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La linea d’ombra

Joseph Conrad
La linea d’ombra. Una confessione
(The Shadow Line, 1917)
Trad. di Gianni Celati
Mondadori-Bibliotext, Milano-Barcellona 2002
Pagine 159

La linea d’ombra oltre la giovinezza. Il tempo, gli eventi, l’occasione che allontanano un umano dalla sua inquieta lievità di ragazzo per regalargli il dolore del mondo, la sua complessità, l’enigma.
Dopo aver lasciato la nave sulla quale come ufficiale si era trovato benissimo – ma che non gli dava più soddisfazione – il protagonista decide di tornare in patria. Nell’attesa, riceve l’imprevedibile proposta di diventare lui il capitano di una nave. Non ci aveva mai pensato, neanche lo immaginava, ma quando esce dall’ufficio nel quale ha firmato il contratto con gli armatori e con la capitaneria di porto descrive se stesso con azioni e pensieri che possono essere nominati tramite una sola parola: gioia.
Dalla sensazione provata poche ore prima – l’«oscuro sentimento della vita come uno spreco di giorni» (p. 34) – transita alla «potente magia» del comando di una nave (41). Primo comando era infatti il titolo con il quale Conrad aveva in un primo tempo immaginato questo suo romanzo. La gioia, quindi, la gioia che lo conduce a «fluttuare» per le scale, a continuare a fluttuare per la strada, in un «profondo distacco da tutte le forme e i colori di questo mondo. Distacco che era, per così dire, assoluto» (49). Indifferenza a tutto il resto, esultanza, attesa di una nuova vita, sono i sentimenti che lo invadono.
Accetta dunque con slancio la proposta di raggiungere la sera stessa la nave che gli era stata assegnata e che era ancorata, dopo la morte del precedente capitano, in un altro porto. Il narratore vive «un momento delizioso e unico» nel pensare «una nave! La mia nave!», provando «un tal sentimento d’intensità dell’esistenza» (55) da poter essere indicato con una parola non inglese, non italiana, con la parola di una lingua apparentemente morta e invece vivissima: καιρός, la pienezza dell’istante nel quale l’eterno sembra condensarsi; parola che la teologia paolina e cristiana ha tradotto con Grazia.
Ma la grazia viene dopo il peccato, la grazia redime dal peccato. Qui essa è arrivata invece prima. Non un peccato morale, naturalmente, ma un destino è quello che accoglie il da poco nominato capitano. Il destino di una nave in ottime condizioni, con un equipaggio disciplinato, attento e competente. Con un cambusiere/cuoco eccellente e con il solo primo ufficiale a compensare tutto questo con la stranezza di una sua irrazionale convinzione, quella che il precedente capitano fosse un individuo malvagio dalla testa ai piedi e che avrebbe cercato di danneggiare in tutti i modi la nave e i marinai anche da morto.
Il nuovo capitano non crede, giustamente, a simili fantasie, davanti alle quali dice a se stesso e riferendosi al primo ufficiale che «perfino sul mare, un uomo poteva cadere in preda agli spiriti del male» (79). Quegli spiriti, quella casualità, quella necessità che dopo l’uscita della nave in mare aperto la fermano a lungo, vittima delle «potenze malefiche della bonaccia e della pestilenza» (108). Potenze che sembrano far andare l’imbarcazione alla deriva nella calma più assoluta dei venti e nella impossibilità di curare l’equipaggio con il chinino, che qualcuno prima della partenza aveva sottratto, mantenendo apparentemente intatte le confezioni.
Nessun alito di vento, il mare diventato solido, lo spuntare del sole e il suo tramontare come un meccanismo tanto regolare quanto insensato, le stelle sempre uguali, sempre uguale un’isola del vasto arcipelago dalla quale la nave è incapace di allontanarsi.  Sembra davvero impossibile sottrarsi «alla tremenda impressione» di «un’atmosfera avvelenata» (105), dentro la quale «ognuno era solo là ove si trovava» (136).
Il capitano aveva già imparato, delle tante cose che deve apprendere un uomo, «che l’umana natura non sia cosa bellissima sotto tutti gli aspetti» (37). Ma ora il trascorrere di giorni che non trascorrono, le notti afose nel buio più profondo, l’essere lui e i suoi uomini immersi in una potenza inscalfibile e oggettiva fatta di «stelle, sole, mare, luce, oscurità, spazio, vaste acque», rende palese, rende chiaro, rende evidente che dentro «l’opera formidabile della Creazione sembra che l’umanità sia capitata per sbaglio, non desiderata. Oppure caduta in trappola» (118), precipitata nel cuore di tenebra dell’esistenza.
Come Hearth of Darkness, anche The Shadow Line è una meditazione che scaturisce dall’interno del mondo e del pensiero, sgorga dalla potenza esplicativa della Gnosi, si genera dalla conoscenza che guarda il mare di tenebra, la Medusa, ma non se ne fa pietrificare. Si trasforma invece in parola che salva, in Λόγος.

Un lupo di mare

A Salty Dog
Procul Harum (1972)

L’Art Rock trova in questo brano il suo capolavoro. La ballata del vecchio marinaio di Coleridge diventa una sinfonia che nella versione dal vivo eseguita nel 2006 in Danimarca ha proprio le dimensioni e l’aspetto di un concerto di musica classica.
È un brano che nella sua ampiezza abbracciante il cosmo ha qualcosa di profondamente malinconico, come un rimpianto per ciò che di bello e grande la vita avrebbe potuto offrire e che invece non ha dato. Il testo esprime una delle più antiche metafore dell’umana esistenza, un viaggio nell’ignoto, dal nulla verso il nulla, o anche dalla luce verso la luce.

All hands on deck, we’ve run afloat,
I heard the Captain cry.
Explore the ship, replace the cook,
Let no one leave alive.
Across the straits, around the horn,
How far can sailors fly?
A twisted path, our tortured course
And no one left alive.

We sailed for parts unknown to man,
Where ships come home to die.
No lofty peak, nor fortress bold,
Could match our captain’s eye.
Upon the seventh seasick day,
We made our port of call.
A sand so white, and sea so blue,
No mortal place at all.

We fired the guns, and burned the mast,
And rowed from ship to shore.
The captain cried, we sailors wept,
Our tears were tears of joy!
Now many moons and many Junes,
Have passed since we made land.
A Salty Dog, the seaman’s log,
Your witness, my own hand.

***************

Tutti sul ponte, siamo riusciti a stare a galla,
Ho sentito il Capitano piangere.
Setaccia la nave, rimpiazza il cuoco,
Che nessuno se ne vada vivo.
Oltre lo stretto, oltre il Capo,
Quanto lontano possono volare i marinai?
Un percorso tortuoso, il nostro percorso tormentato,
E nessuno è rimasto vivo.

Abbiamo navigato verso luoghi sconosciuti all’uomo,
Dove le navi tornano a casa per morire.
Nessuna vetta alta, né fortezza ardita
Potrebbe eguagliare l’occhio del nostro capitano.
Nel settimo giorno di mal di mare,
Abbiamo fatto scalo.
Una sabbia così bianca e un mare così azzurro,
Nessun luogo mortale.

Abbiamo sparato con i cannoni e bruciato l’albero maestro,
E remato dalla nave alla riva.
Il capitano piangeva, noi marinai piangevamo,
Le nostre lacrime erano lacrime di gioia!
Ora molte lune e molti mesi di Giugno,
Sono passati da quando abbiamo toccato terra.
Un Lupo di Mare, il diario di bordo del marinaio,
Il tuo testimone, la mia mano.

(Traduzione di Guido Carosella)

Parthenope

Il tempo scorre accanto al dolore
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
7 novembre 2024
pagine 1-4

L’epigrafe è tratta anche stavolta da Céline, come accaduto per La grande bellezza: «Certo che è enorme la vita. Ti ci perdi dappertutto».
In questo film, come nell’esistenza, non ci si può che perdere poiché la poetica di Sorrentino è fatta di primi piani e insieme di immagini che si aprono al cielo e alla terra sconfinati, è fatta di fotogrammi tra di loro irrelati ma intensissimi, è fatta di salti onirici e di accadimenti grotteschi e surreali. Una poetica che qui vuole raccontare ciò che non è possibile dire.
Parthenope è infatti un film impossibile poiché ha l’intenzione e l’ambizione di svelare l’essenza della donna e l’essenza di Napoli. Due entità non svelabili, incomprensibili sempre, avvolgenti e tremende, tenere e cupe, carnali e astratte. Barocche.

Sempre su Il Pensiero Storico è uscita ieri (10.11.2024) una sapiente riflessione del suo direttore, Danilo Breschi, la quale affonda nel mito e restituisce il film nel profondo: Napoli si mostra anfibia allo sguardo di Sorrentino. Alcuni amici napoletani hanno invece stroncato l’opera pur riconoscendone il valore formale.
Per chi, come me, ritiene che l’arte cinematografica sia pura forma, questo film la incarna perfettamente ma comprendo che possa anche apparire da altre prospettive un film insostenibile. Come scrive Giuseppe Frazzetto, in un articolo che coglie per intero la dimensione teorica di Parthenope, «molti ne sono affascinati, mentre altri lo giudicano arrogante, perfino repellente. Ma non è il destino di ogni teoria, di ogni sequenza di sguardi punti vista trasalimenti intuizioni, neutre o discorsive, costruite o irrazionali?» (Sequenza per Parthenope, in segnonline, 29.10.2024).

Palermo 2024

Di tanto in tanto ho occasione di recarmi a Palermo, cosa che mi dà molta gioia. Si tratta infatti di una tra le più belle e contraddittorie città d’Europa, nella quale convivono fianco a fianco – praticamente strada accanto a strada – lo splendore di chiese, cattedrali, palazzi normanni e barocchi e la miseria di quartieri che sembrano essere stati appena bombardati. Uno di questi quartieri è stato da poco riqualificato. Si tratta della Marina, che ha al centro il Castello a mare; zona che per decenni è stata un insieme disordinato e sporco di macerie e che adesso scandisce tra la città e il mare uno spazio aperto, con specchi d’acqua, passeggiate, negozi. 

Tutto è nuovo e pulito ma trasmette una sensazione invincibile di artificiosità, lo spazio essendo stato riempito soprattutto di bar e ristoranti sin troppo alla moda. In ogni caso si tratta di un piccolo tratto di un fronte a mare assai più esteso, che richiederebbe non interventi cosmetici ma un vero ripensamento della città e del suo rapporto con il mare. Richiederebbe anche risorse finanziarie che i decisori politici nazionali preferiscono utilizzare in grande quantità per finanziare guerre e armi (nonostante la lettera e lo spirito dell’articolo 11 della Costituzione Repubblicana).
Altre strade di Palermo, che erano prestigiose e piacevoli, sono cadute nel degrado. In via Roma, l’arteria rettilinea che collega la Stazione centrale ai quartieri a ovest della città, un negozio su tre ha chiuso; saracinesche sprangate dappertutto; molti tra i negozi sopravvissuti sono drogherie venditutto, piene di ciarpame turistico. Sono locali gestiti per lo più da asiatici e da africani. Malinconia e sporcizia dappertutto.
Ma nelle stradine parallele e perpendicolari a via Roma pulsa ancora una città vera. In una piazzetta accanto a via Gagini un libraio accatasta tra il negozio e l’esterno 70.000 libri e riviste sugli argomenti più diversi. La qualità è bassa ma la passione del titolare e il fatto che si offrano e si acquistino libri di varie epoche regalano un sorriso.
Palermo è anche il manufatto edilizio incomprensibile che si vede qui sotto e che si trova nel Vicolo della neve all’alloro, una struttura che sembra nascere e finire nel nulla. E Palermo – come si vede nell’immagine di apertura – è anche un insieme armonioso di palme, rovine, castelli, mare e navi. Tutto insieme.

Qui sotto l’ingresso di Palazzo Steri, sede del Rettorato dell’Ateneo del quale sono stato di recente ospite per conversare su temporalità e metamorfosi con Salvatore Tedesco, Chiara Agnello, Rosaria Caldarone, Peppino Nicolaci e altri amici nella magnifica sede dell’Orto Botanico dell’Università. 

Una quantità innumerevole di specie vegetali e animali occupa gli ettari di questo luogo. Come viventi, la loro trasformazione è continua. Ma anche le pietre, i palazzi, i quartieri vivono una incessante metamorfosi. Perché, impalpabile e sfuggente, il tempo è motore della corruzione e della fine e anche per questo è l’adesso e l’ovunque, «il tempo sembra essere presente in ogni cosa, sulla terra e nel mare e nel cielo» (Aristotele, Phys., IV, 223a). Realtà e metamorfosi sono la medesima struttura, come le città mostrano agli occhi e alle gambe di chi dentro esse cammina.

«Dentro più dentro dove il mare è mare»

Giovedì 18 maggio 2023 alle 16.00 continueremo a dialogare sull’opera di Stefano D’Arrigo.
Nella sede del Centro Studi di Catania, l’Associazione Studenti di Filosofia Unict (ASFU) organizza infatti il secondo incontro del ciclo dedicato all’autore di Horcynus Orca.
A parlarne saremo io e il Prof. Fernando Gioviale, profondo conoscitore di D’Arrigo, al quale ha dedicato un libro pieno di dèi: Crepuscolo degli uomini. Attraverso D’Arrigo in un prologo e tre giornate.
Horcynus Orca è anche la saggezza millenaria della vanità di ogni cosa, «il mare della Nonsenseria», «un mare lordo di fere nell’inutilità di tutto», un mare che c’era prima degli umani, che rimarrà quando degli umani si sarà persa ogni memoria, un mare che continuerà a diventare ciò che è, ciò che è sempre stato: sostanza e metafora della morte.
Il romanzo di D’Arrigo si chiude nel segno da cui era nato, che lo intesse e lo rende esteticamente sublime, proprio nel senso kantiano di qualcosa che attira e che spaventa, che sgomenta perché attrae, che coinvolge perché spaura. «La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro più dentro dove il mare è mare».

 

 

Il caso Horcynus Orca

Anche quest’anno l’Associazione Studenti di Filosofia Unict (ASFU) organizza un ciclo di incontri dedicato a Filosofia e Letteratura.
Dopo Proust (2018), Dürrenmatt (2019), Gadda (2020), Céline (2021) e Manzoni (2022) quest’anno leggeremo Stefano D’Arrigo, i suoi due romanzi.
Il primo incontro si svolgerà giovedì 27 aprile 2023 alle ore 16.00 presso il Centro Studi di Via Plebiscito, 9 a Catania. Cercherò di presentare la figura di D’Arrigo e il peculiare luogo che occupa nella letteratura contemporanea italiana ed europea.
«Certe cose, ci diciamo qualche volta, possono succedere solo nei romanzi» si afferma in Cima delle nobildonne. E quello che succede in Horcynus Orca sembra accadere nello spazio profondo del mare e del mito. È vero ma in questo romanzo ad accadere siamo noi, con il nostro andare nel tempo e con la nostra morte. Horcynus Orca è un romanzo omerico e heideggeriano. La lingua che lo intride è antica, espressionistica, avvolgente e lontana.

D’Arrigo

Il mare e la morte nell’opera di Stefano D’Arrigo
in Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre-ottobre 2022
pagine 147-151

Indice
-Il mare, la morte
-Omero / Heidegger
-L’Orca, la materia
-La potenza della femmina
-Un lessico arcaico, splendente e magico
-Il mare della Nonsenseria

Dentro le spire dello spazio e i gorghi del tempo; dentro una lingua antica, espressionistica e lontana, «quell’isola macerata e persa, la Sicilia» ha generato lungo i secoli eventi, parole e umani sorridenti e solitari. Alla fine ha generato il mare, ha generato la morte. La morte e il mare che sono la stessa cosa, il secondo rende visibile la prima.
Alla fine la Sicilia ha generato l’Orca di Stefano D’Arrigo, emblema fisico e materico dell’essenza del vivente, che è appunto il morire, il quale comincia sin dal primo istante dello stare al mondo.
Horcynus Orca è un romanzo omerico e heideggeriano. Omerico per il mare e per i nomi, per la struttura epica che tutto lo pervade, perché romanzo marino e occidentale. Romanzo heideggeriano perché incentrato sull’«essere che passa per la Morte», sulla morte come necessità del vivente e destino cosmico.
Horcynus Orca è soprattutto una macchina linguistica che senza requie inventa la propria strada e la percorre con gli strumenti della parola, delle parole inventate, ricreate, rese una cosa sola con il reale. Un lessico arcaico, splendente e magico nel quale un siciliano ritrova suoni, verbi, avverbi, aggettivi della propria storia, quali: incantesimato, scandaliare, pìccio, per la madosca, tappinara, nisba; nel quale i costrutti e il vocabolario sono a ogni pagina inventati, creati, reinventati, metabolizzati, metamorfizzati. Parole dentro le quali si sprofonda: «La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro più dentro dove il mare è mare».

[La foto di D’Arrigo è di Ferdinando Scianna (1988)]

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