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Gnosi / Nietzsche / Metaverso / Poesia

Da martedì 18 a giovedì 20 aprile 2023 il filosofo e poeta Eugenio Mazzarella parteciperà ad alcuni eventi che si svolgono a Catania, a due dei quali collaborerò anch’io.
Li riassumo sinteticamente qui:

-martedì 18 aprile, ore 16.00, Dipartimento di Scienze Umanistiche, Sala Rotonda del Coro di Notte, presentazione del volume di Lucrezia Fava Heidegger e la Gnosi (Mimesis 2022);
-mercoledì 19 aprile, ore 10.00, Dipartimento di Scienze Umanistiche, aula 252 (e non aula A4 come indicato nella locandina) lezione per gli studenti di Filosofia teoretica (e per chiunque fosse interessato) su Nietzsche / Metaverso;
-mercoledì 19 aprile, ore 18.00, libreria Feltrinelli, dialogo con Giuseppe Frazzetto e Lucrezia Fava su Contro Metaverso. Salvare la presenza (Mimesis, 2022);
-giovedì 20 aprile, ore 10.30, Dipartimento di Scienze Umanistiche, aula 31, dialogo sulla più recente raccolta poetica di Mazzarella, Cerimoniale (Crocetti editore 2023)

I primi due eventi sono organizzati dall’ASFU (Associazione Studenti di Filosofia Unict) e dal progetto di ricerca di Ateneo EuRoad (Europa Tràdita).

 

 

 

«Risorsa infinita, perpetua festa»

Emil M. Cioran
La tentazione di esistere
(La tentation d’exister, Gallimard 1956)
Trad. di Lauro Colasanti e Carlo Laurenti
Adelphi, 2022
Pagine 215

Segno di contraddizione, gioco di contraddizione, è la riflessione di Emil Cioran. A partire dal rimprovero mosso a chi abbandona la propria lingua d’origine – «Chi rinnega la propria lingua per adottarne un’altra, cambia d’identità, anzi di delusioni» (p. 57) – e l’averla appunto abbandonata. Proseguendo con un’articolata e ampia condanna dello scrivere scritta da chi ha fatto della scrittura la propria esistenza quotidiana. Per arrivare infine alla esatta denuncia rivolta alla filosofia moderna di aver instaurato «la superstizione dell’Io» (21) e imperniare poi l’intera propria meditazione su una soggettività angosciata, depressa, malinconica, triste; ammettendo, in riferimento agli individui e alle civiltà, di essere diventato «il fanatico di una carogna» (24).
E tuttavia la lucidità di Cioran va di slancio oltre le proprie debolezze e contraddizioni e coglie con sintetica efficacia alcuni dei momenti chiave del contemporaneo e della storia. 

Il tradimento di molti intellettuali, ad esempio, che preferiscono le catene dell’illusione alle «peregrinazioni della Conoscenza» (37), che scelgono il conforto di una sinecura al compito della libertà. Intellettuali che, allo stesso modo delle masse ma con una responsabilità che le masse non hanno, si fanno corifei di una filosofia della storia nata dal convergere della Provvidenza cristiana e del Progresso borghese con le vittorie coloniali dei conquistadores. Intellettuali che, allo stesso modo delle masse ma con una responsabilità che le masse non hanno, si fanno in ogni loro riga e parola difensori del messianismo statunitense, di un’America che «si erge di fronte al mondo come un nulla impetuoso, come una fatalità priva di sostanza […] un mostro di superficialità» (33). Intellettuali che, allo stesso modo delle masse ma con una responsabilità che le masse non hanno, abbandonano lo spirito critico e scettico che ha  caratterizzato la filosofia europea da Socrate in avanti per farsi portatori anch’essi, al modo dei preti, «di una verità semplice, di una risposta che li liberi dai propri interrogativi, di un vangelo, di una tomba» (38), come quella che ha trasformato la scienza in una prospettiva «minacciosa, fonte di spavento» (190) e – con la vicenda dell’epidemia Covid – in una pratica di violenza collettiva poiché «chi trema sogna di far tremare gli altri, chi vive nello spavento finisce nella ferocia» (173).

A fondamento di queste e altre tristezze sta anche per Cioran la fine del mondo pagano, così efficacemente richiamato: «Dove sono la nostra sensibilità innica, l’ebbrezza delle origini, l’alba dei nostri stupori? Gettiamoci ai piedi della Pizia, ritorniamo alle nostre antiche aspirazioni: filosofia dei momenti unici, sola filosofia» (154). La fine del paganesimo è stata causata e affrettata (è la stessa motivazione che ne dà Nietzsche) da una crisi interna di quel mondo che aveva perduto fiducia, ironia e sorriso – il sorriso dei κοῦροι – ma che fu comunque il cristianesimo a uccidere. Alla gioia e alla tragedia del mito greco il cristianesimo sostituì «una mitologia di schiavi» che, ad esempio nell’Apocalisse, si mostra come «vendetta, bile e avvenire malsano» (89) e nel latino cristiano trasforma la bella «lingua di Tacito» in una parlata «deformata, banalizzata, costretta a subire le farneticazioni sulla Trinità!» (118).
Radice del cristianesimo è naturalmente l’Antico Testamento, è Yahweh, un dio «attaccabrighe, rozzo, lunatico, verboso», che «poteva al massimo soddisfare le necessità di una tribù», un dio interpretato da Cioran in una chiave anche gnostica che ne fa «un usurpatore che subodorando il pericolo teme per il suo regno e terrorizza i suoi sudditi» (72). A diffondere il culto di questo demiurgo usurpatore fu Paolo di Tarso, la cui teologia è «un’orgia di antropomorfismo» (160).
Su Paolo, e sul suo prosecutore Lutero, Cioran riprende le analisi e anche il linguaggio di Nietzsche, descrivendo la patristica che da Paolo nacque come un mondo di nemici delle Muse, di «forsennati che ancora oggi ci ispirano un panico misto ad avversione. Il paganesimo li trattò con ironia, arma inoffensiva, troppo nobile per sottomettere un’orda restia alle sfumature. Il delicato che ragiona non può misurarsi con il beota che prega. Irrigidito nelle vette del disprezzo e del sorriso, soccomberà al primo assalto» (163). Per quanto riguarda Martin Lutero, «questo Rabelais dell’angoscia era più adatto di chiunque altro a rinvigorire un cristianesimo sempre più debilitato e slavato» (167).
A proposito del plesso ebraismo-cristianesimo, Cioran può contribuire a intendere più correttamente le pagine dei Taccuini neri di Heidegger dedicati al rapporto tra cultura ebraica e desertificazione. Si tratta infatti di un dato antropologico che ogni analisi priva di pregiudizi non può che confermare. Scrive infatti Cioran che non bisogna dimenticare che gli ebrei «furono cittadini del deserto, che lo custodiscono ancora in se stessi come loro spazio intimo, e lo perpetuano attraverso la storia» (73); e aggiunge una interessante osservazione etnologica sui ghetti disseminati in Europa, visitando i quali non si può «fare a meno di notare che la vegetazione ne era assente, che nulla vi fioriva, che tutto era secco e desolato: isolotto bizzarro, piccolo universo senza radici» (73). L’equiparazione tra ebraismo e desertificazione indica questo semplice dato storico, che soltanto malafede e pregiudizio possono trasformare in altro.

Tornando alle questioni metafisiche, l’elemento più debole del pensiero e dell’esperienza di Cioran è la sua avversione contro il tempo. Avversione però anch’essa contraddittoria poiché se da un lato lo scrittore auspica una cura di eternità che disintossichi dal divenire, ammette «tuttavia che noi siamo tempo, che produciamo tempo» (25).
Tempo che è l’altro nome del morire e del nulla e dunque della sostanza di cui siamo fatti. La morte è insieme una «situazione limite» e un «dato immediato» (205). Il Nulla, che Cioran scrive appunto in maiuscolo, è la confortevole situazione del «non essere niente – risorsa infinita, perpetua festa» (197) che libera dalla tentazione di esistere.

Un amore

Hannah e Martin, tra le lettere il segreto di un amore
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
23 marzo 2023
pagine 1-5

Heidegger sapeva che «nonostante tutto, a prescindere dalla durata della mia vita personale, ho molto tempo» (lettera n. 68 di M.H., 15.9.1950). Una donna meravigliosamente intelligente, politicamente scorretta, una donna innamorata di Martin Heidegger sino alla fine dei suoi giorni, dà al filosofo conferma della unicità e grandezza del cammino di pensiero da lui intrapreso, percorso, costruito: «sai già da solo che non ci sono tuoi pari» (lettera n. 133 di H.A., 28.7.1971).

Sono contento di aver avuto l’occasione di scrivere sull’Epistolario tra Hannah Arendt e Martin Heidegger. Un documento tradotto in italiano da Einaudi e che consiglio a coloro che sanno (e a quanti desiderano saperlo) che la filosofia costituisce anche la pienezza della vita, delle passioni, dei corpi, della solitudine, delle relazioni, della gioia.

Umanismo e metamorfosi

Recensione a:
Sandro Gorgone
Il trionfo di Proteo
Tecnica e metamorfosi dell’umano
InSchibboleth, 2021
Pagine 260
in Scienza & Filosofia
numero 28 / dicembre 2022
Pagine 257-260

Sandro Gorgone mostra quanto ingiustificate siano le interpretazioni che pongono il pensare heideggeriano in continuità con la tradizione umanistica. E tuttavia disegna poi una caratterizzazione dell’antiumanismo heideggeriano come «iper-umanistica» e posta a difesa della «dignità umana», interpretazione smentita in parte dallo stesso autore quando deplora Heidegger per l’assenza nella sua filosofia di un’etica, assenza testimoniata anche dal suo «pronunciarsi contro i valori umanistici tradizionali e in genere contro ogni tipo di valore».
Un altro limite del libro è la separazione ontologica tra l’umano e l’animale, come se ad “animale” corrispondesse davvero qualcosa e non fosse invece da sempre una parola pensata per il dominio, uno strumento linguistico fondamentale per la pretesa separativa umana.
Eppure le belle pagine dedicate alla metamorfosi in Goethe avrebbero potuto costituire una salvaguardia da tali cadute. Vi si legge infatti della inseparabilità nei viventi e nelle piante di Vis centrifuga – differenza – e Vis centripeta – identità. La metamorfosi non assimila né separa ma trasforma, espressione anch’essa del tempo.

Oligarchie

Un càveat, un avviso, la necessità di stare attenti e scrutare con cura il presente.
Apprezzo molto chi lo fa, permettendoci di riflettere ed eventualmente anche di dissentire. E non mi interessano il nome, la qualifica, la posizione politica, le preferenze ideologiche di chi avverte di un rischio che si avvicina. Mi interessa che il rischio sia reale. In questo caso lo è. E dunque consiglio la lettura integrale del breve testo di Roberto Pecchioli uscito su «Ide&Azione» il 13 gennaio 2023. Si intitola Teoria e prassi del collettivismo oligarchico.
Ne trascrivo qui alcuni brani (i link sono aggiunti da me e si riferiscono a pagine di questo sito nelle quali ho discusso di alcuni degli argomenti trattati da Pecchioli).

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Nell’intero corso del tempo sono esistiti al mondo tre tipi di persone: gli Alti, i Medi e i Bassi. Inizia così un libro nel libro, Teoria e prassi del collettivismo oligarchico, inserito da George Orwell nel suo capolavoro, 1984. Il testo è vietatissimo in quanto sarebbe l’opera ideologica di Emmanuel Goldstein, l’arcinemico del partito unico. Tuttavia Goldstein non esiste, è una creazione del potere, quindi Teoria e prassi del collettivismo oligarchico è un falso, una psyop (operazione psicologica) contro il popolo, una modalità per attirare, riconoscere e colpire i dissidenti. Non siamo distanti dal mondo di 1984. Siamo entrati davvero nel triste mondo del collettivismo oligarchico.

Il titolo del primo capitolo di Teoria e prassi del collettivismo oligarchico è “l’ignoranza è forza”, uno dei tre slogan che campeggiano sulla facciata del Ministero della Verità. Niente di più essenziale per il potere: maggiori sono le conoscenze tanto più si è preda di dubbi e contraddizioni.

Chi comanda conosce bene una riflessione di Arthur Schopenhauer: «ciò che il gregge odia di più è chi la pensa diversamente; non è tanto l’opinione in sé, ma l’audacia di pensare da sé, qualcosa che esso non sa fare». Siamo lieti di non avere/essere nulla, purché il Signore getti qualche briciola attraverso vassalli, valvassori e valvassini.

Presto verrà spalancata la finestra di Overton dello stravolgimento delle abitudini alimentari: pancia mia fatti capanna di larve, blatte e farine di insetti. I ragazzi reclameranno la pizza con i grilli e le cavallette. Non solo lo chiede il Grande Fratello con incessante propaganda, ma è per la solita, ottima causa: l’ambiente.

Sì, l’ignoranza è forza, specie se accompagnata da un’impressionante capacità di assorbire come spugne – senza mai porsi domande – tutto ciò che viene propagandato dal potere.

Lezioni di sostenibilità da chi ha ammorbato il mondo e sfruttato sfacciatamente popoli e risorse naturali; richiami di moralità da parte di oligarchie corrotte sino al midollo, nel corpo e nell’anima.

Un monito dell’autore di Arcipelago Gulag: «se ancora una volta saremo codardi, vorrà dire che siamo delle nullità, che per noi non c’è speranza, e che a noi si addice il disprezzo di Puskin: a che servono alle mandrie i doni della libertà? Il loro retaggio, di generazione in generazione, sono il giogo con i bubboli e la frusta».

Il collettivismo è per noi, l’oligarchia sono loro. Vogliono la fine della proprietà privata diffusa, a cominciare dalle case d’abitazione. Infatti l’UE – uno dei cagnolini fedeli del Forum – impone ristrutturazioni costosissime per scopi energetici (l’ossessione green degli inquinatori globali) che metteranno in crisi il mercato e costringeranno molti a vendere a prezzi stracciati il bene più prezioso. Chissà chi comprerà.

Nel paradiso della libertà è obbligatorio il linguaggio “inclusivo”. In Canada, laboratorio privilegiato della perfezione, si può essere costretti alla “rieducazione” (l’evidenza totalitaria sfugge per mancanza di neuroni) se si utilizzano pronomi personali errati. La legge C-16 protegge l’identità di genere punendo le violazioni con il carcere sino a due anni. Un celebre psicologo, Jordan Peterson, è stato condannato a seguire un corso di rieducazione verbale e mentale.

Quella che viviamo è una fulminea transizione neofeudale.

A che servono le elezioni, se una serie sterminata di vincoli esterni (BCE, UE, MES, FMI, NATO, OMS, ONU, WEF, infernali acronimi del Dominio) impediscono alla volontà popolare – se mai si manifestasse in termini antagonisti – di diventare norma? E, in Europa, come si possono cambiare le cose se gran parte delle leggi che scandiscono la nostra esistenza derivano da regolamenti (eufemismo da vita condominiale) emessi da una Commissione, un sinedrio non eletto, ratificati senza discussione – sono migliaia ogni anno – da un parlamento privo di potestà legislativa?

Il giurista nazionalsocialista Ernst Forsthoff spiegò il significato che per i dominanti ha la legalità «Chi ha lo Stato, fa le leggi e, cosa non meno importante, le interpreta. Egli stabilisce che cosa è legale. La legalità è qualcosa di puramente formale e non significa altro se non che la volontà di un partito è diventata disposizione di legge. La legalità è il mezzo con cui colpire il nemico politico: dichiarandolo illegale, ponendolo fuori dalla legge, squalificandolo dal punto di vista morale e consegnandolo all’eliminazione per mezzo dell’apparato statale». Teoria e prassi del collettivismo oligarchico.
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Una volta, nel 1929, a Davos si riunivano i filosofi (Cassirer e Heidegger) per dialogare e discutere con passione sulle modalità e gli scopi della conoscenza e su altre tematiche filosofiche. Dopo un secolo quella città è preda del World Economic Forum (WEF) di Klaus Schwab e di altri visionari e ingegneri delle distopie totalitarie, di coloro che dettano le regole e le forme ai parlamenti e ai governi di un Occidente diventato terra della tristezza.

 

Costruire

10 architetture italiane
Palazzo della Triennale – Milano
A cura di Matteo Ghidoni, Enrico Molteni e Vittorio Pizzigoni
Sino al 29 gennaio 2023

Opportuna e significativa è la decisione di presentare progetti che sono già diventati spazio e materia o che sono in via di realizzazione. Opportuna perché l’architettura o diventa luogo oppure ha poco senso. Significativa perché questa piccola rassegna dimostra che è possibile creare spazi belli da abitare, qualunque sia l’idea formale che li ispira, il contesto nel quale si collocano, i materiali utilizzati.
I curatori scrivono che «ognuno dei dieci progetti tre ville, un polo ricettivo, un teatro, una galleria, un negozio, un portale, una loggia e un giardino pubblico è rappresentato attraverso un modello, con l’intento di offrire uno sguardo sul presente dell’architettura nazionale». I luoghi vanno dall’Albania e dalla Spagna a Firenze e Roma, dall’Olanda e dal Marocco a Terni (immagine di apertura) e alla Val d’Arno, con una villa in costruzione in Sicilia, in Val di Noto (immagine qui sotto).
Ovunque accada e qualunque sia la sua tipologia, il costruire e l’abitare appaiono nella relazione che Heidegger ha individuato con la consueta lucidità: «Il costruire non è soltanto mezzo e via per l’abitare, il costruire è già in se stesso un abitare. […] Il modo in cui tu sei e io sono, il modo in cui noi uomini siamo sulla terra, è il Buan, l’abitare. Esser uomo significa: essere sulla terra come mortale; e cioè: abitare»; «Solo se abbiamo la capacità di abitare, possiamo costruire».
Lo si dice alle pagine 97 e 107 del testo più profondo e disvelatore che conosca sul significato e il senso dell’architettura. Si intitola «Costruire abitare pensare» e fa parte del volume Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia 1976.

Una metafisica antropodecentrica

La metafisica come antropodecentrismo
in Mechane. Rivista di filosofia e antropologia della tecnica
n. 3/2022
pagine 45-57

Indice
-Martin Heidegger e Eugenio Mazzarella
-Il campo metafisico
-Il campo anarchico-ermeneutico: Schürmann
-Metafisica e antropodecentrismo

Abstract
The essay tries to grasp starting from Heidegger and beyond Heidegger, from Mazzarella and beyond Mazzarella, the anthropodecentric structure that constitutes the real reason for the fecundity and necessity of metaphysics. Human meaning, its history and its future are inseparable from the atomic, molecular, thermodynamic story of the cosmos. Metaphysics, πρώτη φιλοσοφία, is also this attempt to observe and understand the world from the point of view of matter, of the whole, of the Φύσις.

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Aggiungo qualche altra parola al contenuto sempre necessariamente stringato dell’abstract.
Mia convinzione è che la struttura antropodecentrica costituisca la vera ragione di fecondità e necessità della metafisica. Ho cercato in questo testo di confrontarmi sia con Mazzarella sia con la lettura anarchica e antimetafisica che Reiner Schürmann ha dato del cammino heideggeriano.
Metafisico è infatti lo sguardo antropodecentrico, così diverso dalla centralità dell’umano e della soggettività che caratterizza invece il pensiero cristiano, cartesiano e moderno. Pensare la nostra specie come senso, centro e vertice significa concepire ancora una volta l’umano come un impero dentro l’impero, errore dal quale Spinoza ci ha messo in guardia con grande chiarezza. L’obiettivo è invece la delineazione di un campo metafisico nel quale l’umano è soltanto una parte trascurabile dell’intero, del cosmo, dell’essere.
Il saggio parte dalla centralità della relazione essere/esserci che Eugenio Mazzarella ha sempre posto alla base del cammino di pensiero di Heidegger. La salvaguardia di un elemento è condizione per la salvezza dell’altro, tanto che l’essenza umana è individuata nella costante apertura all’essere, che significa anche e immediatamente riconoscimento ‘greco’ dei limiti dell’umano, della finitudine, dell’inoltrepassabile che è il morire come destino e sostanza di tutto ciò che è vivo.
È qui che affonda la questione della tecnica, al di là di eventi storici, prospettive epistemologiche, inquietudini politiche. Affonda nei limiti umani e nel loro impossibile e quindi autodistruttivo superamento. A salvare l’οἶκος e a garantire dentro di esso l’umano è necessaria la rimemorazione di una finitudine biologica che è figura della colpa ontologica insita nell’esserci, come la filosofia sa da Anassimandro a Heidegger. I grandi temi gnostici della colpa e della pena sono stati affrontati tematicamente da Mazzarella solo nelle opere più recenti ma la loro genesi sta nel gioco di finitudine e ὕβρις che l’umano è da sempre.
Antiumanista come antiumaniste sono le filosofie di Marx e di Nietzsche, il pensiero di Heidegger è disvelatore dei limiti intrinseci a ogni prospettiva e progetto umanistici mediante il pieno riconoscimento di una differenza ‘ontologica’ proprio nel senso della differenza che sta a fondamento dell’essere. L’umano è sempre la situazione che lo precede, nella quale è comparso e in cui rimane gettato per l’intera sostanza dei suoi giorni; l’umano è dunque sempre una ben precisa possibilità che compare, accade e agisce dentro i bastioni del tempo storico che gli è stato destinato dall’eventuarsi della realtà. Il venire alla presenza non è niente di soggettivo e coscienzialistico, non ha a che fare con qualche volontà e proponimento, non è nulla di umanistico e nemmeno di antropologico.
Il punto chiave è che a essere finita non è soltanto l’umana esistenza, il Dasein, ma è «l’essere stesso in quanto tempo» (Sein und Zeit, § 47), l’essere come di-venire alla presenza per poi tornare nell’assenza. L’essere in quanto dissoluzione e processo.
Cerco insomma di leggere l’ontologia, anche quella heideggeriana, in profonda relazione con la cosmologia e la termodinamica.

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