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Europa, Identità e Differenza

Identità e Differenza costituiscono uno dei fondamenti dell’essere di tutte le cose. Le strutture naturali e politiche più interessanti e durature sono anche quelle che esprimono o accolgono tale principio, che non è un concetto mentale ma è un dispositivo ontologico.
L’interesse, la durata e la forza della struttura antropologica, culturale e politica che chiamiamo Europa si fonda anche su tale dispositivo. L’Europa infatti è sempre stata una civiltà plurale e stratificata, all’interno però di una configurazione ben riconoscibile e delineata. «Tous les Européens ne sont peu-être pas européens de la même manière» e tuttavia sono sempre riconoscibili come europei (O. Eichenlaub, in Cahier d’études pour une pensée européenne – Europe, Numéro 1, 2024, p. 38).
Una identità forte è infatti necessaria semplicemente per costituire una realtà non del tutto effimera e pronta a dissolversi al minimo mutamento. Ma l’identità da sola rischia di sclerotizzarsi in un essere senza divenire.
La differenza è dunque fondamentale per la legittimazione e l’espansione delle forze e delle tendenze più varie, le quali rafforzano la struttura che se ne fa portatrice. Ma la differenza da sola costituirebbe una ragione di sicura dissoluzione, come accadrebbe con una identità esclusiva. Anche se le modalità sono diverse, il risultato è pertanto lo stesso.
Nella dimensione antropologica questo significa che è «la diversité des peuples et des cultures qui conditionne la richesse et la beauté du monde. Face à toute forme d’universalisme ou d’assimilation universalisante, l’Europe doit privilégier pour elle-même une position différentialiste fondée sur le relativisme culturel, tel qu’il peut être identifié, à différents degrés, depuis Johann Gottfried von Herder jusqu’à Claude Lévi-Strauss» (W. Aubrig & O. Eichenlaub, 104).
Le grandi tappe della storia europea si sono dispiegate a partire da tale gioco di identità e differenza, di continuità e di mutamento, di tradizione e di innovazione, di costanza e di invenzione (ed è un elenco che potrebbe essere ampliato): «L’expansion celtique, l’aube grecque de la pensée, l’essor de l’imperium romain, la renovatio imperii carolingienne et germanique, le retour aux sources pérennes du génie antique à l’époque de la ‘Renaissance’, le réveil de la conscience identitaire des peuples européens au milieu du XIXe siècle» (Éditorial, 3).
La dinamica che chiamiamo Europa è a sua volta parte di uno spazio assai più ampio, l’Eurasia, della quale i territori che vanno dal’Atlantico a Mosca costituiscono soltanto la zona occidentale. E questo durante i secoli ha fatto sì che le comunità a occidente abbiano a loro volta vissuto una costante dinamica di identità e differenza con i territori che oggi chiamiamo Russia e Turchia. L’articolazione dei rapporti tra tali spazi è stata sempre conflittuale e sempre anche inevitabilmente solidale. E questo anche perché «en intégrant la Russie, l’Europe est bien trop grande; mais en l’omettant, elle est incomplète. Entre ces deux options, la Russie n’est ni en Europe ni hors de l’Europe; elle est à cheval entre l’ensemble européen et l’ensemble asiatique, dont elle concrétise la jonction géographique. C’est un confin européen, et à ce titre, un élément déterminant constitutif de l’Europe en elle-même» (O. Eichenlaub, 41). Esatto: il confine sempre aperto con gli spazi, i territori, la civiltà della Russia è uno dei più forti elementi di identità che costantemente percorre la storia dell’intera Europa.
Ciò che oggi chiamiamo Turchia rappresenta un territorio che ha visto sia lo scontro sia gli scambi fecondi tra i popoli greci e quelli persiani, tra l’impero romano e quello iranico/sassanide, tra i cristiani bizantini e gli islamici ottomani. Città a noi ben note come Efeso, Alicarnasso, Troia, Colofone, Mileto, si trovano oggi tutte nel territorio della Repubblica turca. Anche per questo «la Turquie regroupe una grand partie du patrimoine auquel on se réfère quand on évoque l’héritage grec» (O. Eichenlaub, 41).
Il gioco culturale e antropologico di identità e differenza ha avuto uno dei suoi massimi risultati negli accordi del 1648 che posero fine ai massacri religiosi e politici dell’Europa moderna. Tre dei princìpi fondamentali delle Paci di Westfalia sono gli stessi che possono contribuire (anche oggi) non soltanto a concludere le guerre ma anche e specialmente a non prepararne di nuove.
Essi sono: 1. l’equilibrio tra le potenze, che impedisca a una di esse, diventata troppo forte, di porre a repentaglio la sicurezza e la libertà delle altre; 2. il divieto di ingerenza negli affari interni degli altri stati, qualunque sia il motivo, anche il più moralmente nobile (come portare la vera religione, regole giuridiche più moderne, diritti umani, lo sviluppo tecnologico, il benessere, l’equilibrio ecologico, e così via); 3. il dimenticare i conflitti precedenti e non rivendicare di continuo i torti subiti da una delle parti, poiché in amnestia consistit substantia pacis (W. Aubrig, 65).
La fine della pace e della libertà in Europa a partire dalla Prima guerra mondiale è stata prodotta esattamente dall’abbandono di tali princìpi, sostituiti dall’universalismo moralistico ed escatologico della potenza pro tempore più forte, che si introduce di continuo negli affari interni degli altri Stati e delle altre comunità.
L’Europa è in questo modo annegata nell’universalismo e nella globalizzazione, delle quali la struttura che si definisce Unione Europea costituisce una conseguenza. Una conseguenza distruttiva per l’Europa, essendo essa una organizzazione progettata dagli Stati Uniti d’America sin dalla fine della Seconda guerra mondiale (Altiero Spinelli si incontrò più volte con esponenti del governo statunitense e anche della CIA). Come ha ben mostrato la storiografia, infatti, «l’Amérique du Nord n’a jamais été pensée par ses fondateurs comme une colonie européenne ; mais l’Europe, sous de nombreux aspects, est bel et bien spirituellement colonisée par les États-Unis, dont la stratégie d’expansion impériale port le nome d’Occident» (W. Aubrig & O. Eichenlaub, 103).
L’identità e la differenza dell’Europa hanno dunque poco a che fare con l’occidente anglosassone e molto invece con la storia dell’Eurasia. Se c’è qualche possibilità di sopravvivenza dell’Europa (personalmente sono piuttosto scettico), essa ha come condizione anche il riavvicinamento alla Russia, cioè a una parte fondamentale della propria vicenda.
Il paesaggio politico e antropologico di fronte al quale invece ci troviamo negli anni Venti del XXI secolo è un paesaggio occidentalista e atlantista. Non è neppure «un monde de ruines», le quali costituiscono ancora l’espressione e la testimonianza di una identità, ma è semplicemente e tristemente «un monde de décombres» (A. Berger, 206). Ricostruire da queste macerie, dopo il suicidio dell’Europa nella Prima guerra mondiale e gli enormi danni dell’occidentalismo che ne è seguito, non sarà facile. Ma almeno dobbiamo sapere che altri itinerari portano solo alla catastrofe.

Architetture della dissoluzione

The Brutalist
di Brady Corbet
Gran Bretagna, 2024
Con: Adrien Brody (László Tóth), Guy Pearce (Harrison Lee Van Buren), Felicity Jones (Erzsébet Tóth), Isaach De Bankolé (Gordon), Joe Alwyn (Harry Lee)
Musica di Daniel Blumberg
Trailer del film

Un noto architetto ungherese, formatosi nel Bauhaus e sopravvissuto al lager di Buchenwald, arriva nel 1947 negli Stati Uniti d’America, ospite di un cugino. In attesa di migliori fortune e della ricongiunzione con la moglie, László Tóth accetta impieghi assai umili sino a quando un imprenditore di Philadelphia gli commissiona un progetto visionario, un edificio multifunzione nel quale la comunità protestante potrà svolgere i suoi riti, studiare, conversare.
La convivenza/collaborazione con il milionario Harrison Lee Van Buren si rivela assai turbolenta. Van Buren accetta il progetto ispirato allo stile detto brutalista, un movimento architettonico del quale fece parte anche Le Corbusier e che privilegia grandi volumi di cemento armato a vista. Non poche architetture contemporanee, anche in Italia, ne costituiscono testimonianza, soprattutto scuole e ospedali (che infatti sono orrendi). Le cosiddette Vele di Scampia, oggi quasi tutte abbattute, ne rappresentano una estrema propaggine.
Quella dell’architettura contemporanea è una vicenda molto complessa. Che, ad esempio, alcuni architetti siano potuti transitare dalla pulizia e dalla luce del Bauhaus alla massiccia rozzezza del Brutalismo è una interessante testimonianza di quanto facile sia disperdere la bellezza. Ambientato nel gigantismo della Pennsylvania, il film sembra trovare finalmente un poco di armonia soltanto nella scena conclusiva, girata a Venezia.
La storia di questo architetto credo voglia simboleggiare la vicenda dei tanti europei, soprattutto ebrei, che migrarono negli USA ma molti dei quali da quella società vennero stritolati o al massimo, come dice il figlio del magnate, «tollerati». Il significato della metafora diventa evidente nel pervenire persino a una scena di stupro che vorrebbe costituire una metafora della violenza che gli USA esercitano sull’Europa.  Nella scena iniziale la Statua della libertà viene ripresa con delle inquadrature capovolte, come se fosse impiccata e in ogni caso fallita.
«Der Geist des Kapitalismus», lo spirito del capitalismo, si mostra nel film in tutta la sua rozzezza antropologica, presunzione storica, mancanza di rispetto etico, distanza da ogni misura, equità e  decenza. E tuttavia l’idea che percorre The Brutalist è che il sionismo sia vittima di questo capitalismo. Una tesi assai bizzarra, dato che der Geist des Kapitalismus (e in particolare quello del capitalismo statunitense) è in gran parte lo spirito dell’ebraismo e del calvinismo, come la storiografia ha ampiamente mostrato. Da questo film si esce con la negativa impressione di aver assistito all’ennesima manipolazione di un’etica del vittimismo.
Lo stile di Brady Corbet si mostra coerente con le intenzioni estetiche, vale a dire un espressionismo che vorrebbe essere epico e che a volte tale risulta ma altre volte è soltanto ridondante e artificioso. Forse è rivelatore il nome che il regista ha scelto per il suo eroe. László Tóth infatti non è mai esistito ma così si chiamava l’operaio australiano di origine ungherese che nel 1972 colpì a martellate la Pietà di Michelangelo.
The Brutalist prende a martellate la bellezza e anche la complessità della storia. E tuttavia mostra (in modo probabilmente inconsapevole) la sua verità nel descrivere ambienti e personaggi che in vario modo e per diverse ragioni sono tutti espressione di dissoluzione, degenerazione, sporcizia.

Schmitt, la guerra, l’Europa

Carl Schmitt: la guerra giusta e l’Europa del XXI secolo
in Dialoghi Mediterranei
n. 73, maggio-giugno 2025
pagine 193-203

Indice
-Lo spazio
-Il diritto internazionale
-Umanesimi e massacro
-Il nemico ingiusto
-Dottrina Monroe e Prima guerra mondiale
-Utopia e imperialismo
-Occidente vs Europa

Già dalla fine della Prima guerra mondiale, autentico suicidio dell’Europa che oggi va compiendosi sotto i nostri occhi, l’universalismo imposto dagli Stati Uniti d’America iniziò a significare che il luogo dove si sarebbero decise le questioni europee non era più l’Europa. E non soltanto le questioni ma anche decidere il significato dei princìpi, dei valori, di parole come democrazia, libertà, legalità. Che cosa questi e altri principi significassero in qualunque luogo del pianeta, veniva spiegato e imposto dalla potenza che si sentiva (e si sente) l’incarnazione somma di tali valori. «Finché gli Stati Uniti si limitarono all’emisfero occidentale, tutto ciò riguardò solo questo grande spazio. Non appena però essi avanzarono la pretesa globale di un interventismo mondiale, la questione finì per toccare ogni altro Stato della terra», a partire dall’Europa, soprattutto dall’Europa.
L’immagine di apertura è un dipinto di Gerard Ter Borch che rappresenta la firma dei trattati di Westfalia con i quali nel 1648 si pose fine alla Guerra dei Trent’anni, chiudendo in questo modo la fase violentissima delle guerre di religione. Con questo e con successivi trattati si pose fine anche alla guerra di predazione sui mari e nacque in tal modo lo Jus Publicum Europaeum, il quale costituì – scrive Schmitt – «un capolavoro della ragione umana» per la sua capacità di porre fine ai «massacri delle guerre tra fazioni religiose» e limitando i conflitti alla forma della «semplice guerra tra gli Stati» come guerra circoscritta e guidata da regole che evitassero il coinvolgimento distruttivo delle popolazioni. L’esito fu il «fatto sorprendente che per due secoli non si ebbe sul territorio europeo nessuna guerra di annientamento».
Il tramonto del Sistema di Westfalia, in nome anche di valori morali assoluti, dei ‘diritti umani’, della ‘pace perpetua’, ha prodotto il ritorno in Europa (e nel mondo) della guerra totale, dello sterminio a fin di bene, dei massacri del Novecento e del nostro tempo.

Violenza pura

Teatro Greco- Siracusa
Elettra
(Ἠλέκτρα)
di Sofocle
con:
PEDAGOGO | Danilo Nigrelli
ORESTE | Roberto Latini
ELETTRA | Sonia Bergamasco
CORIFEE| Paola De Crescenzo, Giada Lorusso, Bruna Rossi
CRISOTEMI| Silvia Ajelli
CLITEMNESTRA | Anna Bonaiuto
EGISTO | Roberto Trifirò
PILADE | Rosario Tedesco
Capo coro| Simonetta Cartia

Traduzione: Giorgio Ieranò
Scene: Gianni Carluccio
Musiche: Giovanni Sollima
Regia di Roberto Andò

Sino al 6 giugno 2025

Non è con rappresentazioni mirabolanti e spettacolari ma con questa messa in scena sobria e asciutta – capace dunque di far emergere la potenza delle parole – che la distanza dei Greci da noi appare ancora una volta in tutta la sua inaccessibilità. Elettra di Sofocle è infatti violenza, violenza pura, violenza totale.
Una violenza che noi contemporanei ‘occidentali’ pratichiamo in modo sistematico e pervasivo, una violenza che vediamo continuamente rappresentata nei telegiornali e nei film, ma che eticamente diciamo di condannare, persino di aborrire, come qualcosa di inaccettabile;  sino a immaginare incredibili e totalitarie norme contro l’odio, sino a proibire per legge le parole di odio, sino a immaginare che si possano ‘rieducare’ i cittadini contro la violenza tramite corsi universitari di varia natura.
Rispetto a tale riedizione dei progetti razionalisti e antropologicamente nulli tipici di un enlightenment for dummies, rispetto alla profonda e miserabile ipocrisia di gente malata, di gente dannata quale noi siamo, Elettra pronuncia sincere parole di odio totale. Non il personaggio di Elettra ma l’intera tragedia, la quale mette in scena un conflitto assoluto. Una guerra e un odio che non si rivolgono a degli estranei, a stranieri, a lontani, ma sono diretti al marito, al padre, alla figlia, al figlio.
«χαλκόπους Ἐρινύς, l’Erinni dal passo metallico» (v. 491, trad. Ieranò; Angelo Tonelli traduce ‘L’Erinni dal piede di bronzo’) avanza in ogni battuta, situazione, gesto.
L’odio di Elettra contro Clitemnestra, sua madre, è senza condizioni, è integrale. A lei si rivolge chiamandola cagna, puttana, malvagia.
L’odio di Clitemnestra contro il marito Agamennone, che ha sacrificato agli dèi l’altra sua figlia – Ifigenia – e da lei macellato al ritorno di Agamennone da Troia, è convinto, argomentato, per lei necessario.
L’odio di Oreste contro Clitemnestra, madre anche sua, è a lungo meditato e sfocia nelle mani insanguinate della vita di lei, che lui le ha tolto nonostante le urla e le suppliche della genitrice.
L’odio di Clitemnestra contro sua figlia Elettra nasce anche dal rischio che la ragazza continuamente rappresenta per la vita sua e del suo nuovo compagno, Egisto. Un odio che gorgoglia dal disprezzo verso l’amore e il pianto che Elettra rivolge ad Agamennone. Un odio che Clitemnestra estende a Oreste e che le fa dire quanto sia  «δεινὸν τὸ τίκτειν ἐστίν, tremendo essere madre» (v. 770; Ieranò traduce «essere madre è una cosa spaventosa»).
Davvero «ὅρα γε μὲν δὴ κἀν γυναιξὶν ὡς Ἄρης, anche nelle donne c’è Ares» (v. 1243) poiché la furia di Ares abita nel cuore di tutti gli umani, poiché «nel cuore degli uomini non c’è che la guerra» (Céline, Il Dottor Semmelweis, Adelphi 2002, p. 71).
A Siracusa quest’anno tale violenza appare e viene scandita in uno spettacolo dalla tonalità minore e quindi assai riuscito. L’unica incertezza riguarda la recitazione della protagonista, troppo isterica e autistica e dunque poco greca.
Se «χρόνος γὰρ εὐμαρὴς θεός, il tempo è un dio gentile» (v. 179) che accomoda ogni cosa, è anche perché risolve nella morte l’odio pervasivo di ogni istante, confermando la potenza di Ἀνάγκη nella pienezza del Kαιρός invocato da Oreste per sé e per la sorella: una pienezza di vendetta, di sangue e di odio che i moderni fingiamo di capire ma che ci può solo spaventare.
Soprattutto quando è talmente motivata e convinta da poter chiudere la tragedia con queste parole: «ὦ σπέρμ᾽ Ἀτρέως, ὡς πολλὰ παθὸν / δι᾽ ἐλευθερίας μόλις ἐξῆλθες. O stirpe di Atreo / quanto hai patito per giungere con fatica alla libertà» (vv. 1508-1509).
L’odio come tappa di un itinerario verso la libertà. Le rivoluzioni e la storia sono questo, la lotta di classe è questo. Un occidente anglosassone che mediante delle leggi orwelliane mette al bando l’odio mostra di essere diventato ormai ben poca cosa nelle forme e nei destini del mondo. I Greci possono aiutarci a ricordare chi siamo, le nostre radici, la nostra identità, la verità dell’Europa.

Infantilismo e storia

L’ultimo uomo
Aldous
, 10 maggio 2025
Pagine 1-2

Una delle condizioni per capire quanto accade è la libertà. Almeno un grado minimo di libertà interiore, politica e morale è infatti necessario per guardare i fatti e il mondo al di là della enorme potenza del condizionamento che un animale sociale e gregario quale è l’umano inevitabilmente subisce. Soprattutto per capire le tragedie. In esse infatti si esprime e si condensa la complessità delle relazioni sia individuali sia collettive. La storia dei popoli e dei loro conflitti non può essere compresa da una prospettiva mediatica o moralistica o desiderante.
È dunque da una diversa angolatura che in questo breve articolo cerco di dire qualcosa su quanto sta accadendo in Palestina e in Ucraina, due eventi che toccano profondamente l’identità e il futuro dell’Europa e che stanno contribuendo al suicidio del nostro continente, un evento che non sarebbe possibile senza una lunga preparazione culturale e pedagogica.

Sull’Europa

Lunedì 12 maggio 2025 dalle 15.00 alle 17.00 nell’Aula B del Polo didattico ‘Virlinzi’ di via Roccaromana 43, a Catania, per gli studenti del corso di Teoria generale del Diritto terrò una lezione dal titolo Sull’Europa. Il Nomos della terra di Carl Schmitt.
A invitarmi al Dipartimento di Giurisprudenza è Alberto Andronico, professore ordinario di Filosofia del diritto nell’Ateneo di Catania.

«La formula dell’emisfero occidentale era diretta proprio contro l’Europa, l’antico Occidente. Non era diretta contro la vecchia Asia o l’Africa, ma contro il vecchio Ovest. Il nuovo Ovest avanzava la pretesa di essere il vero Ovest, il vero Occidente, la vera Europa. Il nuovo Ovest, l’America, voleva sradicare l’Europa, che fino ad allora aveva rappresentato l’Ovest, dalla sua collocazione storico-spirituale, voleva rimuoverla dalla sua posizione di centro del mondo» (Il Nomos della terra, Adelphi, p. 381)

Europa e metafisica

Europa e metafisica
in EuRoad. Percorsi della cultura europea tra filosofia e scienza
a cura di Corrado Giarratana
Rubettino, Soveria Mannelli 2025
Pagine 43-58

Indice
-Breve premessa cosmologica
-Che cos’è metafisica?
-Una metafisica cosmologica e materialistica
-Metafisica e ontologia
-Una metafisica temporale

Le culture umane, la presenza stessa dell’umano e della vita sul nostro pianeta, sono naturalmente fenomeni e realtà del tutto effimere, di nessun peso nel volgere infinito ed eterno delle galassie, dell’energia instancabile della materia. Ma se vogliamo occuparcene, come Platone ci suggerisce nonostante egli pienamente ammetta tale insignificanza – «ἔστι δὴτοίνυν τὰ τῶν ἀνθρώπων πράγματα μεγάλης μὲν σπουδῆς οὐκ ἄξια, ἀναγκαῖόν γε μὴνσπουδάζειν: τοῦτο δὲ οὐκ εὐτυχές. […] ἄνθρωπον δέ, ὅπερ εἴπομεν ἔμπροσθεν, θεοῦ τιπαίγνιον εἶναι μεμηχανημένον. È vero che le vicende umane non meritano che ci si interessi molto di loro, bisogna però occuparsene, per quanto la cosa possa risultare ingrata. […] L’umano, come dicevamo prima, è soltanto un giocattolo fabbricato dagli dèi» (Leggi, 803 b-c). – allora ha senso cercare di cogliere identità e differenze tra le varie epoche e luoghi nei quali l’umanità sparge la propria presenza e scandisce il proprio tempo.
Uno di questi luoghi è l’Europa. Che cosa significa Europa? Che cosa vuol dire essere europei? Le risposte possibili sono ovviamente numerose, ricche e plausibili. In questo saggio ne propongo una molto semplice: l’Europa è lo spazio della metafisica, intesa quale scienza capace di cogliere, analizzare e descrivere l’essere come tempo e μεταβολή. A uno sguardo attento alla storia della filosofia, alle sue domande, alle sue grandi articolazioni, appare infatti chiaro che uno dei fondamenti del pensiero europeo è proprio il divenire come identità di realtà e metamorfosi, di essere e tempo, come struttura che si trasforma di continuo senza dissolversi mai.

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In questo volume sono stati pubblicati i saggi di alcuni miei allievi che hanno partecipato al progetto di ricerca del quale il libro è uno dei risultati:

-Daria Baglieri, Lebenswelt, corpo, intersoggettività. La rifondazione husserliana dell’Idea di scienza nella correlazione Io-mondo

-Sarah Dierna, Destinati a finire. Sull’estinzione del genere umano

-Lucrezia Fava, Paradigmi dell’amore nella tradizione filosofica

-Enrico Moncado, Presenza, crisi della presenza e forme del trascendimento in De Martino e Heidegger 

-Enrico Palma, Kafka e il sacro. Riflessioni a partire dai Quaderni in ottavo

 

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