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Respect

Triangle of Sadness
di Ruben Östlund
Svezia, 2022
Con: Harris Dickinson (Carl), Charlbi Dean Kriek (Yaya), Vicki Berlin (Paula), Zlatko Buric (Dimitri), Woody Harrelson (il Capitano)
Trailer del film

Un elenco di elementi inquietanti e insieme del tutto quotidiani nel presente della correttezza, del linguaggio purificato da ogni benché minima possibilità di offesa, del dovere di essere tutti propositivi, sorridenti, accoglienti, inclusivi. E dunque fasulli. Falsi non da un punto di vista morale ma al modo in cui si parla di oro vero e oro falso. Il politicamente corretto è questo falso, che pretende di trasformare il ferro in legno, lo sciocco in intelligente, la merda in valore.
Ogni elemento centrale e periferico del film ha una dimensione dirompente perché totalmente metaforica. Li elenco alla rinfusa e nell’ordine di apparizione: un casting di modelli per sfilate e servizi di moda, che vengono pagati un terzo delle modelle e subiscono continui tentativi di seduzione omosessuale. Una coppia formata da un’influencer, che si chiama Yaya, e dal suo compagno Carl, coppia che litiga in modo furibondo su chi debba pagare il conto al ristorante; lui protesta perché vittima dello stereotipo di genere e costretto quindi a essere sempre il solo a pagare la cena alla signora. La stessa coppia ha ottenuto in regalo/remunerazione la crociera in uno yacht di ultralusso abitato da uomini d’affari russi ferocemente anticomunisti la cui attività è «vendere merda», vale a dire fertilizzanti; da un capitano statunitense marxista e perennemente ubriaco; da due integerrimi e anziani sposi inglesi che parlano continuamente di amore e di onestà e che si lamentano delle regole poste dall’ONU alla fabbricazione e diffusione delle mine antiuomo, «norma che ci ha costretti a perdere il 25% dei nostri introiti»; da ricchissimi e timidi imprenditori a caccia di femmine; dal personale di bordo che sorride sempre e dice sempre «Sissignore» anche alle richieste più strampalate; dal personale di pulizia proveniente dall’Asia. A bordo Carl passa il tempo anche leggendo l’Ulysses di Joyce.
Tutte queste e altre persone partecipano a una «Cena del Capitano» dove si servono le più rare prelibatezze ma durante la quale, anche a causa del mare mosso, il nutrimento finisce tutto in vomito, cacca e morte.
Quella stessa sera la nave viene attaccata dai pirati e i pochi sopravvissuti si ritrovano su un’isola. Tra loro la donna che si occupava di pulire i bagni dello yacht e che ora diventa invece la matriarca, la padrona e capitana, poiché – come ha ben detto Hegel – il servo può fare a meno del padrone ma il padrone non può fare a meno del suo servo. I naufraghi si contendono le pochissime risorse disponibili, rubano dei crackers, sottostanno ai desideri sessuali della ex pulitrice di cessi per ottenere da lei cibo e favori. Ma basta andare dall’altra parte dell’isola per scoprire una realtà diversa dalla struttura roussoviana e insieme hobbesiana nella quale gli ex ricchi e gli ex poveri sono entrati, una realtà normale, nel senso che è la norma del presente.
«Siamo messi male, siamo messi molto male» dice la nuova padrona asiatica. Fino a sfiorare forse l’assassinio ma lasciando il finale intelligentemente aperto alla interpretazione dello spettatore.
L’intero film è una metafora ordinata, caotica, analitica, amara e divertente del naufragio dell’Europa negli spazi del proprio male. Un Triangolo della tristezza nel quale, come nel precedente The Square, l’umanità e la civiltà europea sprofondano, convinti che «there is no alternative» alla suscettibilità individualistica, all’omologazione ideologica, alla dissoluzione della biologia nel Gender, all’informazione diventata oracolo della verità, all’ingiustizia travestita da equità, all’ignoranza in apparenza di respect.

«Il proprio tempo appreso nel pensiero»

È vero: «die Philosophie ihre Zeit in Gedanken erfaßt» (Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, prefazione), la filosofia (è) il proprio tempo appreso e colto nel pensiero, o almeno è anche questo. E dunque il breve e denso disegno che Davide Miccione traccia del nostro tempo è del tutto filosofico. Intelligenza del presente e chiarezza analitica descrivono infatti esattamente ciò che accade e la direzione che si sta cercando di imprimere alla vita collettiva, ovunque.
Il testo è uscito su Aldous il 10.9.2022, con il titolo Il nominabile attuale.

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Qualora fosse umanamente possibile, la campagna elettorale aumenta la confusione. Questioni gravi e questioni irrilevanti, problemi reali e capziosità, paure vere e chiamate alle armi di sessant’anni fa ritirate fuori oggi alla bisogna, si accavallano senza sosta. “L’innominabile attuale”, il presente incomprensibile entro cui seguiamo o persino pretendiamo di guidare gli altri (come nella bruegeliana parabola dei ciechi) si fa ancora più confuso, aumentano gli slogan e i distinguo, le false bandiere e i distrattori. Diventa allora necessario, accettando preventivamente il giudizio di superficialità e di indebita semplificazione che sempre ci si attira, provare a definire gli elementi essenziali del nostro (lungo e perdurante) presente politico. Posto in bell’ordine il catalogo è questo:

  1. I ricchi diventano e devono diventare sempre più ricchi.
  2. I ricchi devono “potere” sempre più, dunque sempre meno devono essere gli aspetti della vita sulla terra non riducibili nella sua interezza al valore e al potere del denaro (per farsi un’idea degli aspetti descrittivi si vedano i lavori di Michael Sandel).
  3. Lo Stato si può impoverire o indebolire se ciò è utile al punto 1 o può acquisire importanza se ciò è utile al punto 1. Si veda a tal proposito la demolizione del welfare in questi decenni e viceversa il potentissimo Stato ambulatoriale di questi tre anni.
  4. Le procedure democratiche devono diventare irrilevanti in modo da non disturbare lo sviluppo dei punti 1, 2 e 3.
  5. Le procedure democratiche possono essere momentaneamente enfatizzate se servono allo sviluppo dei punti 1, 2 e 3.
  6. Quasi tutti i prodotti ideologici o culturali passati (dai sumeri al Novecento), fatto salvo qualche sparuto aspetto della ragione liberale, si pongono, anche senza volerlo o saperlo, come forme di resistenza allo sviluppo dei punti 1 e 2 perlopiù per un loro implicito non mettersi pienamente a disposizione. Dunque vanno sottoposti a character assasination (Islam, comunismo ad esempio), o a indebolimento, svuotamento eccetera, con moto uniformemente accelerato.
  7. Il processo dei punti 1 e 2 viene chiamato capitalismo, mercatismo, finanzcapitalismo, turboliberismo eccetera sebbene a volte si incarni in grandi organismi internazionali (ovviamente non eletti) o Stati.
  8. Quando alcuni attori che perseguono il punto 1 e il punto 2 hanno necessità di agire attraverso i governi o vi si identificano momentaneamente ciò viene chiamato geopolitica.
  9. Il processo dei punti 1 e 2 è necessario venga visto come irreversibile da tutti e come l’unico pensabile e non sostituibile da altro (vedi il compianto Mark Fisher).
  10. Per mantenere inimmaginabile qualsiasi altro tipo di mondo non basato su 1 e 2 va eliminata la storicità come categoria di giudizio del reale e la conoscenza del passato. L’operazione (già a buon punto) viene portata avanti per omissione (indebolimento dell’insegnamento della storia e degli aspetti storici di ogni disciplina) e attivamente con la promozione di quell’aborto concettuale che è la cancel culture, concezione che dell’alterità fa un medesimo difettoso da emendare e da condannare in quanto non uguale a noi.
  11. Per mantenere inimmaginabile un altro tipo di mondo non basato su 1 e 2 va eliminata la filosofia o va sostituita con una filosofia settoriale e procedurale (ben si attaglia dunque la filosofica analitica) che non pensi di poter descrivere e valutare l’interezza del reale.
  12. Per mantenere inimmaginabile un altro tipo di mondo non basato su 1 e 2 va eliminata la Grande Letteratura e la sua capacità di violare la “moralina” che ogni presente pensa di incarnare pienamente.
  13. Il politicamente corretto, la cultura woke, creando una perenne preoccupazione per le offese arrecabili a individui, è un ottimo “spengipensiero” e devia l’attenzione di chi dovrebbe essere di sinistra (dunque contrario ai punti 1 e 2) verso questioni meramente linguistiche e di dettaglio. Essendo fondata sulla libera decisione dei soggetti di sentirsi offesa, la cultura woke può riprodursi ed espandersi all’infinito.
  14. Le forme attuali dell’arricchimento del punto 1 abbisognano di un uomo sempre più sbilanciato verso una pseudovita telematica e sempre meno in grado di vivere esperienze libere, corporee, amicali. Per questo la digitalizzazione è diventata sempre un bene, anche contro ogni evidenza sociologica.

Addendum: una grandissima parte delle parole e degli slogan che sentirete in questa campagna elettorale è solo una forma di subspeciazione artificialmente creata per simulare una differenza e una dialettica tra forze egualmente devote all’obbedienza dei primi due punti dell’elenco. A meno che il lettore non faccia parte dei ricchissimi o di coloro che ragionevolmente pensano di poterli parassitare per un tempo sufficientemente lungo (giornalisti, operatori finanziari, apparatčik di organismi internazionali, deputati) votare per partiti che non avversano lo sviluppo dei punti 1 e 2 (e degli altri 12 di supporto) potrebbe non essere la cosa più razionale da fare, né per sé né per il mondo.

[L’articolo è stato ripubblicato anche da Sinistrainrete]

Disvelamento

Disvelamento
Nella luce di un virus
Algra Editore, 2022
«Contemporanea, 6»
Pagine 148
€ 12,00

«La verità non si rivela che con le catastrofi»
Ingmar Bergman, Come in uno specchio (1961)

Alcuni mesi fa il Prof. Davide Miccione, Direttore della collana «Contemporanea» dell’Editore Algra (Viagrande-Catania), mi chiese di preparare un libro dedicato all’epidemia, alle sue radici, ai suoi effetti. Accolsi la proposta con slancio, per molte ragioni. Tra le quali il fatto che la filosofia sia, com’è noto, anche «ihre Zeit in Gedanken erfaßt, il proprio tempo appreso e colto nel pensiero» (Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, Vorrede, p. 25). Questi mesi di riflessione, di lavoro, di scrittura mi hanno aiutato a comprendere il significato della frase di Bergman in epigrafe. Il risultato è un libro che tra quelli sinora da me pubblicati è ai miei occhi il più urgente. Un libro nel quale e con il quale ho cercato di difendere le libertà, la razionalità e la scienza. E di mostrare che cosa può accadere quando libertà, scienza e razionalità vengono calpestate dal potere politico-mediatico.

Il testo si compone di 18 capitoli, così intitolati:
1 Don Abbondio
2 Un virus politico-visionario
3 La vita
4 Infodemia
5 Il piano inclinato
6 Numeri
7 Superstizione
8 Poteri
9 Cancellare le scuole, cancellare i luoghi, cancellare i corpi
10 Medicina e politica
11 Comunicazione e silenzio
12 La festa paternalistica
13 La solitudine del morente
14 Violenza e morale
15 Nietzsche
16 Una ferita
17 Gnosi
18 L’Intero, la Φύσις
Indice dei nomi

Questa la quarta di copertina, firmata dal Direttore della collana:
«La débâcle di questi due anni riguarda tutti: i media, la politica, il corpo sociale nel suo complesso. L’epidemia e il suo uso politico hanno messo in luce le viltà e le debolezze di interi settori, le fragilità di quella democrazia che diamo per acquisita e soprattutto la miseria teoretica e morale di coloro che dovrebbero analizzare e spiegare il mondo. Gli intellettuali, stricto o lato che sia il senso che diamo a questa parola, hanno mostrato con la loro ignavia le crepe che si sono aperte nel nostro stare consapevolmente al mondo. Biuso ci mostra come si possa leggere con parresia e compassione, con sapienza filosofica, letteraria e antropologica, questo nostro difficile passaggio storico e che cosa tutti potremmo imparare da esso».

Il volume è disponibile in varie librerie, su tutte le piattaforme e sul sito dell’editore, che ringrazio per il coraggio che ha mostrato nel pubblicare un libro lontano dalle opinioni dominanti.



 

Recensioni e articoli

-Marcosebastiano Patanè, il Pequod, anno 3, numero 6, dicembre 2022, pagine 12-21
-Sarah Dierna, Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre -ottobre 2022, pagine 205-209
-Lucrezia Fava, Vita pensata, numero 27, settembre 2022, pagine 76-80
-Stefano Piazzese, Discipline Filosofiche, 4 luglio 2022
-Enrico Palma, il Pequod, anno 3, numero 5, giugno 2022, pagine 157-162
-Chiara Zanella, Di cosa parliamo quando parliamo di virus, Aldous, 7 maggio 2022
-Intervista rilasciata a RevolutionChannel, 14 giugno 2022

Hegel

Luca Illetterati – Paolo Giuspoli – Gianluca Mendola
Hegel
Carocci Editore, 2017
Pagine 355

Il lavoro del concetto è volto anche a superare «la scissione e la lacerazione che attraversano tutti i livelli della vita» (p. 18). Superamento dal quale possa emergere «la struttura razionale del mondo» (11), elaborando una prospettiva e un sapere che cerchino di intendere razionalmente la molteplicità, varietà, negatività e incomprensibilità dell’esperienza umana. «La filosofia costituisce per Hegel anche la risposta al problema avanzato da Aristotele sulla possibilità umana di partecipare a una dimensione di pura scienza, libera dalle strutture spazio-temporali che vincolano il pensiero agli oggetti finiti e instabili dell’esperienza ordinaria» (298). Prima ancora che aristotelico, questo è un gesto eleatico, fiducioso nella identità del pensare con l’essere, della logica con la metafisica. Una logica metafisica il cui motore teoretico consiste in «un incessante e mai concluso processo di autorealizzazione e di autocomprensione» (325).
Per questo è necessario comprendere la necessità del negativo, il suo costituire una dimensione intrinseca alla razionalità dell’intero. Se omnis determinatio est negatio, è anche perché il presentarsi di un ente rende impossibile il presentarsi di ogni altro ente nello stesso luogotempo; perché l’evento che sta accadendo esclude una quantità innumerevole di altri eventi, perché ogni processo è sempre e solo l’attualizzazione di una determinata potenzialità a esclusione di molte altre che pure sarebbero state possibili. Il non, la negazione, il nulla sono quindi impliciti nell’essere non come suo residuo, non come sua accidentalità, non come suo ostacolo ma come la condizione stessa nella quale e attraverso la quale enti, eventi e processi sono resi possibili, si danno, ci sono. Questo nulla intrinseco alle strutture dell’essere è la differenza, è «die Zauberkraft, die es in das Sein umkehrt», la magica forza che volge il negativo nell’essere, una forza posta a coerente conclusione di una delle più chiare affermazioni del negativo che siano state pensate:

«Aber nicht das Leben, das sich vor dem Tode scheut und von der Verwüstung rein bewahrt, sondern das ihn erträgt und in ihm sich erhält, ist das Leben des Geistes, Er gewinnt seine Wahrheit nur, indem er in der absoluten Zerrissenheit sich selbst findet. Diese Macht ist er nicht als das Positive, welches von dem Negativen wegsieht, wie wenn wir von etwas sagen, dies ist nichts oder falsch, und nun, damit fertig, davon weg zu irgend etwas anderem übergehen; sondern er ist diese Macht nur, indem er dem Negativen ins Angesicht schaut, bei ihm verweilt. Dieses Verweilen ist die Zauberkraft, die es in das Sein umkehrt»

(Die Phänomenologie der Geistes, «Gesammelte Werke», IX, p. 27)

«Ma non quella vita che inorridisce dinanzi alla morte, schiva della distruzione; anzi quella che sopporta la morte e in essa si mantiene, è la vita dello spirito. Esso guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare sé nell’assoluta devastazione. Esso è questa potenza, ma non alla maniera stessa del positivo che non si dà cura del negativo: come quando di alcunché noi diciamo che non è niente o che è falso, per passare molto sbrigativamente a qualcos’altro; anzi lo spirito è questa forza sol perché sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui. Questo soffermarsi è la magica forza che volge il negativo nell’essere»

(Fenomenologia dello Spirito, trad. di E. De Negri, La Nuova Italia 1985, vol. I, p. 26)

Negativo significa anche che ciò che era si è dissolto e ciò che sarà ancora non è. Per questo il tempo è una delle più chiare forme, forse la più chiara, della necessità, vastità e potenza del negativo. Il cui nome necessario e fecondo è il divenire che non mira ad alcun risultato definitivo ma costituisce il processo in cui l’essere accade, è la struttura dentro la quale l’essere si rende visibile. La verità, qualunque elemento si intenda con tale parola, è la concretezza e dunque il limite del divenire. Per questo la verità non potrà mai darsi in forma definitiva ma sempre come processo. Per questo rispetto alla quieta e apparente stabilità dello spazio il tempo «è l’assoluta inquietudine di ciò che, mentre è, non è, e mentre non è, è» (213). Per questo la finitudine è intrinseca alla condizione ontologica del cosmo fatta di enti che sono eventi e la cui natura è quindi il dileguare.
Pertanto non è solo alla del tutto trascurabile componente biologica dell’essere che è intrinseca la finitudine. Ciò che per il vivente – vegetale o animale che sia – si chiama morire, è in realtà l’esperienza universale del trapassare in altro, del metabolismo, della metamorfosi, dell’entropia. La struttura biologica aggiunge piuttosto all’universale potenza del dileguare la particolarità di farlo in quel «tentativo essenzialmente ‘disperato’» (230) che è la riproduzione di una copia somigliante a sé, nella quale due entità entrambe del tutto finite presumono di differire il loro dileguarsi. Questo tentativo è una delle espressioni più chiare, drammatiche e banali della schlechte Unendlichkeit, della cattiva infinità che non smette mai di aggiungere vite a vite e dunque morte a morte:

«Dieser Prozeß der Fortpflanzung geht hiermit in die schlechte Unendlichkeit des Progresses aus. Die Gattung erhält sich nur durch den Untergang der Individuen, die im Prozesse der Begattung ihre Bestimmung erfüllt [haben] und, insofern sie keine höhere haben, damit dem Tode zugehen»

(Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, in «Gesammelte Werke», XIX, § 370)

«Questo processo della propagazione riesce alla mala infinità del progresso. Il genere si mantiene solo mediante la rovina degli individui; i quali nel processo dell’accoppiamento adempiono alla loro destinazione e, in quanto non ne hanno altra più elevata, vanno così incontro alla morte»,

(Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, trad. di B. Croce, Mondadori, 2008, § 370, p. 363).

Porsi a questo livello di comprensione del mondo non può che lasciare dietro di sé ogni etica in quanto effetto e manifestazione dello sguardo parziale sull’intero. Qui sta certamente uno dei gesti più spinoziani, e quindi radicali, di Hegel, il quale «è fermamente convinto che una considerazione filosofico-scientifica della storia sia incompatibile con una sua valutazione etica sulla base dei principi astratti e che la considerazione scientifica della storia consiste invece nel comprendere le ragioni per cui la situazione mondiale è così com’è» (292).
Questa radicalità salva la dialettica hegeliana dal rischio intrinseco a ogni idealismo e ben presente, nonostante il suo mirare all’oggettività, a chi ritiene in modo inevitabilmente cartesiano («mit Cartesius […]  können wir sagen, sind wir zu Hause», ‘con Cartesio possiamo dire d’essere a casa’, Lezioni sulla storia della filosofia, Laterza 2009, p. 469) che il pensare preceda cronologicamente e soprattutto logicamente l’essere e che dunque il pensare non debba né possa presupporre nulla prima di sé: «Questo carattere di ‘autofondatività’ – carattere che costituisce l’elemento insieme più specifico e più problematico del discorso filosofico hegeliano – è quello che consente alla scienza di essere a differenza del sistema delle conoscenze, un sapere della totalità» (104).
L’antropocentrismo idealistico hegeliano rimane comunque sempre un tentativo di pensare l’oggettività dell’essere, del nulla e del divenire; tentativo nel quale la filosofia è certamente «scienza in un senso più radicale rispetto a quanto non lo siano le scienze positive» (104), è certamente scienza del mondo nel senso che essa pensa il mondo ed è il mondo che nella filosofia pensa se stesso.

Alcol

Un altro giro
(Drunk)
di Thomas Vinterberg
Danimarca, 2020
Con: Mads Mikkelsen (Martin), Thomas Bo Larsen (Tommy), Magnus Millang (Nikolaj), Lars Ranthe (Peter), Maria Bonnevie (Trinie)
Trailer del film

Una qualsiasi variazione dei valori biochimici del corpomente determina una modificazione più o meno profonda dei comportamenti, dello sguardo, dei pensieri, delle paure e delle euforie di qualunque animale, compreso l’animale umano. È questo uno dei fondamenti della vita e di tutte le dipendenze, dal cibo all’amore, dal danaro alle droghe.
Tra quattro professori/amici di una scuola di Copenhagen, l’insegnante di psicologia riferisce una sera a cena la tesi dello psichiatra Finn Skårderud per il quale gli umani nascono con un tasso alcolico troppo basso, che dovrebbero invece alzare e mantenere costante per favorire interazioni, iniziative, energia. I quattro amici, in particolare l’insegnante di storia Martin, decidono di mettere alla prova l’ipotesi di Skårderud. Bevono quindi regolarmente dalle 8 del mattino alle 20, escludendo la notte e i fine settimana, controllando costantemente il tasso alcolico che ne risulta. Vita coniugale e familiare, interazioni con gli studenti, complessiva tonalità esistenziale ne vengono decisamente migliorati. L’esistere somiglia sempre più a una sfida e a una festa. Naturalmente, però, i problemi non tardano a emergere, poiché è impossibile mantenersi a lungo sul crinale tra ebbrezza e autocontrollo. Al di là dell’abbandono e del dolore, tuttavia, il film si conclude con la festa che docenti e allievi condividono, fatta di abbracci e di danza, irrorata da bevande.
Drunk. Ubriachi di desiderio e di significato siamo noi umani. Siamo chimica che cammina e che nei suoi circuiti cerebrali si crede invece fatta dell’immateriale perfezione dei cieli. Lo slancio che ci conduce verso la gloria d’esserci è radicato nelle cellule che assorbono energia dagli alimenti e dall’aria; gli enzimi lavorano incessantemente a trasformare gli elementi in vita che continua; le molecole diventano pensieri. È anche e specialmente questa potenza materica ad accomunarci all’intero e ogni volta a salvarci dalla pretesa di una differenza ontologica radicale che è soltanto una delle tante nostre fantasie di dominio. È questo, e non lo «Spirito», a far sì che gli umani sentano vicino a sé ogni giorno «ihren Herrn, den Tod», ‘il loro padrone, la morte’ (Hegel, Fenomenologia dello spirito, VI «Der Geist», A a, p. 18).
Un poco ironico ma significativo è che Geist significhi spirito e significhi anche alcol. E questo già dall’arabo al-ghūl, vale a dire: lo spirito come la componente volatile di una sostanza, ottenuta per distillazione, o -come si legge in un sito dedicato alle bevande alcoliche – «la bevanda spiritosa ottenuta mediante macerazione di frutti e di bacche non fermentati sopra elencati o di ortaggi, noci o altre materie vegetali quali erbe o petali di rosa». Petali di rosa.
Tutto questo è narrato da Vinterberg con una costante attenzione (come sempre nelle sue opere) alla dimensione educativa della vita, con gli studenti che cantano inni patriottici e si sfidano in gare di bevute, con Kierkegaard  e la sua apologia del fallimento e dell’angoscia, con la danza e il volo dionisiaci sui quali il film si chiude.

Pentitevi!

Una delle più gravi espressioni e conseguenze del politicamente corretto è la cancel culture, la riscrittura moralistica di secoli di conoscenza, arte, filosofia e anche eventi storici. Che naturalmente non possono essere cancellati o alla lettera riscritti tramite un’epurazione degna dei grandi regimi totalitari ma possono essere riletti, interpretati e soprattutto condannati. L’obiettivo è fare «tabula rasa della storia e della cultura occidentale, tutta colonialismo, imperialismo, razzismo, e schiavismo, praticando un’iconoclastia sconsiderata che dovrebbe spianare la strada a un futuro di armonie, di uguaglianze, reciproco rispetto, totale autodeterminazione, simbiosi con la natura e con l’intera umanità. Questo irenismo e questa tendenza all’autoflagellazione rappresentano un rischio molto serio per la nostra società» (M. Barbi, Occidente, progetto da ricostruire, in «Le Sfide», n. 9, aprile 2021, p. 6).
Un rischio che ha avuto ovviamente origine negli Stati Uniti d’America e da lì va diffondendosi ovunque: «Les États-Unis sont en proie à une hystérie morale – notre sport national – sur les questions de race et de genre, qui rend impossible tout débat public rationnel» (‘Gli Stati Uniti sono in preda a una isteria morale  -il nostro sport nazionale- sulle questioni di razza e di genere, tale da rendere impossibile qualsiasi dibattito pubblico razionale’, M. Lilla, La gauche identitaire. L’Amerique en miettes, Stock, Paris 2018, pp. 7-8).
La cancel culture ritiene infatti che la schiavitù sia stata praticata soltanto dai bianchi, i quali l’hanno certamente messa in atto ma poi l’hanno abolita mentre essa prospera tuttora in varie zone dell’Africa e dell’Asia. La cancel culture ritiene che un bianco sia geneticamente razzista, anche quando afferma il contrario. La cancel culture guarda e giudica l’intera cultura europea con la categoria della razzializzazione dei rapporti sociali, che cancella ogni altra identità e differenza. La cancel culture cancella in questo modo anche la lotta di classe, sostituita dalla lotta tra coloro che ritengono di essere maschi e femmine e quanti invece sanno (furbi come sono…) che questa identità biologica è solo un pregiudizio educativo; lotta sostituita dal conflitto tra bianchi e neri, elevati a categorie assolute in un paradossale -ma non tanto- trionfo della prospettiva razzista.
Da questa riduzione di ogni conflitto a quello di genere e di razza il capitalismo ha tutto da guadagnare, ad esempio con le tante Carte etiche da parte delle aziende che pensano in questo modo di nascondere le loro pratiche di sfruttamento. Chiunque può constatare il proliferare di pubblicità politicamente correttissime: gli spot multirazziali si moltiplicano e si arriva alla decisione della L’Oréal di eliminare dai suoi prodotti e slogan qualunque allusione alla bianchezza e alla biondezza. Ma è solo un esempio. Un altro è l’ostracismo nei confronti delle favole, nelle quali -inevitabilmente- c’è qualcuno additato come cattivo: che sia il lupo, la regina, il cacciatore, il selvaggio, il nero. In alcune favole compaiono poi addirittura dei nani, o meglio dei ‘diversamente alti’. Tranne sostituire però i vecchi cattivoni con dei cattivi nuovi di zecca, che sono naturalmente coloro che vedono e dicono quanto di insensato e pericoloso ci sia nel proibire la lettura di Shakespeare o di Dante Alighieri (succede in varie università anglosassoni) in quanto antisemiti e antislamici, per non dire bianchi e inguaribili maschilisti. Ne ha fatto le spese anche la statua di David Hume a Edimburgo, uno dei pochi nomi dei quali la Scozia possa vantarsi, reo di non aver condannato abbastanza la tratta degli schiavi, stessa omissione della quale fu colpevole tra i numerosi altri Voltaire.
Si tratta chiaramente di barbarie, di una esiziale miscela di ultramoralismo, di ignoranza e superficialità; si tratta della immersione «nell’aggressività lacrimosa, nella concorrenza vittimistica e nell’emozionalismo sensazionalistico» (A. De Benoist, Diorama Letterario, n. 361, maggio-giugno 2021, p. 20). Si tratta del riaffiorare di antiche tendenze ascetiche e penitenziali, intrise di risentimento e di odio. Tutto questo condito con l’immancabile ingrediente di ogni ferocia: il sentimentalismo, il quale «si adopra a indagare le particolarità, passioni e debolezze degli altri uomini, le cosiddette pieghe del cuore umano» (Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, trad. di B. Croce, Mondadori 2008, § 377, p. 371) e che mostra tutta la sua micidiale forza di incomprensione, equivoco e miseria nel discorso pubblico -i Social Network ad esempio– che fa costantemente appello alle esperienze di vita, ai casi concreti, al sapere che cosa si prova (ad esempio al ‘vieni in un ospedale se vuoi capire il covid’); uno psicologismo sentimentalistico che merita parole assai chiare come queste: «Quando un uomo, discutendo di una cosa, non si appella alla natura e al concetto della cosa, o almeno a ragioni, all’universalità dell’intelletto, ma al suo sentimento, non c’è altro da fare che lasciarlo stare; perché egli per tal modo si rifiuta di accettare la comunanza della ragione, e si richiude nella sua soggettività isolata, nella sua particolarità» (Ivi, § 447, p. 439).
Di fronte all’invito fondamentalista e irrazionale al Pentiti! -pèntiti di essere europeo, bianco, maschio, eterosessuale- di fronte al buio incipiente e sempre più diffuso che viene dagli Stati Uniti d’America, ribadisco con orgoglio che l’Europa è la mia casa, è mia madre, è Heimat, è ciò da cui sono sgorgato, è la mia radice, è la lingua che parlo, sono gli dèi, è la bellezza, è la filosofia.

[Sullo stesso tema segnalo Oscurantismi, censure, ortodossie (settembre 2020)]

Sapienza hegeliana

Non è soltanto alla trascurabile componente biologica del mondo che è intrinseca la finitudine. Ciò che per il vivente – vegetale o animale che sia – si chiama morire, è in realtà l’esperienza universale del trapassare in altro, del metabolismo, dell’entropia, della metamorfosi, del divenire.
La struttura biologica aggiunge piuttosto all’universale potenza del dileguare la particolarità di farlo in quel tentativo, destinato sempre allo scacco, che è la riproduzione di una copia somigliante a sé, nella quale due entità entrambe finite presumono di differire il loro dileguarsi. Questo tentativo è una delle espressioni più chiare, drammatiche e banali della schlechte Unendlichkeit, della cattiva infinità che non smette mai di aggiungere vite a vite e dunque morte a morte: 

«Dieser Prozeß der Fortpflanzung geht hiermit in die schlechte Unendlichkeit des Progresses aus. Die Gattung erhält sich nur durch den Untergang der Individuen, die im Prozesse der Begattung ihre Bestimmung erfüllt [haben] und, insofern sie keine höhere haben, damit dem Tode zugehen»
«Questo processo della propagazione riesce alla mala infinità del progresso. Il genere si mantiene solo mediante la rovina degli individui; i quali nel processo dell’accoppiamento adempiono alla loro destinazione e, in quanto non ne hanno altra più elevata, vanno così incontro alla morte»
(Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, in «Gesammelte Werke», XIX, § 370; Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, trad. di B. Croce, Mondadori, Milano 2008, p. 363).

Il fondamento di questo tentativo, insieme biologico e metafisico, abita nella necessità del negativo.
Se omnis determinatio est negatio, è anche perché il presentarsi di un ente rende impossibile il presentarsi di ogni altro ente nello stesso luogotempo; perché l’evento che sta accadendo esclude una quantità innumerevole di altri eventi, perché ogni processo è sempre e solo l’attualizzazione di una determinata potenzialità a esclusione di molte altre che pure sarebbero state possibili. Il nulla intrinseco alle strutture dell’essere è la differenza, è «die Zauberkraft, die es in das Sein umkehrt», la magica forza che volge il negativo nell’essere, una forza posta a coerente conclusione di una delle più chiare affermazioni del negativo che siano state pensate:
«Aber nicht das Leben, das sich vor dem Tode scheut und von der Verwüstung rein bewahrt, sondern das ihn erträgt und in ihm sich erhält, ist das Leben des Geistes, Er gewinnt seine Wahrheit nur, indem er in der absoluten Zerrissenheit sich selbst findet. Diese Macht ist er nicht als das Positive, welches von dem Negativen wegsieht, wie wenn wir von etwas sagen, dies ist nichts oder falsch, und nun, damit fertig, davon weg zu irgend etwas anderem übergehen; sondern er ist diese Macht nur, indem er dem Negativen ins Angesicht schaut, bei ihm verweilt. Dieses Verweilen ist die Zauberkraft, die es in das Sein umkehrt»
«Ma non quella vita che inorridisce dinanzi alla morte, schiva della distruzione; anzi quella che sopporta la morte e in essa si mantiene, è la vita dello spirito. Esso guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare sé nell’assoluta devastazione. Esso è questa potenza, ma non alla maniera stessa del positivo che non si dà cura del negativo: come quando di alcunché noi diciamo che non è niente o che è falso, per passare molto sbrigativamente a qualcos’altro; anzi lo spirito è questa forza sol perché sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui. Questo soffermarsi è la magica forza che volge il negativo nell’essere»
(Die Phänomenologie des Geistes, «Gesammelte Werke», IX, p. 27; trad. di E. De Negri, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia 1985, vol. I, p. 26).
Questa è la struttura dell’essere, questa è la struttura del tempo.

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