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La linea d’ombra

Joseph Conrad
La linea d’ombra. Una confessione
(The Shadow Line, 1917)
Trad. di Gianni Celati
Mondadori-Bibliotext, Milano-Barcellona 2002
Pagine 159

La linea d’ombra oltre la giovinezza. Il tempo, gli eventi, l’occasione che allontanano un umano dalla sua inquieta lievità di ragazzo per regalargli il dolore del mondo, la sua complessità, l’enigma.
Dopo aver lasciato la nave sulla quale come ufficiale si era trovato benissimo – ma che non gli dava più soddisfazione – il protagonista decide di tornare in patria. Nell’attesa, riceve l’imprevedibile proposta di diventare lui il capitano di una nave. Non ci aveva mai pensato, neanche lo immaginava, ma quando esce dall’ufficio nel quale ha firmato il contratto con gli armatori e con la capitaneria di porto descrive se stesso con azioni e pensieri che possono essere nominati tramite una sola parola: gioia.
Dalla sensazione provata poche ore prima – l’«oscuro sentimento della vita come uno spreco di giorni» (p. 34) – transita alla «potente magia» del comando di una nave (41). Primo comando era infatti il titolo con il quale Conrad aveva in un primo tempo immaginato questo suo romanzo. La gioia, quindi, la gioia che lo conduce a «fluttuare» per le scale, a continuare a fluttuare per la strada, in un «profondo distacco da tutte le forme e i colori di questo mondo. Distacco che era, per così dire, assoluto» (49). Indifferenza a tutto il resto, esultanza, attesa di una nuova vita, sono i sentimenti che lo invadono.
Accetta dunque con slancio la proposta di raggiungere la sera stessa la nave che gli era stata assegnata e che era ancorata, dopo la morte del precedente capitano, in un altro porto. Il narratore vive «un momento delizioso e unico» nel pensare «una nave! La mia nave!», provando «un tal sentimento d’intensità dell’esistenza» (55) da poter essere indicato con una parola non inglese, non italiana, con la parola di una lingua apparentemente morta e invece vivissima: καιρός, la pienezza dell’istante nel quale l’eterno sembra condensarsi; parola che la teologia paolina e cristiana ha tradotto con Grazia.
Ma la grazia viene dopo il peccato, la grazia redime dal peccato. Qui essa è arrivata invece prima. Non un peccato morale, naturalmente, ma un destino è quello che accoglie il da poco nominato capitano. Il destino di una nave in ottime condizioni, con un equipaggio disciplinato, attento e competente. Con un cambusiere/cuoco eccellente e con il solo primo ufficiale a compensare tutto questo con la stranezza di una sua irrazionale convinzione, quella che il precedente capitano fosse un individuo malvagio dalla testa ai piedi e che avrebbe cercato di danneggiare in tutti i modi la nave e i marinai anche da morto.
Il nuovo capitano non crede, giustamente, a simili fantasie, davanti alle quali dice a se stesso e riferendosi al primo ufficiale che «perfino sul mare, un uomo poteva cadere in preda agli spiriti del male» (79). Quegli spiriti, quella casualità, quella necessità che dopo l’uscita della nave in mare aperto la fermano a lungo, vittima delle «potenze malefiche della bonaccia e della pestilenza» (108). Potenze che sembrano far andare l’imbarcazione alla deriva nella calma più assoluta dei venti e nella impossibilità di curare l’equipaggio con il chinino, che qualcuno prima della partenza aveva sottratto, mantenendo apparentemente intatte le confezioni.
Nessun alito di vento, il mare diventato solido, lo spuntare del sole e il suo tramontare come un meccanismo tanto regolare quanto insensato, le stelle sempre uguali, sempre uguale un’isola del vasto arcipelago dalla quale la nave è incapace di allontanarsi.  Sembra davvero impossibile sottrarsi «alla tremenda impressione» di «un’atmosfera avvelenata» (105), dentro la quale «ognuno era solo là ove si trovava» (136).
Il capitano aveva già imparato, delle tante cose che deve apprendere un uomo, «che l’umana natura non sia cosa bellissima sotto tutti gli aspetti» (37). Ma ora il trascorrere di giorni che non trascorrono, le notti afose nel buio più profondo, l’essere lui e i suoi uomini immersi in una potenza inscalfibile e oggettiva fatta di «stelle, sole, mare, luce, oscurità, spazio, vaste acque», rende palese, rende chiaro, rende evidente che dentro «l’opera formidabile della Creazione sembra che l’umanità sia capitata per sbaglio, non desiderata. Oppure caduta in trappola» (118), precipitata nel cuore di tenebra dell’esistenza.
Come Hearth of Darkness, anche The Shadow Line è una meditazione che scaturisce dall’interno del mondo e del pensiero, sgorga dalla potenza esplicativa della Gnosi, si genera dalla conoscenza che guarda il mare di tenebra, la Medusa, ma non se ne fa pietrificare. Si trasforma invece in parola che salva, in Λόγος.

Il sospetto

Friedrich Dürrenmatt
Il sospetto
(Der Verdacht, 1953)
In «Romanzi e racconti», a cura di Eugenio Bernardi
Traduzione di Enrico Filippini
Einaudi-Gallimard, Torino 1993
Pagine 93-189

Nell’autunno del 1948 il commissario Bärlach e il suo amico Dottor Hungertobel osservano su un numero di Life la foto di un medico nazionalsocialista che operava senza narcosi i prigionieri del lager di Stutthof.
Hungertobel impallidisce perché gli sembra di riconoscere un collega che ha studiato con lui, ma subito distoglie il sospetto che invece per Bärlach, e in base ai racconti dell’amico, diventa sempre più plausibile. Per verificare la giustezza o meno di questa improbabile ipotesi, il commissario si fa trasferire nella lussuosa clinica di Zurigo dove il collega di Hungertobel adesso lavora. Il suo nome è Emmenberger, anche lui di Berna, come Bärlach. Nel tentativo di confermare il proprio sospetto, tuttavia, il commissario osa troppo e il soggiorno nella lussuosa clinica Sonnenstein diventa sempre più inquietante, sino a esiti imprevisti.
Questa drammatica, tesa, dolorosa trama fa da occasione per una riflessione tragica e implacabile sugli uomini e sulla storia, sul potere che protegge i criminali, i grandi criminali, su «questo pianeta maledetto da dio» (p. 116), su «un dio che è capace di infliggere le pene dell’inferno» (115), sulla vana speranza che il sadismo della specie e della vita possa essere fermato, sui «vagabondaggi attraverso il mare insanguinato dell’assurdo di quest’epoca» (121) ma in realtà di tutte le epoche, sulla fede che la giustizia abbia sempre senso e però sulla constatazione che, sconfitto in un luogo e in un tempo, il male possa «ricomparire come una lebbra altrove, con altri torturatori e sotto altri sistemi politici, per riemergere dalla profondità dell’istinto umano» (122).
Così infatti, con queste ultime esatte parole, si potrebbe descrivere ciò che i torturatori di ieri sono diventati nell’inesorabile sadismo di chi ritiene sia giusto, equo, dovuto, far morire di bombe, di proiettili e di fame i palestinesi nella ‘Terra promessa’. Il male riemerge nella desolazione delle vittime palestinesi che probabilmente non avranno un narratore della loro tragedia capace come Dürrenmatt di trasformarli in un simbolo della sofferenza universale.
Vediamo infatti, in un crescendo di angustia e di orrore, il commissario trasformarsi da «malato impenetrabile come la statua di un idolo […] che ora tesseva impassibile la sua tela come un ragno gigantesco» (132), trasformarsi in un povero scheletrico corpo, un corpo prigioniero e alla mercé di un uomo crudele e convinto della legittimità della propria ferocia, delle torture che ha inferto e che infligge.
La fiducia di Bärlach nella «lotta contro la stupidità e contro l’egoismo degli uomini» (136) vacilla di fronte al gelo, alla potenza e alla determinazione del medico delle SS Emmenberger, l’uomo-inferno, l’«alito del nulla» (141), l’emblema del potere che si fa legge a se stesso e agli altri.
Emmenberger è – alla fine – soltanto figura di «un universo spaventoso di vuoto, spaventoso di pienezza, una dissipazione senza senso» (159). Sarebbe già una grazia, e una luce, poter «uscire dal nulla e vivere» (162), una grazia che i nati gettati nell’esistenza e dunque nel nulla non potranno ricevere, gustare, godere.
Il nulla sembra il vero argomento di questo giallo ancora una volta finto, che invece è una meditazione metafisica nella quale il personaggio che incarna il Male pronuncia parole di grande saggezza e sapienza, salvo poi precipitare nel banale baratro di deduzioni insane e folli.
Emmenberger afferma infatti di credere

nella materia, che è contemporaneamente forza e massa, un tutto non rappresentabile e insieme una sfera che si può delimitare, che si può toccare come la palla con cui giuoca un bambino, la palla su cui viviamo e sulla quale corriamo attraverso il vuoto assurdo dello spazio; credo in una materia (com’è meschino e vuoto dire, invece: credo in un dio!), che è tangibile sotto forma di animale, di pianta, di carbone, e inafferrabile, imprevedibile sotto forma di atomo, una materia che non ha bisogno di alcun dio, né di qualcosa del genere, e il cui unico incomprensibile mistero è l’essere. E credo di essere una parte di questa materia, atomo, forza, massa, molecola (179).

Da questa lucida metafisica di impianto democriteo e spinoziano il medico conclude però scioccamente e contraddittoriamente che la sua esistenza come parte della materia infinita gli «dia il diritto di fare ciò che voglio» (Ibidem).
Il vero crimine che genera tutti gli altri, che produce le azioni di Emmenberger, sta in tale immotivata e del tutto contraddittoria deduzione, che dall’essere parte profonda e partecipe di un intero si fa poi separazione, diventa una volontà piccola e malvagia (ma potrebbe essere anche ‘buona’, metafisicamente non fa differenza) solo allo scopo di giustificare e legittimare la propria malattia esistenziale, il proprio essere insano, alla fine la propria certezza che non ha più nulla di ideologico e molto invece di demente.
La narrativa di Dürrenmatt racconta in ogni sua opera tale demenza al modo di una malattia orribile e sacra. 

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La promessa

Friedrich Dürrenmatt
La promessa
(Das Versprechen, 1958)
In «Romanzi e racconti», a cura di Eugenio Bernardi
Traduzione di Silvano Daniele
Einaudi-Gallimard, Torino 1993
Pagine 307-425

Un commissario di polizia del cantone di Zurigo, Matthäi, sta per partire per la Giordania, dove è stato incaricato di addestrare i poliziotti locali. Gli si presenta un ultimo caso: una bambina, Gritli Moser, è stata uccisa in un bosco non lontano da casa, con un rasoio che ne ha fatto scempio. Lui stesso dà la notizia ai genitori e davanti alla reazione disperata e animalesca della madre le promette di trovare l’assassino. Sottoposto a un interrogatorio di venti ore, un ambulante confessa e poi si uccide. Il caso sembra dunque chiuso ma Matthäi è convinto che il vero assassino sia ancora in libertà e potrà uccidere altri bambini. Ossessionato da questa ipotesi, rinuncia a partire, viene licenziato dalla polizia, inizia a indagare privatamente. Da uomo freddo, efficiente e razionale che era, Matthäi scende in un gorgo di tormento e di assillo che non gli darà più pace.
Questa vicenda viene raccontata allo scrittore dal dirigente superiore di Matthäi, con un finale che qui non va ovviamente svelato ma che conferma per intero la ferocia e la pochezza, l’assurdo e la miseria degli umani, che Dürrenmatt narra e descrive con la consueta implacabile lucidità e con dolorosa ironia.
«Delitti ne accadevano sempre» (p. 360), anche per mano di persone psicologicamente distorte, la cui «capacità di resistenza che possono opporre ai propri impulsi», dichiara uno psichiatra, «è anormalmente scarsa, basta maledettamente poco, un ricambio materiale un po’ alterato, qualche cellula degenerata, e l’uomo è una bestia» (376). Lo scrittore non si astiene dal consueto paragone con gli altri animali, con ‘le bestie’, che se può valere per i nostri cugini primati o per le formiche (insetti veramente feroci) e per alcune specie di uccelli, non è corretto per la stragrande maggioranza dei viventi, i quali praticamente mai uccidono per follia o per sadismo ma quasi soltanto per difendere o acquisire territorio, femmine e risorse. Le bestie, come è evidente, siamo noi.
E se i cittadini sperano in media che la polizia sappia mettere ordine nel mondo, il dottor H. – colui che narra allo scrittore la vicenda e dunque poliziotto egli stesso – ritiene di non poter «immaginare nessuna speranza più pidocchiosa di questa» (314). Spesso, anzi, le ‘forze del disordine’ sono esse stesse espressione del male, come si constata ovunque ogni giorno. Né le polizie né le religioni o le morali hanno mai potuto redimere la «maledetta commedia da cani» (403) che è l’esistenza collettiva degli umani. E anzi religioni e morali contribuiscono fattivamente al dolore del mondo, con le loro intolleranze e presunzioni, con le loro autentiche follie.
L’umano non può essere redento, in quanto «aus so krummen Holze, als Woraus der Mensch gewacht ist, kann nichts ganz Gerades gezimmert Werden», «da un legno storto, come quello di cui l’umano è fatto, nulla si può trarre di perfettamente dritto’» (Kant, Ideen zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht (1784), in «Gesammelte Schriften», Berlin 1910, vol. VIII, p. 23). Un modo per temperare la stortezza/stoltezza di questa specie è capirne la natura e accettarne la struttura finita. Non soltanto come destino mortale ma in quanto dispositivo che produce morte. Come afferma ancora una volta il dottor H., «Siamo uomini, dobbiamo tenerne conto, armarci contro questa realtà, e soprattutto avere ben chiaro in mente che riusciremo a evitare il naufragio nell’assurdo, che per forza di cose risulta sempre più netto e schiacciante, e a costruirci su questa terra un’esistenza abbastanza confortevole, solo incorporandolo tacitamente nel nostro pensiero» (412).
A risolvere il caso dell’assassinio della bambina Gritli Moser è una vecchia che si trova in punto di morte ma ciononostante è assai vivace. È lei a raccontare al dottor H. che cosa sia veramente accaduto. Tra le tante premesse che pone al suo resoconto c’è la singolare tesi «che anche il male, l’assurdo  succede come qualcosa di altrettanto straordinario che il bene» (420-421).
Da gnostico qual è, Dürrenmatt sa infatti che il male e il bene sono strutture acquisite, derivate, provvisorie e cangianti. E che la sostanza degli uomini, il loro male, sta invece nella loro nascita.

Il mito e la storia

Il mito come storia
Cinque drammi di Friedrich Dürrenmatt

in Il Covile
anno XVI, numero 705, 21 ottobre 2024
Pagine 1-8

Collaboro con numerose riviste (e ne dirigo una) ma la soddisfazione che mi regala la pubblicazione di un saggio su Il Covile è particolare, e questo per due precise ragioni:
-l’eleganza e la bellezza della rivista, il suo coraggio di apparire antica anche nella grafica;
-l’affrancamento dai miserabili dogmi del presente, ciò che Nietzsche chiama unzeitgemäß, inattuale.
Dietro due elementi come questi abitano infatti molte condizioni e un intero mondo.
Nel saggio ho cercato di leggere cinque drammi storici di Dürrenmatt anche alla luce di uno dei racconti più straordinari di questo drammaturgo e narratore: La morte della Pizia.

Indice del saggio
-Premessa sul Nobel
-Mito e storia
-Un angelo è sceso a Babilonia
-Sta scritto
-Il cieco
-La meteora
-Frank V
-Conclusione. Il male a Delphi

Qohélet, la Sicilia

Iddu
di Antonio Piazza e Fabio Grassadonia
Italia, 2024
Con: Elio Germano (Matteo), Toni Servillo (Catello Palumbo), Daniela Marra (Rita Mancuso), Fausto Russo Alesi (Emilio Schiavon), Barbara Bobulova (Lucia Russo), Antonia Truppo (Stefania), Betti Pedrazzi (Elvira)
Trailer del film

«Mio padre è morto tra le pecore e io vivo come un topo». Questo pensa e dice con amarezza Matteo, capomafia di una imprecisata zona della Sicilia. Devotissimo al padre Gaetano, ne assume alla morte eredità e ruolo, vivendo per decenni come latitante in una abitazione del suo stesso paese e da lì continuando a dare ordini di violenza e di morte, pur vivendo appunto come «u suggi». Tra le lettere e comunicazioni, assume un ruolo centrale il rapporto con Catello Palumbo, suo padrino di cresima ed ex sindaco del paese. Tornato da sei anni di detenzione, Palumbo viene costretto dai servizi segreti a partecipare a un’operazione il cui scopo sembra l’arresto di Matteo.
Sembra. Tutto è cangiante e simbolico nel cinema di Piazza e Grassadonia. Un cinema intessuto della deformazione dello spazio, del tempo, della memoria, delle vicende. I silenzi e la desolazione di Salvo (2012); la tenerezza e la crudeltà di Sicilian Ghost Story (2017) si trasformano nel grottesco di Iddu, un’opera che scende scende negli abissi insensati dell’esistenza siciliana, tra finti vivi, vivi a metà, morituri i quali «vivono giorni contati di vita inutile», come ancora una volta Matteo afferma. Questo criminale è un lettore attento della Bibbia e in particolare del Qohélet o l’Ecclesiaste che legge nella edizione Einaudi tradotta da Guido Ceronetti. 

E tutto il film è pervaso della dimensione biblica, di citazioni dall’antico testamento, di quello Havèl havalím, vanità delle vanità o – come Ceronetti traduce- «fumo di fumi / Polvere di polveri / tutto fumo / polvere» (Qohélet o l’Ecclesiaste, Einaudi 1988, 1,2). Davvero la vita dei mafiosi che sparano e di quelli che decidono a chi e perché sparare è «orrore / Perché per me è tutto male / Qualsiasi cosa si faccia sotto il sole (2.17).
In questo film, come nel Qohélet, la donna è «amara più che la morte» (7.26) e il mangiare-bere-godere è l’«unico bene dell’uomo» (2.24). Se qualcosa si vuol pur capire, è meglio non attribuire colpa al mondo o al dio e comprendere, invece, che «dal cuore dei figli d’uomo / Trabocca il male» (9.3), che se una sapienza è possibile essa sta nel comprendere l’insignificanza degli umani e il loro limite in un universo perfetto nella sua indifferenza. Certo, forse al crescere della conoscenza «più grave si fa il tormento» (1.18) e tuttavia soltanto uno sforzo di sapienza può diradare un poco le tenebre del mondo. Quella sapienza che è più forte delle armi e di ogni semplice violenza, sapienza che è anch’essa un’ombra ma che «illumina il viso» (8.1) ed è «la vita di chi vive per lei» (7.12).
Nella sua ignoranza e rozzezza Matteo percepisce e sente la verità di ciò che legge nel Qohélet, soprattutto percepisce e sente che «felice» è chi «ancora non è stato», ancora non è nato e meglio sarebbe che non nascesse (4.3).

Il finale della storia conferma che latitanze di decenni dei mafiosi sono possibili soltanto perché le istituzioni della Repubblica non costituiscono l’altro di Cosa Nostra ma sono una loro espressione. Per chi conosca anche solo da lontano e per fugaci occasioni qualche mafioso, appare del tutto evidente che si tratta di persone inconsistenti, rozze, quasi analfabete, di pecorai arricchiti, di individui senza strumenti che non siano un’arma in mano. Persone che la forza militare e giuridica di uno Stato contemporaneo non avrebbe nessuna difficoltà a spazzare via. Se invece costoro controllano ancora territori ed economie è perché godono della protezione di imprenditori, forze dell’ordine, magistrati, presidenti di amministrazioni, presidenti del consiglio, presidenti della repubblica. Soggetti, questi ultimi, che non sono l’altro della mafia ma sono la mafia, come la vicenda della cosiddetta «trattativa» ha confermato.
Disperante da pensare e da dire? Forse. Ma non per un siciliano, che tutto questo lo vede – se lo vuole vedere – da quando è nato. E io lo vedo. Meravigliosa l’interpretazione di Elio Germano come Matteo ed è sempre una gioia vedere recitare Toni Servillo, qui nei panni del sindaco complice e traditore del capomafia.
A Matteo il padre aveva affidato un «pupo», un antico bronzo greco, raccomandandogli di non venderlo mai, di tenerlo sempre con sé. Simbolo, forse, di ciò che l’Isola è stata nei millenni che hanno eretto i templi agrigentini, Segesta, Selinunte, luoghi dove la mafia di Sicilia è oggi ancora padrona. Emblema di una Sicilia libera certo non dal male (questo da nessuna parte è possibile) ma da un male così rozzo, così inutilmente feroce, così insipiente, come quello di Cosa Nostra.

Perversioni e necessità

A un passo dalla verità
(La Traque)
di Yves Rénier
Francia 2021
Con: Philippe Torreton (Michel Fourniret), François-Xavier Demaison (Yann Declerck), Mélanie Bernier (Margaux Nielsen), Isabelle Gélinas (Monique Fourniret)
Trailer del film

Michel è in carcere per ripetute aggressioni sessuali. Pubblica un annuncio su un giornale cattolico nel quale cerca una corrispondente. Monique gli risponde e cominciano a intrattenere una relazione epistolare che, quando lui esce dal carcere, si trasforma in famiglia. Michel è molto intelligente, calcolatore, determinato. Monique è stata abbandonata più volte, le sono stati tolti i figli, è in cerca di un protettore. I due costruiscono un legame assai forte.
Quando Michel rapisce una quattordicenne, che però riesce a fuggire, viene arrestato e comincia a essere sospettato della sparizione di numerose altre ragazze in varie località della Francia e del Belgio. La moglie Monique appare agli inquirenti a volte ignara e ciecamente fiduciosa nell’innocenza del marito, altre volte in vari modi sua complice. I due resistono a un anno intero di interrogatori, colloqui, pressioni. Il gelo di Michel è impressionante e costituisce la paradossale prova della sua responsabilità. Ma è una prova psicologica, insufficiente, vaga. Molti altri indizi di varia natura si aggiungono ma nessuna prova decisiva. Sino a che, proprio quando l’imputato sta per essere scarcerato, avviene qualcosa di molto sottile ma determinante.

È la storia crudele di un personaggio tra i più sadici della cronaca nera e antropologica contemporanea. Michel Fourniret è infatti realmente esistito, come è esistita sua moglie e le tante giovani vittime che ha catturato, torturato e ucciso. Il suo arresto avvenne nel giugno del 2003, la sua morte in carcere nel 2021. La vicenda di questo personaggio è stata raccontata anche nel romanzo La mésange et l’ogresse, di Harold Cobert (2016), dal quale il film di Rénier trae la sua trama.
«Malattia mentale» è una formula certamente esplicativa dei comportamenti di simili soggetti, di assassini seriali per i quali è ragione di autentico piacere, di soddisfazione, di addiction, far precipitare nell’angoscia e nel terrore totali delle altre persone, delle ragazze. Ma incontrare addirittura una coppia ben amalgamata di simili assassini significa non soltanto avere di fronte due malati di mente, due handicappati nelle emozioni, due pazzi, puramente pazzi. No, l’inspiegabile non può essere compreso con simili facili e accomodanti valutazioni e diagnosi. Forse queste persone sono soltanto una punta. La punta esplicita, a un certo punto visibile, la punta sconcertante, tremenda e totale del male.
Una punta che mostra l’insufficienza di ogni approccio morale o anche etico al male. Non si tratta infatti di scelta, condizione necessaria per la possibilità stessa della morale. Non si tratta di psicologia, presunta ‘scienza’ che balbetta ovvietà e banali eziologie, spesso tra di loro in contraddizione, che sembrano valere in ogni caso e dunque non falsificabili, risultando in tal modo – secondo il criterio di demarcazione di Popper – non scientifiche. Non si tratta del ‘mistero del cuore umano’, ulteriore e romantica forma di narcisismo della specie. Si tratta, come sempre quando si vuol capire una realtà complessa, di ontologia. Del fatto cioè che alcune entità umane nascono con ben precise caratteristiche comportamentali e che dunque altro non potrebbero fare, in altro modo non potrebbero agire.

Questo è nella sua sostanza ciò che chiamiamo ‘il male’ e che vale naturalmente anche per quanto definiamo ‘il bene’. Detto con il linguaggio degli gnostici: «Coloro che provengono dal pensiero dell’arroganza assomigliano alle pienezze di cui sono imitazioni, copie, ombre, fantasmi, mancando di parola e luce: essi appartengono al pensiero vuoto. […] Per questo la loro fine sarà come il loro inizio. Da ciò che non fu, torneranno a ciò che non sarà» (Trattato tripartito, NHC I,5, 78,28-38/79,1-4; in I codici di Nag Hammadi, Carocci 2024, p. 84). Detto con il linguaggio di Spinoza: «Il cane che per un morso diventa rabbioso, si deve certo perdonare, tuttavia è giusto sopprimerlo» poiché «nam homines mali non minus timendi sunt, nec minus perniciosi, quando necessario mali sunt; gli uomini cattivi, infatti, non sono da temere di meno, né sono meno pericolosi, se sono cattivi per necessità» (Lettera 78 a Oldenburg e  Lettera 58 a Schuller, in Tutte le opere, Bompiani 2011, pp. 2197 e 2114).
Il bene e il male sono dunque elementi del tutto relativi ai luoghi, ai tempi, alle culture e ai giudizi. Invece la struttura antropologico/ontologica più o meno serena – e dunque feconda di sorriso – oppure una struttura più o meno perversa – e dunque dannosa a sé e agli altri – sono dei dati reali. La differenza tra l’idea di colpa interiore e l’idea di danno oggettivo segna uno dei confini più consistenti tra l’etica cristiano-moderna e l’ontologia greca. In quest’ultima personaggi quali Michel e Monique Fourniret sono semplicemente il vuoto e il nulla e come tali devono essere trattati, compresi, cancellati.

Buio

La terra dell’abbastanza
dei Fratelli D’Innocenzo
Italia, 2018
Con: Andrea Carpenzano (Manolo), Matteo Olivetti (Mirko), Milena Mancini, Max Tortora, Michela De Rossi, Luca Zingaretti
Trailer del film

Periferie romane. Periferie dell’esistenza. Periferie del senso. Periferie dove Manolo e Mirko frequentano malvolentieri un istituto alberghiero e trascorrono il loro tempo nel vuoto. Sino a che una sera, senza volerlo, investono e uccidono un passante. La vittima è un pentito della malavita romana che si era dissociato e che si nascondeva. I due hanno quindi fatto un favore ai criminali locali che gestiscono droga, puttane, pedofilia e altre nobili attività. Il padre di Manolo vede in questa circostanza l’occasione fortunata «per svoltare», vale a dire per imprimere un significato diverso alle loro vite, entrando nel clan al quale hanno fatto l’involontario favore. Manolo conduce con sé Mirko e i due cominciano naturalmente e inevitabilmente il loro itinerario dentro il male. Le loro esistenze sono vuote e dannose quanto prima ma adesso sono esistenze con del denaro.
Nessuna psicologia in questo film d’esordio dei fratelli D’Innocenzo. Un’opera il cui mondo è vicino alla volgarità dei parvenu di Favolacce (2020) e all’autismo del dottor Sisti di America Latina (2021). In tutti e tre i film la cinepresa sta addosso ai corpi, ai volti e agli sguardi dei personaggi. Qui la scena più bella e più inquietante è infatti quella in cui in un bar Mirko e sua madre guardano la vetrina dei dolci. Come se un lampo di tenerezza, di complicità e di assurdo afferrasse le immagini. In tutti e tre i film la solitudine è assoluta e inemendabile, tanto più quanto i personaggi appaiono tra di loro sodali. In tutti e tre i film le persone che vivono e operano non avrebbero dovuto nascere. Sarebbe stato meglio per tutti. Meglio anche e abbastanza per loro.
Nessuna psicologia dunque in questi film. Ed è uno dei loro pregi maggiori. Dalle strade, dai lampioni, dalle camere da pranzo di case assurde – ricche o miserabili che siano -, dagli occhi e dalla pelle degli umani raccontati dai fratelli D’Innocenzo traspare, suda, vince un’ontologia del buio.

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