Friedrich Dürrenmatt
Il sospetto
(Der Verdacht, 1953)
In «Romanzi e racconti», a cura di Eugenio Bernardi
Traduzione di Enrico Filippini
Einaudi-Gallimard, Torino 1993
Pagine 93-189
Nell’autunno del 1948 il commissario Bärlach e il suo amico Dottor Hungertobel osservano su un numero di Life la foto di un medico nazionalsocialista che operava senza narcosi i prigionieri del lager di Stutthof.
Hungertobel impallidisce perché gli sembra di riconoscere un collega che ha studiato con lui, ma subito distoglie il sospetto che invece per Bärlach, e in base ai racconti dell’amico, diventa sempre più plausibile. Per verificare la giustezza o meno di questa improbabile ipotesi, il commissario si fa trasferire nella lussuosa clinica di Zurigo dove il collega di Hungertobel adesso lavora. Il suo nome è Emmenberger, anche lui di Berna, come Bärlach. Nel tentativo di confermare il proprio sospetto, tuttavia, il commissario osa troppo e il soggiorno nella lussuosa clinica Sonnenstein diventa sempre più inquietante, sino a esiti imprevisti.
Questa drammatica, tesa, dolorosa trama fa da occasione per una riflessione tragica e implacabile sugli uomini e sulla storia, sul potere che protegge i criminali, i grandi criminali, su «questo pianeta maledetto da dio» (p. 116), su «un dio che è capace di infliggere le pene dell’inferno» (115), sulla vana speranza che il sadismo della specie e della vita possa essere fermato, sui «vagabondaggi attraverso il mare insanguinato dell’assurdo di quest’epoca» (121) ma in realtà di tutte le epoche, sulla fede che la giustizia abbia sempre senso e però sulla constatazione che, sconfitto in un luogo e in un tempo, il male possa «ricomparire come una lebbra altrove, con altri torturatori e sotto altri sistemi politici, per riemergere dalla profondità dell’istinto umano» (122).
Così infatti, con queste ultime esatte parole, si potrebbe descrivere ciò che i torturatori di ieri sono diventati nell’inesorabile sadismo di chi ritiene sia giusto, equo, dovuto, far morire di bombe, di proiettili e di fame i palestinesi nella ‘Terra promessa’. Il male riemerge nella desolazione delle vittime palestinesi che probabilmente non avranno un narratore della loro tragedia capace come Dürrenmatt di trasformarli in un simbolo della sofferenza universale.
Vediamo infatti, in un crescendo di angustia e di orrore, il commissario trasformarsi da «malato impenetrabile come la statua di un idolo […] che ora tesseva impassibile la sua tela come un ragno gigantesco» (132), trasformarsi in un povero scheletrico corpo, un corpo prigioniero e alla mercé di un uomo crudele e convinto della legittimità della propria ferocia, delle torture che ha inferto e che infligge.
La fiducia di Bärlach nella «lotta contro la stupidità e contro l’egoismo degli uomini» (136) vacilla di fronte al gelo, alla potenza e alla determinazione del medico delle SS Emmenberger, l’uomo-inferno, l’«alito del nulla» (141), l’emblema del potere che si fa legge a se stesso e agli altri.
Emmenberger è – alla fine – soltanto figura di «un universo spaventoso di vuoto, spaventoso di pienezza, una dissipazione senza senso» (159). Sarebbe già una grazia, e una luce, poter «uscire dal nulla e vivere» (162), una grazia che i nati gettati nell’esistenza e dunque nel nulla non potranno ricevere, gustare, godere.
Il nulla sembra il vero argomento di questo giallo ancora una volta finto, che invece è una meditazione metafisica nella quale il personaggio che incarna il Male pronuncia parole di grande saggezza e sapienza, salvo poi precipitare nel banale baratro di deduzioni insane e folli.
Emmenberger afferma infatti di credere
nella materia, che è contemporaneamente forza e massa, un tutto non rappresentabile e insieme una sfera che si può delimitare, che si può toccare come la palla con cui giuoca un bambino, la palla su cui viviamo e sulla quale corriamo attraverso il vuoto assurdo dello spazio; credo in una materia (com’è meschino e vuoto dire, invece: credo in un dio!), che è tangibile sotto forma di animale, di pianta, di carbone, e inafferrabile, imprevedibile sotto forma di atomo, una materia che non ha bisogno di alcun dio, né di qualcosa del genere, e il cui unico incomprensibile mistero è l’essere. E credo di essere una parte di questa materia, atomo, forza, massa, molecola (179).
Da questa lucida metafisica di impianto democriteo e spinoziano il medico conclude però scioccamente e contraddittoriamente che la sua esistenza come parte della materia infinita gli «dia il diritto di fare ciò che voglio» (Ibidem).
Il vero crimine che genera tutti gli altri, che produce le azioni di Emmenberger, sta in tale immotivata e del tutto contraddittoria deduzione, che dall’essere parte profonda e partecipe di un intero si fa poi separazione, diventa una volontà piccola e malvagia (ma potrebbe essere anche ‘buona’, metafisicamente non fa differenza) solo allo scopo di giustificare e legittimare la propria malattia esistenziale, il proprio essere insano, alla fine la propria certezza che non ha più nulla di ideologico e molto invece di demente.
La narrativa di Dürrenmatt racconta in ogni sua opera tale demenza al modo di una malattia orribile e sacra.
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