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Tucidide

[Data l’ampiezza un poco inusuale del testo, e per una lettura più comoda, ne ho preparato anche una versione in pdf]

Le ragioni per le quali l’opera di Tucidide ateniese «è un possesso che vale per l’eternità»1 sono numerose e assai chiare allo stesso Tucidide. Motivi che si riassumono nella conoscenza dell’umanità, in una antropologia lucida, disincantata, amara. Lo scrittore sa che gli eventi futuri somiglieranno a quelli passati, saranno simili agli eventi che lui stesso ha visto e che appunto intende narrare. E lo saranno perché tutti gli umani, sia nella vita pubblica sia nelle esistenze private, «son portati a far male» (III, 45; p. 1112); perché «in genere l’uomo è portato dalla sua natura a disprezzare chi lo rispetta e ad aver timore di chi non cede» (III, 39; p. 1108); perché le sciagure avvengono «e sempre avverranno finché la natura umana sarà sempre la stessa, ma più gravi o più miti e differenti nell’aspetto a seconda del mutare delle circostanze» (III, 82; p. 1137). Sciagure che si moltiplicano in qualità e quantità poiché «giudicando più secondo i loro incerti desideri che secondo una sicura preveggenza […] gli uomini sono soliti affidare a una speranza sconsiderata ciò che desiderano e a respingere con incontrastabili ragioni ciò che aborrono» (IV, 108; p. 1238).

Fu anche questo diffuso wishful thinking a far transitare i Greci dal comune trionfo ‘contro il Medo’, contro i Persiani invasori, all’autodistruzione in una guerra interna, una guerra civile di Greci contro altri Greci le cui ragioni erano già implicite nella vittoria sui Persiani e che crebbero a poco a poco quando la potenza di Atene non seppe più frenare e fermare le sue sempre più evidenti tendenze imperiali. Iniziò allora un conflitto esteso di isola in isola, di terra in terra, di città in città. Conflitto nel quale le ragioni  di dissidio interne a ogni πόλις si univano al timore di essere resi schiavi da altre città o alla speranza di rendere altre città sottomesse. Uno stato di guerra feroce come sono tutte le guerre civili; scontri che «devastarono la terra» (III, 79; p. 1135) e che condussero a «ogni forma di strage; piombati su una scuola di fanciulli, la più grande del luogo, in cui i fanciulli erano entrati da poco, li fecero a pezzi tutti quanti» (VII, 29; p. 1427). Chi siano gli autori di questa specifica strage, in questo caso i Traci alleati degli Ateniesi, e chi siano le vittime, in questo caso gli abitanti di Micaleso in Beozia, ora – nel XXI secolo – non ha molta importanza. Ma cambiando i nomi e i luoghi dei massacratori e dei massacrati emerge con evidenza la costanza nel tempo del male umano.

La guerra infatti, ogni guerra, «non procede affatto secondo norme stabilite, ma da sé escogita per lo più i mezzi adatti all’occasione» (I, 122; p. 978). Guerre scatenate per conquistare città e denaro e dunque non adducendo giusti motivi dei quali non c’è bisogno ma prevedendo sicure utilità; guerre dichiarate per antichi torti subiti e vendette da ottenere; guerre spesso iniziate per impedire attacchi ritenuti sicuri, guerre dunque ‘preventive’, e guerre decise perché semplicemente ed esplicitamente si sa di essere più forti degli avversari.
Questo è il significato del celebre colloquio intercorso tra gli Ateniesi e i Meli, durante il quale i primi dichiarano con una sincerità che le potenze contemporanee non hanno (e anche questo le rende peggiori), «chi è più forte fa quello che può e chi è più debole cede» (V, 89; p. 1321). «Noi crediamo infatti che per legge di natura chi è più forte comandi: che questo lo faccia la divinità lo crediamo per convinzione, che lo facciano gli uomini, lo crediamo perché è evidente. E ci serviamo di questa legge senza averla istituita noi per primi, ma perché l’abbiamo ricevuta già esistente e la lasceremo valida per tutta l’eternità, certi che voi e altri vi sareste comportati nello stesso modo se vi foste trovati padroni della nostra stessa potenza» (V, 105; p. 1325).

I frutti di questa convinzione imperialista non tarderanno ad arrivare e saranno la rovina di Atene. I pericoli di ogni atteggiamento e pratica imperialisti sono infatti piuttosto evidenti. Atene si rese sempre più nemica dei Lacedemoni/Spartani, e di altri meno attrezzati avversari, già con il suo stesso diventare una potenza politica, strategica, militare, economica. Tale crescita mise infatti sull’avviso tutti coloro che non intendevano sottomettersi senza resistere a una potenza egemone. Si aggiungeva un disprezzo verso i non ateniesi che diventava sempre più palese e soprattutto di una ὕβρις, una tracotanza per la quale «gli Ateniesi pensavano che niente avrebbe dovuto opporsi ai loro piani, ma che avrebbero dovuto compiere le imprese possibili come quelle difficili, con preparativi sia grandi che insufficienti» (IV, 65; p. 1207). Neppure la peste ferma Atene. Una peste terribile, descritta da Tucidide con un’efficacia che fa da modello alle pagine di Lucrezio, di Boccaccio, di Manzoni: «L’aspetto della pestilenza era al di là di ogni descrizione: in tutti i casi il morbo colpiva con una violenza maggiore di quanto potesse sopportare la natura umana» (II, 50; p. 1038), tanto che «piombati in una tale sciagura, gli Ateniesi ne erano schiacciati, mentre gli uomini morivano dentro la città e fuori di essa la terra veniva devastata» (II, 54; p. 1041).

Ma neppure da tale sciagura gli Ateniesi vennero dissuasi ad aprire un nuovo fronte, che risulterà per loro fatale. Al conflitto continentale contro Sparta aggiunsero infatti una spedizione contro Siracusa e contro la Sicilia , impresa che sarà rovinosa. Nel racconto della guerra nell’Isola credo che Tucidide abbia toccato il culmine della propria sapienza antropologico-politica e dell’arte di scrittore.
«Questo esercito fu celebre non meno per lo stupore che suscitava la sua audacia e per lo splendore che suscitava alla vista, che per la superiorità delle sue forze rispetto a quelle del nemico che andava ad attaccare, e per il fatto che intraprendeva una traversata a grandissima distanza dalla patria, con la speranza di un potentissimo futuro rispetto alla condizione presente» (VI, 31; p. 1355). E però il risultato di tanta potenza, di un simile splendore politico e militare fu una serie di disastrose sconfitte, di «gemiti e grida»  mentre i soldati «ormai badavano a se stessi e a come salvarsi» (VII, 371; p. 1459), ben lontani dagli auguri e dai peana con i quali erano partiti e invece «vinti completamente in tutto, senza subire nessuna sventura di scarso rilievo in nessun campo, in una distruzione completa» (VII, 87; p. 1472).

A spingere i cittadini di Atene a tale catastrofe fu anche e specialmente il giovane Alcibiade, assai ricco e ambizioso. Venne sconfitta la saggia prudenza di Nicia che si era invece pronunciato contro l’estensione della guerra in Sicilia. Essendo stratego, Nicia partì comunque per la Sicilia, dove trovò la morte, mentre Alcibiade, partito anche lui, venne richiamato in patria con gravi accuse che non avevano a che fare con la guerra. Alcibiade passò dalla parte degli Spartani per poi tentare di rientrare incolume ad Atene. Invece di riconoscere che erano stati loro a prestar fede a un ricco e nobile avventuriero, i cittadini di Atene «si adirarono con quegli oratori che avevano consigliato di fare la spedizione, come se non l’avessero decisa loro stessi» (VIII, 1; p. 1473).

Alcibiade aveva di fatto sostituito Pericle, morto durante la peste e la cui assenza fu tra le cause del tramonto politico della città. Pericle del quale Tucidide riporta il discorso che di Atene è la descrizione più luminosa (libro II, §§ 35-46). Nel commemorare i soldati morti per la città, Pericle afferma che Atene è il luogo nel quale ciascuno emerge «non per la provenienza da una classe sociale ma più per quello che vale» (II, 37; p. 1029), un luogo nel quale la bellezza è un’esperienza quotidiana e diffusa, dove la parola e la discussione sono sempre benvenute «senza pensare che il discutere sia un danno per l’agire» (II, 40; p. 1031), dove felicità, libertà e coraggio sono i punti di riferimento dell’esistenza, suscitando anche per questo l’ammirazione degli «uomini di ora e dei posteri» (II, 41; p. 1032). Per queste e per altre ragioni «tutta la città è la scuola della Grecia» (ibidem).

Questo di Pericle è il più famoso dei discorsi che intramano l’opera di Tucidide, scandita appunto in discorsi riportati tra virgolette – degli strateghi, dei capi politici, degli ambasciatori delle diverse città in lotta tra loro – e scandita da descrizioni estremamente particolareggiate degli eventi bellici, degli scontri navali, delle battaglie, delle sconfitte e vittorie, delle fughe e trionfi. Descrizioni che lo storico ateniese fonda sui racconti di tanti e sulle proprie personali esperienze. Discorsi che sono costruiti in base alla verosimiglianza, vale a dire in base a ciò che si presume quel certo oratore abbia dovuto e potuto dire in quella determinata circostanza. Tucidide lo ammette con onestà e con chiarezza: «mi terrò il più possibile vicino al pensiero generale dei discorsi effettivamente pronunciati» (I, 22; p. 910).

Tutto questo, lo splendore e la sventura, venne vissuto da umani davvero simili a ciò che gli esemplari della nostra specie sono da sempre. Una specie aggressiva, astuta, capace di riflessione e tuttavia spesso vittima di passioni che distruggono gli altri e se stessi. Una natura che i luoghi, i popoli, le credenze, le civiltà cercano di educare nei modi più vari. I Greci vennero in generale educati così: «Non bisogna credere che un uomo sia molto diverso dagli altri, ma che è più forte chi è stato educato nelle più dure difficoltà» (I, 84; p. 951). Molti popoli e culture condividono nel nostro tempo tale criterio e pratica pedagogica. Più non lo fa l’Occidente dominato dal modo di vivere anglosassone, in mano a pedagogisti e a psicologi che impongono nelle scuole e nelle università i criteri compassionevoli, ‘inclusivi’ e irrealistici che plasmano giovani e adulti irresponsabili, incapaci, distrutti da ogni piccola e grande difficoltà che la vita inevitabilmente presenta. Scuole e università per handicappati.
Saremo spazzati via da civiltà e popoli ancora adulti. Meriteremo questa fine e allora forse la parola di Tucidide e degli altri Greci risuonerà come un avvertimento che non abbiamo ascoltato.

Nota
Tucidide, La guerra del Peloponneso, traduzione di Claudio Moreschini, revisione di Franco Ferrari, note di Giovanna Daverio Rocchi, saggio introduttivo di Domenico Musti. In: Erodoto, Storie – Tucidide, La guerra del Peloponneso, Rizzoli, Milano 2021, I, 22; p. 910.

Sorridere

Righteous Kill
(pessimo titolo italiano: Sfida senza regole)
di Jon Avnet
USA, 2008
Con: Robert De Niro (Detective Turk), Al Pacino (Detective Rooster), Carla Gugino (Karen Corelli)
Trailer del film

Sembra un film, il consueto film, sulla criminalità e sulla polizia di New York, sulla continuità tra umani e gruppi il cui Beruf  (professione/vocazione) è uccidere. E il film è anche questo. Ma Righteous Kill è soprattutto una lezione attoriale, è il serissimo divertimento di due star di Hollywood, è un condensato dei tanti personaggi che Al Pacino e Robert De Niro hanno interpretato sull’uno o sull’altro dei versanti della violenza umana, è un chiaro esempio di gigioneria nel quale gli interpreti possono permettersi tutto.
Ma è appunto anche un film sulla giustizia e sulla vendetta, come sempre. Un film sull’indignazione che afferra poliziotti e cittadini quando dei criminali convinti della normalità dei propri crimini (e pronti a commetterne ancora) o non vengono fermati dalle leggi o vengono assolti dalle procedure con l’ausilio di avvocati ben pronti a servire chi ha denaro (l’Azzeccagarbugli è una delle tante metafore universali che Manzoni ha saputo inventare per cogliere il male del mondo).
In chi è diventato poliziotto anche per assecondare la propria volontà di morte e porla al servizio delle vittime di soggetti avidi, sadici, violenti e sanguinari, si fa strada allora una modalità più veloce e più sicura di assicurare nel mondo la giustizia: diventare essi stessi giustizieri, praticare righteous kill che puliscano un poco la terra dalla feccia, offrano sollievo psicologico alle vittime, stabiliscano equità nelle relazioni umane, diano soddisfazione al giustiziere.
Il merito del film è che sin dalla prima scena tutto sembra chiaro, deciso, evidente, e quindi poco thriller. E però poi a poco a poco e inesorabilmente i piani del conflitto si confondono, i personaggi transitano l’uno nell’altro, l’evidenza diventa una scoperta, la possibilità di ciò che chiamiamo «Bene», e che tanto ci rassicura, implode nel crepuscolo di un luogo abbandonato nel quale il Grande Giustiziere, la morte, ancora una volta vince.
E questo davvero ci conforta poiché rispetto al male radicale che il mammifero umano è dentro il mondo e nella storia e

nonostante le cose al momento non sono come dovrebbero – ci sono delle persone laddove non dovrebbero essercene – un giorno le cose saranno come devono – non ci sarà più nessuno. In altri termini, anche se le cose adesso vanno male, miglioreranno.
(David Benatar, Better Never to Have Been: the Harm of Coming into Existence, 2006; trad. it. di A. Cristofori, Meglio non essere mai nati. Il dolore di venire al mondo, Carbonio Editore 2018, p. 212).

Questo insignificante grumo di dolore è destinato a dissolversi nella materia cosmica dalla quale è scaturito. Possiamo quindi sorridere.

Logos

Metto qui a disposizione il file audio della relazione che ho svolto a Chieti il 12.10.2023 in occasione del III Convegno della Società Italiana di Filosofia Teoretica (l’audio dura 27 minuti).

Il titolo della relazione fa riferimento a un’esperienza teoretica e didattica vissuta in questi anni insieme all’Associazione Studenti di Filosofia Unict. Ho cercato di descrivere le motivazioni, le modalità e gli obiettivi che dal 2018 al 2023 ci hanno stimolato a leggere (e discutere) Proust, Dürrenmatt, Gadda, Céline, Manzoni, D’Arrigo.
Il titolo Logos fa riferimento in particolare a una risposta che ho dato durante la discussione seguìta alla relazione. Mi è stato chiesto infatti quale fosse l’elemento unificante di questa esperienza, che cosa gli scrittori studiati avessero in comune. Questi elementi sono naturalmente molti ma centrale è la gloria della parola, la capacità che i grandi narratori e poeti hanno di fare dell’esperienza dolorosa e tenace della vita uno strumento di comprensione e un’espressione di bellezza, il λόγος appunto.

Filosofia e Letteratura

Giovedì 12 ottobre 2023 terrò una relazione per il III Convegno della Società Italiana di Filosofia Teoretica che si svolgerà a Chieti e a Pescara dal 12 al 14 ottobre.

Il tema del Convegno è Pensare (con) la letteratura. Temi e modelli di ‘filosofia della letteratura’ in prospettiva teoretica. Il mio intervento sarà incentrato sull’esperienza didattica e scientifica che dal 2018 organizzo con gli studenti di Unict e in particolare con i soci dell’ASFU. Il titolo è infatti Filosofia e letteratura. Un’esperienza teoretica e didattica e questo è l’abstract:

Su proposta dell’Associazione Studenti di Filosofia di UniCt (ASFU), da alcuni anni svolgo un ciclo di lezioni intitolato Filosofia e letteratura. Dal 2018 al 2023 le lezioni sono state dedicate a Proust, Dürrenmatt, Gadda, Céline, Manzoni, D’Arrigo. Si tratta di un’esperienza didattica assai proficua, nella quale i confini disciplinari mostrano ancora una volta la loro funzione utile sì ma limitata e strumentale. Come ambiti e luoghi dell’ermeneutica esistenziale, infatti, se praticate sul corpo vivo del testo, filosofia e letteratura mostrano l’identità della parola umana nella sua potenza disvelatrice e la differenza di modi espressivi che cercano di intuire e comunicare in forme diverse la complessità delle società dalle quali le opere scaturiscono, la potenza dei mondi che incarnano e manifestano, la costanza della condizione umana e la fecondità del pensiero che la indaga.

In partibus infidelium

Leonardo Sciascia
Dalle parti degli infedeli
Sellerio, 1979
Pagine 87

Per Leonardo Sciascia la Storia della colonna infame fu un costante punto di riferimento. In Dalle parti degli infedeli il modello manzoniano si manifesta nella puntigliosa ricostruzione di un evento e in un senso profondo della giustizia e dell’ingiustizia nelle società, in un impegno civile che resta inseparabile dalla dolente consapevolezza della malvagità dell’umano e delle sue istituzioni.
Lo stesso Sciascia ammette, con un poco di autosorpresa, che ci troviamo di fronte alla ricostruzione «apologetica» (p. 77) della vita di Monsignor Angelo Ficarra, vescovo di Patti nei cruciali anni della Guerra fredda e del massiccio appoggio della Chiesa cattolica al partito della Democrazia Cristiana.
Questo prelato – candido e testardo, obbediente ma non disposto a farsi complice, dedito alla preghiera, agli studi, all’«operosa carità quotidiana» (27) – fu perseguitato da parte della DC pattese e da alcuni organismi della Curia vaticana, a causa del suo rifiuto di sostenere le campagne elettorali e gli esponenti di un partito politico e diventando in questo modo un «ostacolo nella sua indifferenza al potere politico, alla politica; nella sua diffidenza o avversione a contaminarsene, a rendersene partecipe o complice» (42).
Mediante l’analisi di numerosi documenti, alcuni dei quali riservati tanto che la loro divulgazione comporta per lo stesso Sciascia «scomunica maggiore» (53), viene ricostruita la trama di menzogne, ricatti, lusinghe con le quali la Sacra Congregazione Concistoriale, nella persona del cardinale Piazza, costrinse Mons. Ficarra a lasciare il governo della Diocesi, seppure dopo uno scontro lungo e – per il vescovo – assai amaro.
Con la sua scrittura illuministica e sempre coinvolgente, Sciascia delinea dunque una vicenda simbolo. La persecuzione subita dal vescovo di Patti segue modalità vicine a quelle che negli stessi anni un’altra istituzione totale, il Partito Comunista di Stalin, adottava per sbarazzarsi dei propri avversari interni costringendoli «all’accettazione e confessione della colpa, anche se colpevoli non si è» (29).
La storia di Mons. Ficarra conferma anche quella «refrattarietà dei siciliani alla religione cristiana» (78) sulla quale Sciascia ha sempre insistito e che rende l’esistere nell’Isola un vivere in partibus infidelium.

Il potere

Esterno Notte
di Marco Bellocchio
Italia, 2022
Con: Fabrizio Gifuni (Aldo Moro), Margherita Buy (Eleonora Chiavarelli Moro), Fausto Russo Alesi (Francesco Cossiga), Toni Servillo (Paolo VI), Gabriel Montesi (Valerio Morucci), Davide Mancini (Mario Moretti), Daniela Marra (Adriana Faranda), Fabrizio Contri (Giulio Andreotti), Gigio Alberti (Benigno Zaccagnini), Pier Giorgio Bellocchio (Domenico Spinella), Paolo Pierobon (Cesare Curioni)
Sceneggiatura di Marco Bellocchio, Stefano Bises, Ludovica Rampoldi, Davide Serino
Trailer del film

Figure. Un film fatto di figure. Che si alternano nella loro differenza, che convergono nella loro identità.
Sei prospettive, sei stazioni dolorose, sei figure del potere.
La prima figura è Aldo Moro, la sua paziente, estenuante, efficace capacità di mediazione tra posizioni all’apparenza inconciliabili. La sua formula delle «convergenze parallele» per descrivere il cammino storico della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista Italiano è figura dell’ossimoro che il potere è. L’ossimoro che consiste nell’idea di un «potere buono».
La seconda figura è Francesco Cossiga, un bipolare -come lo definisce lo stesso Moro- con tratti paranoici, una ‘eccellenza’ incerta e tuttavia pronta a servire i padroni statunitensi, in particolare nella figura del «consulente» Steve Pieczenik, inviato dagli USA e successivamente inquisito per «concorso nell’omicidio» di Moro. L’oscillazione esistenziale e politica di Cossiga riguardava da un lato la gratitudine verso colui che lo aveva reso ciò che era (Moro, appunto) e dall’altro la ragion di stato. Cossiga appare nel film un allucinato e un allucinatore, vittima del sangue che scorre anche per sua complicità e vittima soprattutto della propria figura di potere folle.
La terza figura è Paolo VI, amico di Moro, coraggioso sino a tentare ogni strada -anche il denaro ‘sterco del demonio’- e ingenuo sino a chiedere agli «uomini delle Brigate Rosse» di rilasciare Moro «così, semplicemente, senza condizioni», contribuendo probabilmente in questo modo alla sua fine, comunque già stabilita. Paolo VI con il cilicio, con le sue preghiere e con i suoi sogni sacrificali. Paolo VI che rivolgendosi al ‘Signore’ dice «Tu non hai esaudito la nostra supplica» e che morirà il 6 agosto del 1978, tre mesi dopo la morte del suo amico. Figura del potere sacro.
La quarta figura sono le Brigate Rosse. In particolare Adriana Faranda, convinta che la Rivoluzione vincerà e sconcertata quando la Rivoluzione non vince; Valerio Morucci, un nichilista dannunziano che trova solo nell’azione il senso del proprio vivere, che afferma di non volere obbedire a nessuno ma poi dichiara che bisogna obbedire senza discutere all’ordine di uccidere Moro; Mario Moretti, una macchina gelida probabilmente eterodiretta (dagli USA). Le Brigate Rosse che uccidendo Moro uccisero se stesse e ogni prospettiva rivoluzionaria in Italia. Figura del potere sciocco e fanatico.
La quinta figura è Eleonora Chiavarelli Moro, moglie, madre, cristiana, paziente, ribelle solo alla fine, quando comprende che la Democrazia Cristiana vuole morto il marito. Figura del potere familiare e affettivo.
La sesta figura è l’insieme di Tύχη e di Ἀνάγκη, di caso e necessità, del piano inclinato che sono i fatti umani individuali e collettivi, anche quando si illudono e pensano di se stessi di essere fatti stabiliti, voluti, pensati. L’insieme di fatti che nei 55 giorni dal 16 marzo al 9 maggio del 1978 costituiscono un coacervo di eventi, di menzogne, di omissioni, di tradimenti, di convinzioni fanatiche, di rozzezze, di morte. Figura del potere, della sua essenza, come Leonardo Sciascia mostra in uno dei suoi testi più lucidi e preziosi.
Un film che dura più di cinque ore ma che coinvolge perché costituisce un’altra figura ancora: la tragedia, una tragedia greca. 

Avevo visto Fabrizio Gifuni interpretare a teatro la figura di Aldo Moro. E avevo intitolato la mia riflessione  su quello spettacolo con una frase da Moro rivolta alla moglie nell’ultima lettera a lei indirizzata: «Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo». Un testo nel quale ponevo la questione del perché Aldo Moro sia stato ucciso dalle Brigate Rosse quando la sua liberazione sarebbe stata una formidabile arma contro lo Stato italiano. Su tale questione, sui segreti che contiene, si è edificata la storia dell’Italia dal 1978 a oggi. Da vivo e da libero, Moro avrebbe potuto davvero colpire «il cuore dello Stato» come i dannunziani delle Brigate Rosse amavano dire. Da vivo e da libero Moro non avrebbe potuto essere così facilmente definito «pazzo», come la stampa corrotta allora e corrottissima oggi dichiarò quasi unanimemente. Il timore non era che Moro uscisse morto dalle mani delle Brigate Rosse ma che ne uscisse vivo. E infatti ne uscì morto.
Le Lettere  e il Memoriale di Aldo Moro costituiscono l’ultima figura del potere, lo spettro che da nulla può più essere ucciso e che con la sua sola presenza rende chiara l’essenza stessa dell’autorità: la morte.
Di questa figura è emblema un personaggio al quale il film di Bellocchio non dedica una specifica stazione ma che -certo- ne costituisce una delle ragioni; un personaggio che nelle sue lettere dalla ‘prigione del popolo’ Moro descriveva come figura del potere miserabile.

Andreotti è restato indifferente, livido, assente, chiuso nel suo cupo sogno di gloria. Se quella era la legge, anche se l’umanità poteva giocare a mio favore, anche se qualche vecchio detenuto provato dal carcere sarebbe potuto andare all’estero, rendendosi inoffensivo, doveva mandare avanti il suo disegno reazionario, non deludere i comunisti, non deludere i tedeschi e chi sa quant’altro ancora. Che significava in presenza di tutto questo il dolore insanabile di una vecchia sposa, lo sfascio di una famiglia, la reazione, una volta passate le elezioni, irresistibile della D.C.? Che significava tutto questo per Andreotti, una volta conquistato il potere per fare il male come sempre ha fatto il male nella sua vita?  Tutto questo non significava niente. Bastava che Berlinguer stesse al gioco con incredibile leggerezza. Andreotti sarebbe stato il padrone della D.C., anzi padrone della vita e della morte di democristiani e no, con la pallida ombra di Zaccagnini, dolente senza dolore, preoccupato senza preoccupazione, appassionato senza passione, il peggiore segretario che abbia avuto la D.C.
Non parlo delle figure di contorno che non meritano l’onore della citazione. On. Piccoli, com’è insondabile il suo amore che si risolve sempre in odio. Lei sbaglia da sempre e sbaglierà sempre, perché è costituzionalmente chiamato all’errore. […]
Eravate tutti lì, ex amici democristiani, al momento della trattativa per il governo, quando la mia parola era decisiva. Ho un immenso piacere di avervi perduti e mi auguro che tutti vi perdano con la stessa gioia con la quale io vi ho perduti. […]
Tornando poi a Lei, On. Andreotti, per nostra disgrazia e per disgrazia del Partito con o senza di voi, la D.C. non farà molta strada. […] Si può essere grigi, ma onesti; grigi, ma buoni; grigi, ma pieni di fervore. Ebbene, On. Andreotti, è proprio questo che Le manca. Lei ha potuto disinvoltamente navigare tra Zaccagnini e Fanfani, imitando un De Gasperi inimitabile che è a milioni di anni luce lontano da Lei. Ma Le manca proprio il fervore umano. Le manca quell’insieme di bontà, saggezza, flessibilità, limpidità che fanno, senza riserve, i pochi democratici cristiani che ci sono al mondo. Lei non è di questi. Durerà un po’ più, un po’ meno, ma passerà senza lasciare traccia. Non Le basterà la cortesia diplomatica del Presidente Carter, che Le dà (si vede che se ne intende poco) tutti i successi del trentennio democristiano, per passare alla storia. Passerà alla triste cronaca, soprattutto ora, che Le si addice.
Che cosa ricordare di Lei? La fondazione della corrente Primavera, per condizionare De Gasperi contro i partiti laici? L’abbraccio-riconciliazione con il Maresciallo Graziani? Il Governo con i liberali, sì da deviare, per sempre, le forze popolari nell’accesso alla vita dello Stato? Il flirt con i comunisti, quando si discuteva di regolamento della Camera? Il Governo coi comunisti e la doppia verità al Presidente Carter? Ricordare la Sua, del resto confessata, amicizia con Sindona e Barone? Il Suo viaggio americano con il banchetto offerto da Sindona malgrado il contrario parere dell’Ambasciatore d’Italia? La nomina di Barone al Banco di Napoli? La trattativa di Caltagirone per la successione di Arcaini? Perché Ella, On. Andreotti, ha un uomo non di secondo, ma di primo piano con Lei; non loquace, ma un uomo che capisce e sa fare. Forse se lo avesse ascoltato, avrebbe evitato di fare tanti errori nella Sua vita. Ecco tutto. Non ho niente di cui debba ringraziarLa e per quello che Ella è non ho neppure risentimento. Le auguro buon lavoro, On. Andreotti, con il Suo inimitabile gruppo dirigente e che Iddio Le risparmi l’esperienza che ho conosciuto, anche se tutto serve a scoprire del bene negli uomini, purché non si tratti di Presidenti del Consiglio in carica.
[Fonte: Archivio del Novecento – Memoriale Moro]

Esterno Notte  è un film «misto di storia e d’invenzione», formula di Alessandro Manzoni che ben si adatta a quest’opera. La storia che rimane oscura, l’invenzione che la illumina con la luce delle sue figure.

 

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