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Logos

Metto qui a disposizione il file audio della relazione che ho svolto a Chieti il 12.10.2023 in occasione del III Convegno della Società Italiana di Filosofia Teoretica (l’audio dura 27 minuti).

Il titolo della relazione fa riferimento a un’esperienza teoretica e didattica vissuta in questi anni insieme all’Associazione Studenti di Filosofia Unict. Ho cercato di descrivere le motivazioni, le modalità e gli obiettivi che dal 2018 al 2023 ci hanno stimolato a leggere (e discutere) Proust, Dürrenmatt, Gadda, Céline, Manzoni, D’Arrigo.
Il titolo Logos fa riferimento in particolare a una risposta che ho dato durante la discussione seguìta alla relazione. Mi è stato chiesto infatti quale fosse l’elemento unificante di questa esperienza, che cosa gli scrittori studiati avessero in comune. Questi elementi sono naturalmente molti ma centrale è la gloria della parola, la capacità che i grandi narratori e poeti hanno di fare dell’esperienza dolorosa e tenace della vita uno strumento di comprensione e un’espressione di bellezza, il λόγος appunto.

Filosofia e Letteratura

Giovedì 12 ottobre 2023 terrò una relazione per il III Convegno della Società Italiana di Filosofia Teoretica che si svolgerà a Chieti e a Pescara dal 12 al 14 ottobre.

Il tema del Convegno è Pensare (con) la letteratura. Temi e modelli di ‘filosofia della letteratura’ in prospettiva teoretica. Il mio intervento sarà incentrato sull’esperienza didattica e scientifica che dal 2018 organizzo con gli studenti di Unict e in particolare con i soci dell’ASFU. Il titolo è infatti Filosofia e letteratura. Un’esperienza teoretica e didattica e questo è l’abstract:

Su proposta dell’Associazione Studenti di Filosofia di UniCt (ASFU), da alcuni anni svolgo un ciclo di lezioni intitolato Filosofia e letteratura. Dal 2018 al 2023 le lezioni sono state dedicate a Proust, Dürrenmatt, Gadda, Céline, Manzoni, D’Arrigo. Si tratta di un’esperienza didattica assai proficua, nella quale i confini disciplinari mostrano ancora una volta la loro funzione utile sì ma limitata e strumentale. Come ambiti e luoghi dell’ermeneutica esistenziale, infatti, se praticate sul corpo vivo del testo, filosofia e letteratura mostrano l’identità della parola umana nella sua potenza disvelatrice e la differenza di modi espressivi che cercano di intuire e comunicare in forme diverse la complessità delle società dalle quali le opere scaturiscono, la potenza dei mondi che incarnano e manifestano, la costanza della condizione umana e la fecondità del pensiero che la indaga.

Noto, il Barocco, i palazzi

Il Barocco è Noto
Convitto delle Arti – Noto
A cura di Paola Bergna e Alberto Bianda
Sino al 29 ottobre 2023

Sale della mostra

Le ombre, i corpi che da esse emergono, il rosso e lo scuro, le forme circolari ed ellittiche, gli spazi densi di oggetti, le nature morte, gli strumenti musicali, i santi, i teschi, il desiderio, l’amore, gli sguardi, la luce.
Questi alcuni degli elementi del Barocco, pervasivi e presenti anche a Noto, nelle tre sale del Convitto delle Arti che ospitano una sola tela di Caravaggio – la Maddalena in estasi – e poi opere di italiani (Luca Giordano, Guido Reni, Mattia Preti, Guercino, Bernini, Pietro da Cortona), spagnoli (Jusepe de Ribera, lo Spagnoletto), nordici (Rubens, van Dyck, Rombouts [è suo il Suonatore di Liuto dell’immagine di apertura]). Da queste opere spira come una potenza, la forza della vita che vuole essere felice nel preciso senso che vuole trovare un significato a se stessa, qualunque senso purché ci sia; forza unita al dramma dell’esistenza che una volta nata precipita ogni giorno verso il suo finire. Questa tensione, irrisolvibile se non nel nulla, crea l’enigma barocco, il suo fascino e la sua inquietudine nella pittura e in tutte le arti, scultura, musica, teatro, poesia, architettura. 

HP del sito del Palazzo del Castelluccio

Uscendo dalla mostra questa felicità e tale inquietudine diventano il «giardino di pietra» del quale parlava Cesare Brandi, diventano Noto, la città, i suoi palazzi, le chiese, le piazze, i teatri, i monumenti. Troppo noti e troppo belli per parlarne ancora qui.
Ma c’è un luogo che non è ancora così celebre e che invece è splendido: il Palazzo Di Lorenzo del Castelluccio edificato per una potente famiglia nel 1782, mantenuto sino alla morte dell’ultimo marchese, Corrado Di Lorenzo, avvenuta nel 1981, donato all’Ordine dei Cavalieri di Malta, istituzione religioso-militare assai ricca ma che lo ha lasciato nel più completo degrado. Dopo trent’anni, nel 2011, un francese, Jean Louis Remilleux, lo ha acquistato, restaurato, reso visitabile in quasi tutti i suoi ambienti: il piano nobile con la sua infilata di saloni, salotti, studioli, camere da letto, biblioteche; la piccola ma eloquente scuderia che poteva ospitare sino a otto cavalli in quattro spazi; le cucine al piano basso, buie e ricche di stanze, dove la servitù consumava i suoi pasti. E poi l’armonioso cortile e al di sopra un terrazzo che induce a sedersi, rimanere, studiare, godere come da una finestra il cielo turchese e le nuvole che sovrastano la città. Remilleux e i suoi architetti hanno conservato quanto più possibile gli ambienti, le pareti, i pavimenti di ceramica; hanno riempito le stanze di quadri, poltrone, tavoli, una panoplia di testimonianze di cultura materiale. E soprattutto e tramite tutto questo si ha la sensazione di attraversare un luogo reale non un museo, un luogo vissuto non un’icona, un luogo rispettato e amato da chi lo abita. Il palazzo è infatti la dimora quotidiana di Jean Louis Remilleux.
I secoli sembrano convergere, il tempo diventare un vortice, altra costitutiva metafora barocca. E infatti la mostra al Convitto delle Arti non si compone soltanto di opere e artisti del Seicento. La accompagnano le sculture di Giuseppe Agnello (1962) che tentano di coniugare l’umano e la Terra con una serie di figure antropomorfe impastate di alabastro, sale, gesso. Il titolo è Terra e cielo tra uomo e natura. Un terzo spazio espositivo si chiama Pop Garden ed è un’immersione negli anni Settanta con fiori, specchi, ridondanze, musiche di quel tempo, riflessi.

Il barocco risiede dunque nelle cose; come afferma Carlo Emilio Gadda, «barocco è il mondo, e il G.[adda] ne ha percepito e ritratto la baroccaggine» (La cognizione del dolore, Garzanti 1994 , p. 198).
In via Matteo Raeli, vicino a piazza XVI maggio e alla cosiddetta Villa d’Ercole, c’è una gelateria che si chiama L’artigianale. Gustare i gelati di Stefano Baglieri significa capire con i sensi (il gusto ma anche la vista) perché mai i dolci, alcuni dolci, sprigionino un sorriso. Un altro elemento della sensualità barocca.

Noto – il Municipio

 

 

«Così va spesso il mondo…»

Dopo Proust (2018), Dürrenmatt (2019), Gadda (2020), Céline (2021), avrò il piacere di dialogare su uno scrittore che leggo e amo sin da bambino, Alessandro Manzoni.
L’Associazione Studenti di Filosofia Unict dedica infatti quest’anno un ciclo a Manzoni contemporaneo. La sede è il Centro Studi di via Plebiscito 9, a Catania. Il primo appuntamento è per lunedì 21 marzo 2022 alle 16.
Parleremo di un romanzo che narra la vicenda umana come un susseguirsi di «legali, orribili, non interrotte carnificine» (cap. 32); descrive la logica profonda del potere, la corruzione capillare dei funzionari, dei sindaci, degli avvocati, la continuità e la collaborazione tra l’autorità legale e quella illegale; racconta la «svisceratezza servile» da parte della “gente comune” (cap. 22) che è una delle ragioni più profonde del dominio arbitrario, della tirannide, del conformismo.
E su tutto il vero motore del testo: quel prete con il quale l’opera si apre e si chiude; l’anima nera il cui orizzonte è limitato al proprio infimo ego in mondo pervicace, irredimibile, assoluto: Don Abbondio, così vile e dunque così cattivo perché così intellettualmente ottuso, così ferocemente legato a qualcosa che Carlo Emilio Gadda -lettore e ammiratore di Manzoni- definisce «l’io minchia».
E le guerre, le epidemie, gli innamoramenti, un’ironia disincantata, insieme calorosa e distante.
Insomma, Manzoni.

[Ho rilasciato un’intervista alla radio di Ateneo –Radio Zammù– a cura di Gloria Vincenti. La registrazione audio dura 8 minuti e la si può ascoltare sul sito della radio:
La “storia” raccontata da Manzoni rivive nel XXI secolo.]

 

Didattica a distanza: la parola agli studenti

corpi e politica  va pubblicando le opinioni e le esperienze non soltanto dei docenti ma anche degli studenti universitari a proposito della cosiddetta didattica a distanza 

Quattro miei studenti hanno proposto delle analisi che la redazione ha molto apprezzato, come mostra questo breve scambio epistolare con due dei suoi membri:

«Alberto, se hai coltivato studenti così, invece di laurearli possiamo direttamente metterli in cattedra…Impietoso il confronto con i firmatari della lode a Conte, vero tradimento dei chierici, che spiega bene l’eclisse degli intellettuali, aggravata dalla futile strumentalità e dalla inane caratura culturale della proskynesis filogovernativa. […] Il motivo per cui leggiamo ancora, come fossero appena editi, i libri dei grandi autori di 50 o di 100 anni fa consiste nell’intreccio tra pensiero e biografia sempre in lotta contro gli assetti di potere vigenti, perché non si apprende niente fuori dal conflitto, che certifica nella passione la verità di un insegnamento. Vi immaginate XXX (riempire a piacere)  che si mette a firmare l’apologia di qualche ministro in carica?
Forse è ora che gli studenti procedano a una rimozione e sostituzione del ceto intellettuale ossidato e non necessariamente con le buone maniere».
(La mia risposta)
«Grazie, ***. Questi sono comunque studenti di secondo anno della triennale, che conosco (per così dire) soltanto da due mesi. È dunque il Dipartimento che li ha coltivati e soprattutto li ha formati il carattere e l’intelligenza che hanno da sempre. Io posso solo dirmi fortunato a insegnare a studenti così».
Presentando i contributi di alcuni suoi studenti un collega ha scritto questo:
«Certo, gli studenti di *** non sono all’altezza di pensiero dei filosofi in erba di Alberto… ma vi sottopongo quanto mi arriva».

Mi sono sembrati dei bei riconoscimenti, che gli studenti del Dipartimento di Scienze Umanistiche di Unict hanno pienamente meritato.
Riepilogo dunque e indico i link dove leggere i testi integrali, tutti brevi e tutti vivaci.

Elisabetta Romano scrive che «nella trasformazione in pixel del suono e delle immagini si perdono componenti fondamentali del processo educativo. Per trasmettere qualcosa ci vuole un contatto, che significa appunto cum tangere, toccarsi vicendevolmente, scambiare un rapporto che non sia univoco. E a tal fine sono necessarie la vicinanza e la partecipazione reale di docente e alunni, e questa trasmissione funziona un po’ come la conduzione elettrica: occorre che i corpi siano vicini nella loro fisicità, che le particelle sonore della nostra voce incontrino fisicamente (e dunque realmente) quelle dell’orecchio degli altri componenti dell’aula e così reciprocamente gli uni con gli altri».
È stata formativa, ma non è stata una didattica (30.4.2020)

Davide Amato inquadra la questione in un contesto politico più generale e conclude osservando che «la lezione è dunque un unicum irripetibile, un’esperienza di socialità che deve educare il cittadino a vivere in comunità oltre che ad affacciarsi al mondo del sapere».
Didattica nella caverna (30.4.2020)

«Interpretando la parte dello studente, quale attore sociale immerso in un continuo flusso di contatto sia corporeo che teoretico con gli altri attori sociali, quali i docenti o altri studenti, vivo tutto questo come una sorta di tradimento del rapporto con gli altri attori. Spero anch’io che non salti in mente a nessuno di voler in qualche modo continuare questa esperienza della didattica online», scrive B.C. il quale descrive poi «esami di studenti che sarebbe generoso considerare una farsa» e i gravi rischi di cyberbullismo che la Dad va mostrando.
Esami a distanza. Il tradimento del patto docente/studente (1.5.2020)

Simona Lorenzano delinea efficacemente il valore di «una lezione reale [che], al contrario, riesce a sradicarci da questo mondo ovattato, permette di metterci in gioco, di uscire fuori da noi stessi e di proiettarci in una dimensione di crescita» rispetto a una situazione «caratterizzata da professori a metà, da studenti a metà, da musicisti a metà, da artisti a metà, da operai a metà. È facile rendersi conto, ora più che mai, di quanto ognuno abbia bisogno dell’altro, di quanto l’uomo sia un animale sociale e di quanto l’individualismo dia in cambio soddisfazioni assai modeste. L’arte è monca se non c’è nessuno che può godere della sua bellezza e il lavoro svolto è vano se non c’è qualcuno che possa godere a pieno dei suoi frutti. Un professore è un professore a metà senza i suoi studenti e uno studente è uno studente a metà senza un confronto con gli altri studenti e con i suoi professori».
Il presente a metà (2.5.2020)

Aggiungo la struggente testimonianza di alcuni bambini delle scuole elementari. Un testo che descrive il dolore lieve, la fiduciosa nostalgia, il desiderio dei bambini di tornare nella scuola vera. Questi bambini dicono quello che molti adulti non capiscono, non capiscono proprio. E non capirlo è un crimine.
«Mi ricordo quando suonava la campanella. Invece nella scuola al computer non suona mai la campanella, non suona mai niente»

Infine, poche righe su una lezione/conversazione in presenza dedicata a Gadda, che ho svolto a metà maggio con alcuni miei studenti fuori dagli spazi del Dipartimento, dove agli studenti non è ancora permesso accedere. È stata una grande gioia. È questo infatti il mondo reale non soltanto dell’insegnamento ma della relazionalità umana. Alla luce delle ore trascorse insieme agli amici studenti e dottorandi, mi appare ancor più in tutta la sua barbara miseria la cosiddetta ‘didattica a distanza’ alla quale sono stato costretto, siamo stati costretti in questi mesi.
Mi appare nella sua perversione pedagogica ed esistenziale.
Nonostante la dedizione mostrata dagli studenti, e della quale sono loro profondamente grato, le relazioni che ho avuto con i tre gruppi classe in questo semestre sono di una triste povertà, espressione di un’ondata di ultraplatonismo, di spiritualismo digitale.
Fuori dallo spaziotempo dei corpi non esiste la persona umana ma soltanto ologrammi con un nome.
Un semplice incontro in presenza con alcuni studenti ha confermato l’abbagliante evidenza di questa verità.
Sta qui una delle ragioni che hanno dato vita a corpi e politica: la difesa della civiltà del sapere di fronte al montare della barbarie. Il sapere umano è infatti inseparabile dai corpi, dallo spazio e dal tempo condivisi. Faremo di tutto affinché il canto della conoscenza continui a risuonare nelle aule.

Dreyfus

J’accuse
di Roman Polański
Con: Jean Dujardin (Marie Georges Picquart), Grégory Gadebois (Joseph Henry), Louis Garrel (Alfred Dreyfus), Emmanuelle Seigner (Pauline Monnier), Didier Sandre (Raoul Le Mouton De Boisdeffre), Damien Bonnard (Jean-Alfred Desvernine)
Sceneggiatura di Robert Harris [II]
Francia, 2019
Trailer del film

«Que’ giudici condannaron degl’innocenti, che essi con la più ferma persuasione dell’efficacia dell’unzioni, e con una legislazione che ammetteva la tortura, potevano riconoscere innocenti; e che anzi, per trovarli colpevoli, per respingere il vero che ricompariva ogni momento, in mille forme, e da mille parti, con caratteri chiari allora com’ora, come sempre, dovettero fare continui sforzi d’ingegno e ricorrere a espedienti, de’ quali non potevano ignorar l’ingiustizia».
Questa affermazione di Alessandro Manzoni (Storia della colonna infame, in «Tutte le opere», G. Barbèra Editore 1923, p. 772) costituisce un paradigma del potere giudiziario quando esso viene esercitato, e spesso è così che viene esercitato, a difesa di istituzioni e di gruppi che pongono le leggi al proprio servizio. A conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che le leggi da sole non bastano, neppure le migliori (Platone era forse su questo punto troppo fiducioso) e che le forme giuridiche possono con relativa facilità essere piegate a un interesse parziale. È quanto può accadere nel Seicento, nell’Ottocento, nel XXI secolo.
Come la Colonna infame comincia in una mattina di giugno del 1630, così J’accuse inizia in una mattina di gennaio del 1895, quando il capitano Alfred Dreyfus  (qui a sinistra) viene pubblicamente degradato nel cortile dell’École Militaire di Parigi e subito dopo inviato come prigioniero all’isola del diavolo, uno scoglio nell’Atlantico. Dreyfus è stato infatti riconosciuto colpevole di spionaggio a favore della Germania. Tra gli inquirenti, il maggiore Georges Picquart (foto in basso), il quale condivideva l’ostilità verso gli ebrei che pervadeva la Francia della Terza Repubblica. Quando viene chiamato a dirigere i Servizi Segreti, Picquart comprende tuttavia che l’ebreo Dreyfus è innocente e che la spia è Jean Marie Auguste Walsin-Esterhazy, un soggetto assai corrotto, diventato ufficiale in maniera truffaldina. Ma i capi di Picquart rifiutano qualunque ipotesi di riapertura del processo e allontanano Picquart. Anche per questo Émile Zola il 13 gennaio 1898 pubblica il suo J’accuse contro lo Stato Maggiore dell’esercito francese. I poteri politico, militare e giudiziario reagiscono in modo scomposto, condannando sia Zola sia Picquart. Dopo alcuni anni, Picquart e Dreyfus vengono riconosciuti innocenti ma Esterhazy e i generali francesi non saranno mai condannati.
Il modo nel quale Roman Polański racconta il più famoso caso giudiziario della modernità è esemplare per freddezza e rigore formale. Il film rispetta il principio fondamentale del naturalismo francese e del verismo italiano: un’«opera d’arte [che] sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sorta spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore» (Verga, L’amante di Gramigna, in «Tutte le novelle», Einaudi 2015, p. 187). I colori accesi delle uniformi si stagliano sullo sfondo scuro dei cieli, le passioni più feroci sono a stento trattenute dentro le strutture formali dell’esercito e dei tribunali, la miseria della storia emerge in tutta la sua ampiezza.
L’esercito francese è sempre stato quello del caso Dreyfus, delle torture praticate durante la guerra d’Algeria, del sadismo che pervade Paths of Glory (1957), il capolavoro con il quale Stanley Kubrick ha detto una parola decisiva non soltanto su tutti gli eserciti del mondo, i cui capi gettano nel fango e nella morte milioni di soldati mentre se ne stanno tranquilli nei loro confortevoli uffici, ma anche sulle conseguenze che ogni struttura rigidamente gerarchica ha sui comportamenti di chiunque, e in generale sulla natura umana. In quel film -che narra la vicenda di tre soldati francesi scelti a caso e fucilati per codardia durante la Prima guerra mondiale- non è della guerra che si parla ma della tenebra delle relazioni umane. Quella che Marcel Proust ha descritto con una precisione scintillante e che, a proposito dell’Affaire, gli fece scrivere questo: «Si perdonano i delitti individuali, ma non la partecipazione a un delitto collettivo. Quando lo seppe antidreyfusista, mise fra sé e lui dei continenti e dei secoli; il che spiegava come, da una tale distanza nel tempo e nello spazio, il suo saluto fosse sembrato impercettibile a mio padre, e lei dal canto suo non avesse pensato a una stretta di mano e a parole che non avrebbero potuto valicare gli abissi che li separavano» (I Guermantes, trad. di M. Bonfantini, Einaudi 1978, p. 161). Uno scrittore amico di Proust, Paul Morand, nel suo 1900 così descrive gli effetti del caso Dreyfus: «L’Affare aveva scatenato degli odi implacabili, aveva diviso delle famiglie, distrutto dei focolari, guastato le più vecchie amicizie: aveva spezzato in due il paese, con una violenza di cui soltanto le guerre di religione possono darci un termine di confronto» (citato da Carlo Emilio Gadda in Divagazioni e garbuglio, Adelphi 2019, p. 28).
Naturalmente nella vicenda Dreyfus a contare fu non la verità, che era abbastanza evidente a tutti, ma il potere e il modo in cui la storia umana, vale a dire una particolare conformazione della biologia, lo esercita.
Nella recensione che ha dedicato al film, Pasquale D’Ascola ha riportato per intero il testo di Zola, con una parziale traduzione in italiano. D’Ascola fa dell’opera di Polański un documento, una prova, un J’accuse rivolto contro l’oblio che dimentica i criminali e quindi li assolve, contro la demenza di «una banda di indemoniate» simili alla banda dei generali di Zola, contro la viltà di un linguaggio che trasforma l’icasticità dell’originale nella melensaggine di un titolo italiano senza forza e senza senso, qual è L’ufficiale e la spia. E tutto questo trasmettendo il rigore formale e la potenza narrativa di uno splendido film.

Gadda

Carlo Emilio Gadda
La cognizione del dolore
 (1938-1941)
Garzanti, 1994
Pagine 213

Il romanzo incompiuto di Gadda è un itinerario tragico e grottesco nelle tenebre. In esso nulla succede se non il finale assassinio. Per il resto è una descrizione della vita nelle ville, villette, villoni del Serruchòn in un improbabile Sudamerica che è la Brianza. Una descrizione in particolare della vita del marchese Gonzalo Pirobutirro e della sua vecchia madre. In questi due personaggi si concentra, in modo diverso e profondo,  l’innocenza e il dolore del mondo.
Gonzalo legge Platone e vorrebbe vivere di solitudine e di silenzio. La madre, invece, -figura di perenne lutto dopo la morte in guerra dell’altro figlio- gli riempie la vita e la villa di contadini e donnette tanto puzzolenti quanto rapaci. Il conflitto è fra una consapevolezza del mondo lucida sino alla disperazione -«egli era un uomo […] di criterio piuttosto forte e, direi, temperato. Nessuna illusione» (pag. 168)- e una bontà ancor più disperata, complice effettiva dei malvagi e degli sciocchi, permeata di un cristianesimo sin troppo facile, troppo condiscendente, vile.
Nel segno di Manzoni -e certo anche molto al di là di lui- da tutto il romanzo si sprigiona una forza etica e antropologica che rapisce. Un rigore morale sconosciuto a un paese facile e cattolico, un libro che addita senza pietà il cuore della corruzione, il cattivo gusto, la mala educazione: Gonzalo «non aveva nessun genio per l’arrabattarsi e il tirare a campare E c’era, per lui, il problema del male» (45); «Aveva, della legge, un concetto sui generis […] consustanziato nell’essere, biologicamente ereditario» (88).
Lo storicismo che tutto assolve, la fiducia ebete in un progresso senza fine, il culto del meglio identificato con ciò che è più nuovo e vincente, gli sono del pari estranei. Come estranea a Gadda è una modernità che coniugando perdono cristiano, giustificazionismi sociologici, alibi individuali si mostra per ciò che è: un dispositivo di ferocia nei confronti dei puri, di coloro che proiettano il loro candore sull’intera umanità. Sbagliano, certo. Ma lo fanno con  passione per la giustizia, la quale è anche consapevolezza «della scemenza del mondo o della bamboccesca inanità della cosiddetta storia, che meglio potrebbe chiamarsi una farsa da commedianti nati cretini e diplomati somari» (Appendice, p. 199).
Gadda sa che il Tempo è persuasore di rinunce e divoratore di speranza, che sofferenza e tenebra avvolgono le cose, gli uomini, il vivente nella corsa magnifica e insensata degli evi. Ma -come ogni uomo degno di tal nome- vuole conoscere il dolore, averne cognizione. Nell’ironia parossistica, nel grottesco di Gadda riemerge la Gnosi profonda, il disprezzo della folla e dell’umano, l’orrore e l’ambiguo fascino della materia, del corpo. L’umanità, «questo mare senza requie, fuori, sciabordava contro l’approdo di demenza, si abbatteva alle dementi riviere offrendo la sua perenne schiuma, ribevendosi la sua turpe risacca» (131). Uomini e donne, furbi e sciocchi, ragazzi e vecchie «venuti fuori anche loro dall’Arca bastarda delle generazioni» (132) sono la folla turpe e feroce che con la sua sola esistenza distrugge il poco di bellezza delle cose. Nell’evidenza dell’arte, nell’efficacia della parola letteraria, splende la becera assurdità di una democrazia cieca, incapace di percepire la differenza fra il lettore di Platone e il peone furbastro, e quindi prodiga nell’offrire a entrambi un eguale diritto di voto (p. 200 ma per intero la straordinaria Appendice: L’Editore chiede venia del recupero chiamando in causa l’Autore).
La pietà di Gadda è profonda e rivolta agli onesti, al «ragazzo vivo e normale» al quale una concezione insensata della solidarietà preferisce i «più snaturati delinquenti» (201), è rivolta a chi chiede a se stesso rigore, è rivolta ai più forti, ai puri, che sempre bisognerà difendere dai più deboli quando i deboli -come sempre- sono legione.
La poesia di questo romanzo canta la gloria di un mondo barocco ma solo perché il grottesco e il barocco risiedono già nelle cose: «Quindi assai vero che il luogo comune che quasi imputa a Gadda il suo esser barocco potrebbe commutarsi nel più ragionevole e più pacato asserto ‘barocco è il mondo, e il G. ne ha percepito e ritratto la baroccaggine’» (Appendice, p. 198).
Emblematica -nel suo fulgore, nel suo dolore- è questa pagina: 

«Camminava tra i vivi. Andava i cammini degli uomini. Il primo suo figlio […] in una lunga e immedicabile oscurazione di tutto l’essere, nella fatica della mente, e dei visceri dischiusi poi al disdoro lento dei parti, nello scherno dei negoziatori sagaci e dei mercanti, sotto la strizione dei doveri ch’essi impongono, così nobilmente solleciti delle comuni fortune, alla pena e alla miseria degli onesti. Ed era ora il figlio: il solo. Andava le strade arse lungo il fuggire degli olmi, dopo la polvere verso le sere ed i treni. Il suo figlio primo. […] Il suo figlio: Gonzalo. A Gonzalo, no, no!, non erano stati tributati i funebri onori delle ombre; la madre inorridiva al ricordo: via, via!, dall’inane funerale le nenie, i pianti turpi, le querimonie: ceri, per lui, non eran scemati d’altezza tra i piloni della nave fredda e le arche dei secoli-tenebra. Quando il canto d’abisso, tra i ceri, chiama i sacrificati, perché scendano, scendano, dentro il fasto verminoso dell’eternità» (116). 

L’unicità di Gadda, forse il maggiore insieme a Elsa Morante dei narratori italiani del Novecento, consiste in tutto questo e anche nella sua assenza di retorica, in un Paese e in una letteratura che troppo la conoscono. Nessun romanticismo né estetico né esistenziale. L’espressionismo è indice anche di questo rifiuto di un io eccessivo e narciso al quale Gadda sostituisce il rigore di una oggettività spietata, barocca.

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Di Gadda ho parlato qui a proposito di altri suoi romanzi e racconti:

L’Adalgisa. Disegni milanesi (5.12 2008)

Accoppiamenti giudiziosi (7.6.2009)

Eros e Priapo: da furore a cenere (2.5.2014)

Verso la Certosa (13.10.2014)

Le bizze del capitano in congedo e altri racconti (30.7.2015)

 

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