una grande forza nei versi con i quali Mefistofele dichiara la propria natura redentrice: «Ich bin der Geist, der stets verneint! / Und das mit Recht; denn alles, was entsteht, / Ist wert, daß es zugrunde geht; / Drum besser wärs, daß nichts entstünde. / So ist denn alles, was ihr Sünde, / Zerstörung, kurz das Böse nennt, / Mein eigentliches Element» (Goethe, Faust, vv. 1338-1344); nella traduzione di Franco Fortini: «Sono lo spirito che sempre dice no. / Ed a ragione. Nulla / c’è che nasca e non meriti / di venire disfatto. / Meglio sarebbe che nulla nascesse. / Così tutto quello che dite Peccato / o Distruzione, Male insomma, / è il mio elemento vero» (Meridiani Mondadori 1990, p. 103); bella, e più diretta, la traduzione che compare in mostra: «Sono lo spirito che nega sempre! / E con ragione, perché tutto ciò che nasce / è degno di perire. / Perciò sarebbe meglio se non nascesse nulla. / Insomma, tutto ciò che voi chiamate / peccato, distruzione, in breve, il male / è il mio specifico elemento». A tanta apollinea verità si coniuga e contrappone la grottesca potenza con la quale Alfred Kubin descrive il Concepimento della donna (1905) dallo sperma che il diavolo emette dal suo enorme fallo (a destra).
E poi: l’inferno delle fabbriche, che per Georges-Antoine Rochegrosse hanno ucciso «la porpora», la bellezza (1914; qui sotto); l’inferno della follia; l’inferno della guerra con L’avvoltoio carnivoro di Goya ripreso da Kubin in Europa (1916); l’inferno delle trincee, descritte in modo realistico e insieme simbolico da Percy Delfi Smith e Otto Dix nelle immagini dedicate al Grande Massacro, alla Prima guerra mondiale, oggetto anche dell’Inferno di George Leroux (1921), un impasto di argilla, carne, escrementi, cadaveri, fumo.

Che cosa mai dei diavoli potrebbero inventare di più malvagio di ciò che gli umani sono capaci di fare? Con tranquillo disincanto Schopenhauer afferma appunto che l’inferno non è qualcosa di diverso dalla nostra vita. Dovremmo forse riconoscere che l’origine e la forma del male stanno nel funesto demiurgo (Jehovah/יְהֹוָה) al quale si attribuisce la creazione dell’umano e del vivente.
Lucifero merita invece le parole di Giosuè Carducci e di Anatole France. Il primo così si esprime nel suo Inno a Satana (1863): «A te, de l’essere / Principio immenso, / Materia e spirito, / Ragione e senso. […] E splendi e folgora / Di fiamme cinto; / Materia, inalzati; / Satana ha vinto. […] Salute, o Satana, / O ribellione, / O forza vindice / De la ragione! // Sacri a te salgano / Gl’incensi e i voti! / Hai vinto il Geova / De i sacerdoti» (vv. 1-4 ; 165-168; 193-200). Il secondo, riprendendo tesi da sempre presenti nella vicenda religiosa e filosofica dell’Europa, scrive che il Dio biblico è in realtà Yaldabaoth, il demiurgo delle tradizioni gnostiche, «un tiranno ignorante, stupido e crudele», che non è affatto il creatore dei mondi ma è soltanto un’entità inferiore al divino, un facitore «ignorante e barbaro, che, essendosi impadronito di un’infima particella dell’Universo, vi ha sparso il dolore e la morte» ma che gli umani continuano ad adorare, per quanto infelici siano, poiché «è spaventoso per loro il solo pensiero di cessare di essere. […] Gli uomini adorano il Demiurgo che ha reso la loro vita peggiore della morte e la morte peggiore della vita» (La révolte des anges [1914], trad. di A. Baldasseroni, La rivolta degli angeli, Lindau, Torino 2017, pp. 99, 216 e 129).

La densa mostra romana si chiude sui versi finali della cantica dantesca: «E quindi uscimmo a riveder le stelle» (XXXIV, 139). A rivedere gli astri, le luci, le galassie, che si fanno movimento ed energia nelle riprese effettuate dal Telescopio Hubble nel 2014, una delle cose più belle e più vere della mostra. Più vere perché una spiegazione del male della vita che voglia rimanere razionale non può che essere spinoziana, materialistica, cosmica.
Per Spinoza il bene e il male non sono enti reali ma enti di ragione, sono relazioni con le quali delle menti particolari valutano ciò che a loro porta vantaggio e ciò che invece fa patire loro danno. Ciascun ente stia dunque «contento al quia», per dirla ancora con Alighieri (anche se in un significato che Dante non avrebbe accolto; Purgatorio, III, v. 37), al quia della propria identità spaziotemporale dentro il tutto, senza ambire a impossibili eternità per il singolo, che è un modo/elemento dell’eternità che nulla può scalfire o diminuire. Con grande chiarezza Spinoza sostiene che «bene e male o peccato non sono che dei modi di pensare e non delle cose aventi una reale esistenza […], poiché tutte le cose e le opere della natura sono perfette» (Breve Trattato su Dio, l’Uomo e la sua felicità, 6,9; trad. di A. Sangiacomo, in Tutte le opere, Bompiani 2011, p. 235).

Perfetto è il cosmo, perfetta la materia, perfetto è l’intero. «La materiatempo è perfezione libera da ogni sensibilità, malattia, angoscia, bisogno, risentimento, dolore. La realtà nella quale siamo radicati è fatta di vita e non vita, in un continuum di esistenze materiche dentro il quale i corpi viventi vengono poi accolti dentro la potenza metabolizzante degli elementi, delle radici vegetali, della terra. Vengono accolti nell’essere in quanto tale, che è energia, che è materia. Una potenza che viene prima e che rimane al di là di ogni parola e di ogni concetto. Tanto che solo un poeta-mistico ha forse potuto dirla con sufficiente chiarezza mostrando l’essere senza perché di una rosa, la quale ‘fiorisce perché fiorisce’. Lo ha detto Silesius. Lui e il suo maestro Eckhart hanno oltrepassato ogni individualità animale e ogni personalità divina, immergendo l’essere e la parola che lo dice nel flusso del tempo e nell’emanazione della luce, senza un perché» (Tempo e materia. Una metafisica, Olschki 2020, p. 146).
L’Inferno è la condizione di sofferenza e insecuritas del vivente ma la comprensione della luce oscura che è l’esserci «l’immersione in essa, redime dal suo niente e fonda la libertà dello gnostico: libertà dal male e dal bene, libertà da ogni autorità, libertà dalla speranza, libertà dal senso, libertà dal niente dentro il niente» (Ivi, p. 98).  

Realtà / Illusione

Peter Coveney – Roger Highfield
LA FRECCIA DEL TEMPO
Viaggio attraverso uno dei grandi misteri della scienza
(The Arrow of Time. A Voyage trough science to solve Time’s greatest Mystery [1990])
Trad. di Aldo Serafini
Prefazione d Ilya Prigogine
Rizzoli, 1991
Pagine 458

Tra i non pochi paradossi che attraversano la fisica contemporanea, il più profondo ed enigmatico è probabilmente quello della irreversibilità. Esso consiste nel fatto che a livello microscopico-atomico i processi sembrano reversibili mentre a livello macroscopico-fenomenico l’irreversibilità di tutti i processi ed eventi è assolutamente evidente.
La più parte dei fisici cerca di risolvere questo fondamentale paradosso ignorandone o sottovalutandone uno dei corni, mediante strategie riduzionistiche che pongono una gerarchia metafisica tra microcosmo e macrocosmo a favore del primo. Il mondo degli atomi e delle molecole sarebbe dunque la realtà e il mondo degli enti, degli eventi e dei processi sarebbe una mera illusione soggettivistica. Salta subito agli occhi che si tratta di un dispositivo platonico, che distingue due livelli di realtà contrapponendoli in modo irriducibile e optando per il meno visibile, il più astratto, il più lontano dall’esperienza.
Gli antichi platonici e i fisici contemporanei utilizzano a questo scopo il medesimo strumento concettuale: il formalismo matematico. Tra i tanti linguaggi possibili nella descrizione dei fenomeni, essi ne assolutizzano uno soltanto, quello dei numeri. Ciò che non è riconducibile a tale linguaggio non ha valore. E tuttavia «se facciamo ricorso a dei modelli ultrasemplificati che cedono alle forti seduzioni della matematica, rischiamo di trascurare tutta la ricchezza del mondo reale; in particolare, se spogliamo le cose di certi loro aspetti esteriori, che si suppongono opachi, per mettere in luce i lineamenti “fondamentali” sottostanti, ci esponiamo al pericolo di smarrire l’essenza stessa del tempo» (pp. 315-316).

A mostrare l’errore di quanti negano il tempo è una delle leggi fondamentali della fisica contemporanea: il Secondo Principio della termodinamica. Esso descrive il comportamento degli aggregati di molecole e mostra quanto sia fallace ogni tentativo di spiegare il mondo a partire dalle sue componenti microscopiche: 

Anziché affermare che la freccia del tempo è un’illusione, dovremmo chiederci se non siano proprio le leggi ‘fondamentali’, simmetriche rispetto al tempo, a costituire delle approssimazioni o delle illusioni. In fin dei conti, sembra che esse siano applicabili soltanto a sistemi estremamente semplici (349).

L’eleganza di alcune formule matematiche è spesso un fatto estetico e non epistemologico; la semplicità delle strutture microscopiche non garantisce nulla sulla reale dinamica dei più vasti aggregati che le comprendono. Una prospettiva volta all’invisibile e che a partire da quest’ultimo definisce illusorio il divenire e il morire costituisce un pericolo assai grave per la scienza stessa, poiché la allontana dall’esperienza concreta, quotidiana, fenomenica del mondo. La realtà è incomparabilmente più complessa rispetto a qualsiasi formalismo matematico. L’irreversibilità è la più importante e pervasiva struttura della materiamondo e questo fa sì che noi umani e ogni altro ente 

viviamo in un mondo nel quale il futuro promette infinite possibilità e il passato sta irrimediabilmente alle nostre spalle. La freccia del tempo ha un’importanza essenziale per mantenere l’integrità della scienza. È il concetto creativo che ci permette di capire la vita. Solo riconoscendo tutto questo possiamo cominciare a riavvicinare intellettualmente la nostra umana esperienza e le nostre conoscenze scientifiche (350).

Se dunque la meccanica classica, la relatività e la meccanica quantistica descrivono il mondo attraverso equazioni indifferenti al segno temporale -le quali non distinguono tra la direzione verso il passato e quella verso il futuro- il Secondo Principio dimostra che in qualsiasi processo una parte dell’energia si disperde per sempre e non può più essere recuperata. Questa perdita sta alla base della freccia temporale che intride tutti i fenomeni ed essa può essere misurata con precisione mediante una grandezza definita entropia, la quale stabilisce la capacità di cambiamento di un sistema macroscopico isolato. Il Secondo Principio afferma che tale grandezza aumenta sempre e che quindi «lo stato futuro di un qualsiasi sistema isolato ha un’entropia superiore a quella del suo stato presente o del suo stato passato» (379).
Finché un sistema è in una condizione di non equilibrio dinamico l’entropia cresce. Quando essa non può più aumentare, il sistema ha raggiunto il suo stato di equilibrio termodinamico e di immutabilità, vale a dire di massimo disordine. Esso non può più mutare. Tale condizione coincide con la fine di ogni mutamento e dunque, per gli enti che sono vivi, con la morte, «quando il cadavere in decomposizione alla fine diventa polvere. La vita consiste in una molteplicità di processi (dalla divisione cellulare al battito cardiaco, dalla digestione al pensiero), ognuno dei quali può svilupparsi perché è lontano da uno stato di equilibrio» (184).

Auto-organizzazione, caos e divenire sono le condizioni stesse del mondo, dato che esso non costituisce una struttura piatta e sempre uguale a se stessa ma coincide con il divenire e il mutare di tutti gli enti dentro i processi che li comprendono e che gli enti contribuiscono a formare. In fisica il caos non significa confusione ma un diverso modo di dare ordine al divenire mediante l’imprevedibilità e la casualità, e dunque mediante una maggiore ricchezza di eventi.
L’intrecciarsi di ripetizione e imprevedibilità, di reversibilità e irreversibilità, di identità e differenza produce strutture temporali che sono insieme lineari e cicliche; dimensioni entrambe fondamentali nella struttura del tempo. Il Secondo Principio non implica nessuna ‘morte termica’ ma consente quella vera e propria ‘evoluzione creatrice’ della quale ha parlato anche Bergson. Il ‘perfetto stato di equilibrio termodinamico’ è bilanciato infatti dagli effetti gravitazionali, i quali implicano -dopo un tempo molto lungo- l’innescarsi di nuovi processi di non-equilibrio, i quali allontanano il sistema da ogni uniformità/identità per distendersi invece nella molteplicità/differenza.
Perché tutto questo ha a che fare con la termodinamica, vale a dire con la scienza che studia i rapporti tra calore e lavoro? Perché a causa dei processi dissipativi «quando il calore si riconverte in lavoro, esiste sempre uno spreco di energia. Una parte di esso si disperde» e questo «implica che tutte le trasformazioni dell’energia sono irreversibili» (174) e che dunque i processi naturali sono temporali. La crescita dell’entropia coincide con la stessa struttura temporale che intesse la materia, con il suo movimento in avanti, con la netta ed evidente differenza tra il passato e il futuro degli oggetti, dei fatti, della coscienza intrisa di ricordi di quanto è già accaduto e di attesa di quanto deve ancora accadere.
Il Secondo Principio afferma dunque la piena realtà dell’esistenza di tutte le cose, che coincide con la loro struttura temporale, poiché senza l’irreversibilità gli enti non potrebbero neppure esserci ed essere concepiti; il Secondo Principio garantisce anche la plausibilità di uno dei fondamenti dell’intera fisica, compresa quella relativistica, vale a dire il principio di causalità. «Solo in un mondo irreversibile», infatti, «le cause sono diverse dagli effetti, in modo da rendere possibile una narrazione logica degli avvenimenti» (346).
Al di là della matematizzazione relativistica e della meccanica quantistica, la quale nega la realtà oggettiva di tutto ciò che non può essere misurato -rischiando così di cadere in una forma di solipsismo matematizzante-, la realtà esiste come tessuto spaziotemporale del quale i singoli enti sono forma ed espressione. «L’esistenza obbiettiva della freccia del tempo non può essere negata. Se quest’idea esige una revisione di alcune nozioni scientifiche tradizionali, ben venga questa revisione» (307). In effetti, prendere sul serio una tesi che nega l’esistenza del tempo sarebbe come prendere sul serio una tesi che nega che io esisto.
Il contributo più importante del Secondo Principio alla comprensione del mondo e della materia è il superamento di uno dei dualismi che impediscono di cogliere la radice unitaria della realtà, il dualismo tra reversibilità e irreversibilità. La prima appartiene alla dinamica, la seconda alla termodinamica ma esse 

sono due facce della stessa medaglia. […] La struttura generale del mondo è assai più ricca di quanto il nostro linguaggio sappia esprimere e il nostro cervello sia in grado di comprendere. […] Il paradiso è retto da equazioni dinamiche reversibili e ‘atemporali’: il loro carattere semplice ne garantisce l’eterna stabilità. L’inferno è più vicino al mondo reale, nel quale regnano le fluttuazioni, l’incertezza e il caos. È un mondo instabile, che degrada verso l’equilibrio e la morte (332-333). 

Un equilibrio e un morire che si aprono sempre a nuove rinascite, poiché la materia è eterna; la materia è incomparabilmente più complessa di quanto le nostre ipotesi, equazioni, principi possano intendere; la materia è senza un inizio e una fine; la materia è l’Intero.

[L’immagine rappresenta una zona della nostra galassia a 25.000 anni luce dalla Terra]

Il vuoto

Maurizio Consoli – Alessandro Pluchino
Il vuoto: un enigma tra fisica e metafisica
Aracne Editrice, 2015
Pagine 174

Tra i concetti più antichi, enigmatici, pervasivi del pensare, sempre attuali pur nel mutare delle concezioni fisiche e filosofiche, il vuoto si delinea sempre più come un altro nome dell’essere. Vuoto è infatti la condizione del movimento, del divenire, del tempo. Non soltanto nel banale e semplice senso che qualcosa per muoversi e diventare deve farlo in un elemento libero, spazialmente occupato e temporalmente non ancora compiuto ma anche e soprattutto in un significato assai più radicale, che questo importante libro indaga in una molteplicità di direzioni: dal rigore delle equazioni che intessono un intero capitolo (il settimo) ai riferimenti esatti e costanti alla storia della filosofia e alle tradizioni metafisiche orientali.
Il fecondo paradosso che attraversa tutto il testo è che il vuoto non è ‘vuoto’ ma consiste, usando il linguaggio della fisica contemporanea, nello «stato di minima energia» (p. 166); è il ground state, lo stato fondamentale che riempie uniformemente lo spazio e con il quale alla fine coincide. Il vuoto può dunque essere anche la forma oscura di materia ed energia che non è percepibile o misurabile (almeno con i nostri strumenti) ma che interagisce gravitazionalmente, determinando la struttura stessa della materia, la sua origine, il suo evolversi.
I nomi e le forme che questa potenza del vuoto ha assunto nelle differenti culture, tradizioni e paradigmi sono diversi, radicali e fondanti: l’ἄπειρον di Anassimandro, l’indifferenziato che consente l’esistenza e il dinamismo di tutti gli elementi nel tempo; la materia del Taoismo, dell’Induismo e del Buddhismo, non il mero nulla – anche qui – ma l’unità degli opposti; la χώρα platonica, «un elemento primordiale oscuro, informe ed invisibile» (p. 68); il Sein di Heidegger come trasparenza che fa vedere, attrito che fa muovere, intero che rende possibile la parte.
Un altro nome del vuoto è, infine, l’etere della millenaria tradizione fisica e metafisica, vale a dire la sostanza che pervade tutto l’universo e dentro la quale si muovono i corpi, compresa la luce. È sull’etere che questo libro formula ipotesi e propone interpretazioni di grande significato sia per la storia della scienza sia per l’epistemologia. Dall’indagine condotta in queste pagine emerge infatti come non sia vero che la relatività abbia definitivamente cancellato l’etere. Non soltanto perché, come si disse sin da subito, nella teoria einsteiniana dell’invarianza (o della relatività) l’etere continua a rimanere centrale prendendo il nome di spazio, ma per numerose altre ragioni sia sperimentali sia matematiche.
Lo stesso Einstein fu sulla questione molto più aperto di quanto di solito si pensi. Nel Manoscritto Morgan del 1920 e in una lezione tenuta a Leida  lo stesso anno, affermò infatti che «nel 1905 ero convinto che non fosse più permesso di parlare di etere in fisica. Tuttavia questa opinione era troppo radicale. Secondo la relatività generale, lo spazio è dotato di proprietà fisiche. In questo senso, un etere esiste…Si può perciò dire che l’etere è risuscitato nella teoria della relatività generale, anche se in una forma più sublimata. A differenza della materia ordinaria, esso non è pensabile come composto di particelle che possano essere seguite individualmente nel tempo» (qui citato alle pp. 100-101).
Consoli e Pluchino mostrano in modo documentato che se questa posizione non venne dallo scienziato tedesco ulteriormente sviluppata fu per ragioni che non hanno a che fare con la fisica ma con la sociologia della conoscenza e con la situazione storica della prima metà del Novecento. Di fatto oggi si assiste a un ritorno dell’etere «sotto altre specie, tramite la nozione di un condensato che pervade uniformemente lo spazio e fa da sfondo ai processi fisici osservabili. Peraltro […] il campo di Higgs non  è l’unica forma di etere che viene introdotta» (17).
Il vuoto non è il nulla, l’etere non è il nulla. Vuoto ed etere sono il vacuum condensation, la condensazione del vuoto, tanto che  diversamente «dallo spazio-tempo banalmente vuoto che Einstein aveva in mente nel 1905, il vuoto della fisica di oggi andrebbe piuttosto pensato come permeato da diversi condensati di quanti elementari» (140).
A partire da questa complessa e ricca fondazione epistemologica, Consoli e Pluchino conducono una duplice operazione: interpretano in modo diverso – rispetto alla vulgata – il significato e i limiti degli esperimenti di ottica effettuati da Michelson-Morley nel 1887; analizzano e riproducono tali esperimenti su base matematica. Mostrano in questo modo che i residui di quegli esperimenti – il cui obiettivo consisteva nell’osservare il moto della Terra nell’etere e stimarne la velocità – conducono a un valore di 370 km al secondo, che è esattamente quello confermato dallo studio della Cosmic Microwave Background (CMB, radiazione cosmica di fondo). La loro indagine suggerisce quindi di rivalutare alcuni elementi di quegli esperimenti che risultano compatibili con l’esistenza dell’etere, non riducendoli per intero a errori strumentali ma anzi mostrando che «possono anche essere consistenti con il modello stocastico di ether-drift che abbiamo discusso» (124). Si tratta di un risultato assai fecondo, dato che «riuscire a rivelare in laboratorio un ‘ether-wind’ (vento d’etere) finirebbe con il modificare sostanzialmente il nostro modo di concepire la realtà» (10).
I primi esperimenti di Michelson-Morley, e i numerosi che seguirono nei decenni successivi, se da un lato non diedero i risultati che ci si attendeva per poter confermare l’ipotesi dell’esistenza dell’etere, dall’altro diedero però dei risultati con essa compatibili. Riformulati con metodi matematici, questi risultati «differentemente dall’interpretazione tradizionale, che tende a considerarli come puri effetti strumentali, potrebbero invece acquistare un significato fisico ed indicare un debole flusso di energia, associato al moto cosmico della Terra, che induce correnti convettive in sistemi debolmente legati come i gas ed una conseguente leggera anisotropia della velocità della luce» (140-141). Ricordo che con anisotropia si indica quella proprietà per la quale il valore di una grandezza fisica dipende dalla direzione che il fenomeno studiato assume. Questo implica che un punto di riferimento conta nell’accadere e nei risultati del fenomeno studiato e che quindi siano possibili riferimenti assoluti.
Un altro elemento favorevole a questa ipotesi è una delle più interessanti interpretazioni della meccanica quantistica, vale a dire la teoria dell’onda-pilota di de Broglie-Bohm: «Nella sua formulazione più semplice, vengono introdotte due entità distinte: un corpuscolo materiale localizzabile ed un’onda che lo guida, la funzione d’onda Ψ che compare nell’equazione di Schrödinger. L’onda ha un diretto significato fisico ed andrebbe interpretata come una reale eccitazione di un etere sottostante, cioè del vuoto. Essa viene provocata dal corpuscolo ma, nello stesso tempo, lo ‘pilota’ nel senso che ne determina il momento spaziale P tramite la relazione P = −h∇S, dove S è la fase di Ψ = |Ψ|eiS» (164). In questo modo non soltanto si supera il dualismo onda/particella ma l’etere acquista lo stato di ipotesi ancora ben presente e ben plausibile all’interno della fisica contemporanea, un’ipotesi radicata nell’intera scienza e metafisica, non soltanto europee, e coerente con la meccanica quantistica.
L’etere può costituire l’ἄπειρον come campo/energia nel quale la materiatempo fluisce, si condensa, sta e accade. In termini generali, l’etere può rappresentare lo spaziotempo assoluto la cui esistenza non è affatto esclusa ma anzi è implicata da alcune delle teorie cosmologiche più recenti.
Il fatto che la meccanica quantistica conduca «a una visione della realtà come un tutt’uno profondamente interconnesso» (52) conferma il significato e la fecondità del pensiero greco arcaico, da cui matematica e fisica sono sorte e del quale – come si vede anche in questo libro appassionante – rimangono eredi.

Gli autori del libro – che si può scaricare in pdf – ne hanno scritto un altro, molto più tecnico, pubblicato nel 2018 in lingua inglese con la World Scientific.
Le loro ipotesi sulle relazioni tra l’etere e la radiazione cosmica di fondo erano state anche sintetizzate in forma semplificata e per un più vasto pubblico in un articolo in lingua italiana, inizialmente preso in considerazione da una rivista di divulgazione scientifica ma che poi per varie traversie non è stato pubblicato. Ne pubblico qui il pdf (con le mie evidenziazioni).
Si tratta di pagine che possono aprire un dibattito fecondo, anche nel caso si volesse respingere i loro contenuti. Significativa è la conclusione del testo, che indirizza alla questione della complessità. Se un articolo così fecondo non è stato ancora pubblicato è perché, oltre i meccanismi di censura e rifiuto analizzati magistralmente da Kuhn e Feyerabend, in questi casi agisce anche la consueta antropologia del branco, tesa a respingere i membri della comunità che mostrino troppo coraggio. Un coraggio che rischierebbe di mettere in pericolo l’identità e la forza della comunità stabilita. Insomma, che siano fisici, matematici, filosofi o altro, gli umani rimangono una comunità di primati. È bene che lo sappiano per non incorrere nella ὕβρις antropocentrica. Tanto più apprezzo chi, come Pluchino e Consoli, ha il coraggio e la curiosità di muoversi su territori non dogmatici e realmente scientifici.

[La fotografia raffigura il nostro pianetino, con la Luna che gli gira intorno, come si vede da Saturno;  a una distanza di circa un miliardo e mezzo di km, che corrispondono a 90 minuti luce]

Il tempo

La Jetée
di Chris Marker
Francia, 1963
Con: Davos Hanich, Hélène Chatelain, Jacques Ledoux
Trailer del film

La jetée è il ‘molo’ dell’aeroporto di Paris-Orly dal quale nei giorni di festa le persone si dilettano a vedere gli aerei partire (questo accadeva negli anni Sessanta, ora gli aeroporti sono luoghi militarizzati, inaccessibili a chi non vola). Mentre tutto sembra tranquillo, un uomo cade. Assiste alla scena un bambino che non comprende che cosa stia accadendo ma di quella scena ricorda la bellezza, il viso, la sorpresa di una donna. Molti anni dopo si è consumata una guerra nucleare, Parigi è distrutta, i sopravvissuti vivono nel sottosuolo. Alcuni di loro svolgono sui prigionieri degli esperimenti volti a trovare dei ‘cunicoli temporali’ che attraverso la psiche permettano di fuggire dal presente invivibile verso il passato di pace o il futuro di rinascita.
Il bambino del molo, ora adulto, è una cavia ideale perché ossessivamente concentrato su quel momento della sua infanzia e sul ricordo di quella donna. Ritorna quest’uomo infatti nel passato, riconosce la donna, la frequenta, lei sempre giovane e lui ormai adulto; una domenica la incontra su quella terrazza dell’aeroporto dove la vicenda ebbe inizio. Il cerchio della vita e degli eventi si stringe nella inevitabilità dell’accadere, nella dinamica profonda della memoria, nella struttura ritornante e implacabile della materiatempo.
Un film breve -mezz’ora circa-, che non è un film ma una sorta di cineromanzo dentro un bianco e nero angosciante e splendente. E che però è un film per la densità della narrazione, la forza della voce che descrive l’accadere, la potenza formale della tragedia che è l’esserci, il desiderare, il morire, il ritornare e poi ancora l’esserci, il desiderare, il morire, il ritornare.
Una guerra è questo mondo, πόλεμος πάντων μὲν πατήρ ἐστι (Eraclito), il cui Signore è il tempo. La guerra mirabile della materia cosmica che si condensa, diventa stelle, si raffredda in pianeti, si evolve esplodendo e lanciando la propria energia nello spaziotempo, ritornando così a essere polvere che si addensa a formare nuove stelle e le galassie che le raccolgono, si formano, si dissolvono e si riformano, per sempre.
Una meraviglia, la cui unica nota stonata è la sofferenza che chiamiamo ζωή, vita. Ma è talmente insignificante da non dovercene davvero preoccupare. Nell’αἰών, negli eoni del tempo infinito, a dominare è la luce, che è una cosa sola con l’energia e con la materia, che è la materia.

[L’immagine raffigura la Nebulosa Messier 27 (Dumbell Nebula)]

Materiatempo

Questo mese non presento un libro ma una voce tratta da quella fonte ricchissima di conoscenza, non sempre apprezzata come merita, che è l’Enciclopedia Einaudi. Opera pubblicata alcuni decenni fa ma dalla struttura fortemente innovativa, un’opera critica che ha ancora molto da insegnare. La voce che presento è stata redatta da Francesco Guerra e analizza due concetti -reversibilità e irreversibilità– fondamentali per ogni epistemologia e filosofia del tempo.

Francesco Guerra
Reversibilità / Irreversibilità
in Enciclopedia Einaudi
vol. 11, «Prodotti-Ricchezza»
Einaudi, 1980
Pagine 1066-1106

Un mondo «elementare» è quello nel quale è possibile la reversibilità della struttura temporale. Ed è soprattutto un mondo virtuale, formale, matematico. A questo tipo di mondo – evidentemente soltanto concettuale – si riferiscono infatti le leggi della dinamica, invarianti per inversione temporale. Appena la materia, il suo essere il suo ordinarsi il suo operare, divengono di pochissimo più complessi, tali leggi non valgono più. Questa voce dell’Enciclopedia lo dimostra in modo evidente proprio per la sua neutralità epistemologica. Basta infatti descrivere la realtà per come si dà nella materia formata e non nella materia pura delle leggi matematiche per comprendere che 

per tutti i processi fisici macroscopici irreversibili, come quelli legati ai fenomeni di attrito, di viscosità, di diffusione, di conduzione del calore, ecc., le corrispondenti leggi fenomenologiche non sono invarianti per inversione temporale. Così per esempio, l’attrito e la viscosità si oppongono sempre al moto dei corpi e al flusso dei fluidi e mai li agevolano, le sostanze in soluzione diffondono spontaneamente dalle zone a concentrazione più alta  verso quelle dove la concentrazione è più bassa e mai viceversa, se si pongono a contatto corpi a temperatura più alta verso quello a temperatura più bassa, mentre non accade mai che il corpo a temperatura più bassa si raffreddi ulteriormente cedendo spontaneamente calore a quello a temperatura più alta. Pertanto una ben definita unidirezionalità temporale può essere associata a tutti i processi macroscopici che coinvolgono fenomeni dissipativi (p. 1068).

Legata fortemente alla struttura della materiatempo è una misura che riguarda l’energia e le sue trasformazioni: l’entropia. Essa indica la misura delle trasformazioni spontanee che si verificano nella quantità di energia dentro un sistema sottoposto a un cambiamento termodinamico: temperatura, pressione, volume. L’entropia indica quindi l’aumento del disordine molecolare dentro un sistema chiuso. I cambiamenti entropici sono irreversibili (le molecole del caffè e quelle del latte una volta mescolate in un’unica tazza non torneranno mai al loro stato iniziale di separazione) e fanno del tempo non soltanto una funzione della mente ma anche e soprattutto una struttura della materia. L’unidirezionalità temporale è infatti

in ultima analisi connessa con una importante legge fisica, di validità generale, nota come legge di accrescimento dell’entropia, che può essere posta alla base del secondo principio della termodinamica. […] Anche i processi che avvengono nel nostro organismo, in particolare quello di memorizzazione, sono associati a un inevitabile incremento dell’entropia (Ibidem).

La memoria, certo, ma direi soprattutto i processi che chiamiamo invecchiamento e morire.

Si ha quindi in definitiva che la legge di accrescimento dell’entropia, in quanto legge fisica generale che traduce l’irreversibilità dei processi macroscopici, induce una differenza qualitativa tra eventi passati ed eventi futuri, che viene da noi interpretata come flusso direzionale irreversibile del tempo stesso. Si viene così a riconoscere che in ultima istanza il secondo principio della termodinamica, con la sua legge di accrescimento dell’entropia, deve essere considerato alla base della nostra concezione psicologica ed empirica del carattere irreversibile del tempo e quindi del concetto stesso generale di tempo anche nelle sue implicazioni storiche e filosofiche (Ibidem).

Se il primo principio della termodinamica afferma che in tutti i processi che avvengono in natura l’energia viene conservata, il secondo principio chiarisce e delimita il primo nelle possibilità e nella realtà delle trasformazioni. Tale principio

può essere basato o sulla trasformazione di Clausius, secondo cui non è possibile realizzare dispositivi in grado di trasferire calore da un corpo più freddo a un corpo più caldo senza che altri effetti siano prodotti, oppure dalla formulazione di Thompson (Lord Kelvin), secondo cui è impossibile costruire un perpetuum mobile di seconda specie, cioè un dispositivo che, funzionando in maniera ciclica, produca come unico effetto la trasformazione del calore estratto da una sola sorgente completamente in lavoro. Non è difficile mostrare l’equivalenza delle due formulazioni. Anche qui si osservi che, per esempio, la formulazione di Clausius, secondo cui non è possibile che il calore fluisca spontaneamente da un corpo più freddo a uno più caldo, introduce ancora una sostanziale irreversibilità nella descrizione temporale dei fenomeni (1075).

Proprio a causa della struttura dissipativa della materia e dell’energia, durante i processi di trasformazione da uno stato di equilibrio a un altro l’entropia non può diminuire ma può soltanto crescere oppure, quando non sono in atto processi, rimanere stazionaria.
Il divenire, il calore – e dunque l’energia -, l’irreversibilità sono strettamente collegati tra di loro. Si potrebbe dire che costituiscono la natura stessa, la struttura profonda del reale. Il ‘principio zero’ della termodinamica può infatti essere enunciato in questo modo: «Se due sistemi separatamente in equilibrio, isolati adiabaticamente dall’esterno (tali cioè che non possono scambiare calore con l’esterno), sono posti in contatto termico, allora i loro stati di equilibrio non sono alterati, e il sistema totale si trova in uno stato di equilibrio, solo se i sistemi iniziali hanno la stessa temperatura» (1074).
Un conflitto così grave tra le strutture reversibili delle leggi elementari microscopiche del moto e quelle irreversibili dei processi macroscopici dissipativi ha indotto molti fisici a cercare una soluzione che possa salvare entrambe le prospettive. A partire dall’opera fondamentale di Ludwig Boltzmann (1844-1906) la soluzione è stata individuata nel concetto di probabilità. Un concetto di carattere statistico per il quale i principi della termodinamica «non hanno validità assoluta e illimitata ma devono essere intesi come validi con altrettanta probabilità» (1069). In sintesi: «La reversibilità microscopica porta quindi ad un’altamente probabile irreversibilità macroscopica» (1095).
Domanda: ma che cosa c’è di così certo – e non di probabile – nel mondo come il semplicissimo fatto che un bicchiere andato in frantumi non si ricomporrà mai spontaneamente? Niente. E questo banale esempio si potrebbe naturalmente moltiplicare in una serie innumerevole di fenomeni e di eventi. Ma la legge di ricorrenza di Poincaré sostiene che basta aspettare. Vediamo: aspettare quanto? La risposta c’è e la si può formulare a partire appunto da Boltzmann e Poincaré:

È però importante notare che il tempo di ricorrenza nel caso di concreti sistemi termodinamici può essere estremamente lungo. Per esempio Boltzmann prese in considerazione un centimetro cubo di gas in condizioni normali di pressione e temperatura e valutò che il tempo che occorrerebbe attendere in media perché tutti gli atomi riprendano le loro posizioni iniziali, a meno di errori dell’ordine di un milionesimo di millimetro, e le loro velocità iniziali, a meno di errori dell’ordine di un metro al secondo, è dell’ordine di 1010 19 anni! (1093).

Il grassetto è mio e intende evidenziare l’enormità di un tempo inimmaginabile per un solo centimetro cubo di gas. E per l’intero universo, finito o infinito che lo si concepisca? Che cosa può diventare quel quel 1010 19 anni? Ecco, se la probabilità puramente matematica può diventare certezza empirica assoluta, questo è il caso.
Tali risultati confermano quanto Ilya Prigogine (Premio Nobel per la chimica nel 1977) e Isabelle Stengers scrivono nella voce «Semplice/complesso» di questa stessa Enciclopedia a proposito della questione fondamentale: il tempo.

In meccanica quantistica come in dinamica classica, il fascino della semplicità ha indotto più di uno studioso a fare dell’irreversibilità o della riduzione della funzione d’onda un’approssimazione in rapporto all’evoluzione reversibile.
La negazione del carattere fondamentalmente irreversibile delle evoluzioni fisiche si basa sull’esempio di sistemi idealmente semplici come la traiettoria dei pianeti o il pendolo perfetto, e costituisce l’esempio limite del disprezzo della fisica per l’insieme dei saperi che costituiscono la trama stessa dei saperi con i quali essa coesiste. […] Il fascino del semplice trascina al movimento assurdo del barone di Münchhausen che tenta di uscire da una palude tirandosi per i lacci dei suoi stivali. […]
Per poter porre la questione del tempo a partire da un formalismo che riconosce soltanto la possibilità di evoluzioni reversibili, è stato necessario smettere di considerare rappresentativi i sistemi semplici ai quali il formalismo è adatto, considerarli al contrario casi degeneri, casi eccezionali per i quali certe semplificazioni sono legittime – il dimenticarsi certe distinzioni che ci si permetteva ‘senza nemmeno pensarci’ – e cercare il limite di queste semplificazioni (vol. 12, pp. 725-726).

La consapevolezza che la reversibilità è soltanto un caso particolare della universale irreversibilità intrinseca alla struttura, al movimento, alla direzione della materia, è uno dei risultati fondamentali e fecondi delle scienze della complessità, tra le quali in primo luogo la termodinamica.
In conclusione: il concetto di reversibilità è valido per alcune esperienze apparentemente ricorrenti nelle stesse forme, per il resto è una pura costruzione matematica che in natura non corrisponde a nulla. La ragione è che anche le sfere (ad esempio quelle planetarie e stellari) che le leggi della dinamica immaginano reversibili nel loro moto, anch’esse si usurano per il loro andare e venire in una realtà materica e non soltanto formale, anch’esse sono soggette a processi dissipativi e quindi non torneranno mai esattamente come erano nel processo precedente ma sempre un poco modificate. Vale per le sfere del biliardo, vale per i pianeti e per le stelle, che infatti pur nel loro meraviglioso ordine matematico del moto sono destinate a spegnersi e a dissolversi.
Sostenere che l’irreversibilità è in termini matematici solo altamente probabile, e che quindi il tempo e la sua freccia non sono realtà assolute, è il più grande tributo della mente umana e di parte della fisica moderna all’ontologia matematizzante di Pitagora e di Platone. Ma è un errore.

[La foto raffigura il cosiddetto triangolo estivo, formato da tre magnifiche stelle: Vega in alto, Deneb a sinistra e Altair a destra; sullo sfondo alcune nebulose della Via Lattea]

Una metafisica

Tempo e materia. Una metafisica (Olschki, 2020, pagine X-158) è il volume che completa la tetralogia che ho dedicato al Tempo. Iniziata con La mente temporale. Corpo Mondo Artificio (2009), proseguita con Temporalità e Differenza (2013) e Aión. Teoria generale del tempo (2016), tale indagine ha dato senso e pienezza alla mia vita di studioso e di uomo. Questo libro coincide dunque con l’ακμή dell’esistere. Un ringraziamento profondo va a coloro che in tanti modi hanno reso possibile questo tentativo di comprendere l’essere, la verità, il tempo.

Il libro sul sito dell’editore Olschki

Pdf con copertina, frontespizio, epigrafi, indice

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