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Autorità

Nel nome del padre
di Marco Bellocchio
Italia – Francia, 1972 / Versione ridotta dal regista (2011)
Con: Yves Beneyton (Angelo Transeunti), Renato Scarpa (Padre Corazza), Edoardo Torricella (Padre Matematicus), Laura Betti (la madre di Franc)
Trailer del film

Paura e terrore come strumenti di dominio praticati nei collegi cattolici alla fine degli anni Cinquanta. Ma ormai strumenti insufficienti di fronte alle trasformazioni del secondo dopoguerra, alla fine del pontificato di Pio XII, al venir meno del principio di autorità delle istituzioni e dei padri. Mentre viene portato in collegio, infatti, Angelo Transeunti riceve schiaffi dal proprio genitore e li restituisce con violenza. Dentro un costoso collegio/carcere spinge alla ribellione i suoi compagni folli, deboli, aggressivi. Una ribellione che però non ha l’obiettivo di rendere liberi, piuttosto nutre quello di creare un sistema di terrore ancora più efficiente rispetto a quello ormai in decadenza del clero.
Una vicenda autobiografica e violenta viene narrata da Bellocchio nelle forme espressionistiche del grottesco, dell’eccesso, del visionario, con madonne che scendono dagli altari ad abbracciare collegiali che si masturbano guardandola; con preti che vivono dentro bare; con altri che vengono sbeffeggiati da alunni ai quali nulla sanno insegnare; con recite studentesche durante le quali le bestemmie si coniugano alla paura del lupo cattivo, il mito di Don Giovanni si lega a oscene volgarità. La disincantata rassegnazione di Padre Corazza e la gelida passione ribelle di Angelo Transeunti disegnano insieme l’uovo di serpente che dalla ribellione borghese del Sessantotto è transitato a forme di dominio sempre più pervasive, intime, tecnologiche, sanitarie, totali.
Film come questi mostrano in modo plastico che cosa significhi un anelito all’emancipazione privo di ogni luce e quindi inevitabilmente destinato a sciogliersi, annullarsi, trasformarsi ancora una volta in potere.

Perfezione

Inferno
Scuderie del Quirinale – Roma
A cura di Jean Clair
Sino al 23 gennaio 2022

Percorsa l’ampia spirale che una volta serviva ai cavalli del Re d’Italia al Quirinale, si arriva a un muro sul quale vengono proiettate alcune scene di Inferno, girato nel 1911 da Bertolini, De Liguori e Padovan (è possibile vedere qui l’intero film, dal quale consiglio di eliminare l’audio posticcio). Immagini ingenue e insieme espressioniste, ispirate a Gustave Doré ma colme più che in lui di una fisicità che ha preso alla lettera le invenzioni dantesche del ghiaccio, del fuoco, dei fiumi attraversati da anime del tutto corporee.
Si giunge da qui alla Porta dell’Inferno di Rodin, che cerca di esprimere nel marmo il dolore senza fine dei dannati. Il Giudizio finale di  Beato Angelico, dove persino la dannazione assume l’armonia delle sfere, sta accanto a una ben più terrificante Morte scolpita nel 1522 da Gil de Ronza (qui a destra).
Alcune magnifiche edizioni quattrocentesche del De civitate Dei introducono altri antichi volumi, compresi alcuni manoscritti. Gli Inferi di Monsü Desiderio (1622; immagine qui sotto) descrivono una profonda e terribile architettura che sembra scavare dentro e oltre e prima delle sofferenze umane e animali. Non potevano mancare Hieronymus Bosch con i suoi inferni, i suoi incubi, il suo grottesco, la sua Visione apocalittica, e Albrecht Dürer con Il cavaliere, la morte e il diavolo, una delle immagini più potenti dell’arte universale.

In mezzo a tutto questo la Medusa del 2008 di Ivan Theimer, in realtà eterna, fuori dal tempo, puro orrore. Di rappresentazione in rappresentazione si arriva ai Lussuriosi di Victor Prouvê (1889) (immagine di apertura), una delle opere più inquietanti e perfette di questo viaggio nel dolore: Paolo è carne senza volto che tocca ancora una volta la carne desiderabile di Francesca ma questi corpi e gli altri spinti dalla «bufera infernal, che mai non resta» (Inferno, canto V, v. 31) danno l’impressione di essere tutti in agonia, nel preciso senso della ‘piccola morte’ -l’orgasmo- che è diventata subito, in quell’istante stesso, il momento della fine. Un istante che la dannazione rende eterno. E poi ancora: gli acquarelli di Miguel Barceló (2001) si alternano alle molteplici versioni delle Tentazioni di sant’Antonio, soprattutto quella di Odilon Redon (1896) in cui la Morte dice alla vita «sono io che ti rendo seria».
C’è una grande forza nei versi con i quali Mefistofele dichiara la propria natura redentrice: «Ich bin der Geist, der stets verneint! / Und das mit Recht; denn alles, was entsteht, / Ist wert, daß es zugrunde geht; / Drum besser wärs, daß nichts entstünde. / So ist denn alles, was ihr Sünde, / Zerstörung, kurz das Böse nennt, / Mein eigentliches Element» (Goethe, Faust, vv. 1338-1344); nella traduzione di Franco Fortini: «Sono lo spirito che sempre dice no. / Ed a ragione. Nulla / c’è che nasca e non meriti / di venire disfatto. / Meglio sarebbe che nulla nascesse. / Così tutto quello che dite Peccato / o Distruzione, Male insomma, / è il mio elemento vero» (Meridiani Mondadori 1990, p. 103); bella, e più diretta, la traduzione che compare in mostra: «Sono lo spirito che nega sempre! / E con ragione, perché tutto ciò che nasce / è degno di perire. / Perciò sarebbe meglio se non nascesse nulla. / Insomma, tutto ciò che voi chiamate / peccato, distruzione, in breve, il male / è il mio specifico elemento». A tanta apollinea verità si coniuga e contrappone la grottesca potenza con la quale Alfred Kubin descrive il Concepimento della donna (1905) dallo sperma che il diavolo emette dal suo enorme fallo (a destra).
E poi: l’inferno delle fabbriche, che per Georges-Antoine Rochegrosse hanno ucciso «la porpora», la bellezza (1914; qui sotto); l’inferno della follia; l’inferno della guerra con L’avvoltoio carnivoro di Goya ripreso da Kubin in Europa (1916); l’inferno delle trincee, descritte in modo realistico e insieme simbolico da Percy Delfi Smith e Otto Dix nelle immagini dedicate al Grande Massacro, alla Prima guerra mondiale, oggetto anche dell’Inferno di George Leroux (1921), un impasto di argilla, carne, escrementi, cadaveri, fumo.

Che cosa mai dei diavoli potrebbero inventare di più malvagio di ciò che gli umani sono capaci di fare? Con tranquillo disincanto Schopenhauer afferma appunto che l’inferno non è qualcosa di diverso dalla nostra vita. Dovremmo forse riconoscere che l’origine e la forma del male stanno nel funesto demiurgo (Jehovah/יְהֹוָה) al quale si attribuisce la creazione dell’umano e del vivente.
Lucifero merita invece le parole di Giosuè Carducci e di Anatole France. Il primo così si esprime nel suo Inno a Satana (1863): «A te, de l’essere / Principio immenso, / Materia e spirito, / Ragione e senso. […] E splendi e folgora / Di fiamme cinto; / Materia, inalzati; / Satana ha vinto. […] Salute, o Satana, / O ribellione, / O forza vindice / De la ragione! // Sacri a te salgano / Gl’incensi e i voti! / Hai vinto il Geova / De i sacerdoti» (vv. 1-4 ; 165-168; 193-200). Il secondo, riprendendo tesi da sempre presenti nella vicenda religiosa e filosofica dell’Europa, scrive che il Dio biblico è in realtà Yaldabaoth, il demiurgo delle tradizioni gnostiche, «un tiranno ignorante, stupido e crudele», che non è affatto il creatore dei mondi ma è soltanto un’entità inferiore al divino, un facitore «ignorante e barbaro, che, essendosi impadronito di un’infima particella dell’Universo, vi ha sparso il dolore e la morte» ma che gli umani continuano ad adorare, per quanto infelici siano, poiché «è spaventoso per loro il solo pensiero di cessare di essere. […] Gli uomini adorano il Demiurgo che ha reso la loro vita peggiore della morte e la morte peggiore della vita» (La révolte des anges [1914], trad. di A. Baldasseroni, La rivolta degli angeli, Lindau, Torino 2017, pp. 99, 216 e 129).

La densa mostra romana si chiude sui versi finali della cantica dantesca: «E quindi uscimmo a riveder le stelle» (XXXIV, 139). A rivedere gli astri, le luci, le galassie, che si fanno movimento ed energia nelle riprese effettuate dal Telescopio Hubble nel 2014, una delle cose più belle e più vere della mostra. Più vere perché una spiegazione del male della vita che voglia rimanere razionale non può che essere spinoziana, materialistica, cosmica.
Per Spinoza il bene e il male non sono enti reali ma enti di ragione, sono relazioni con le quali delle menti particolari valutano ciò che a loro porta vantaggio e ciò che invece fa patire loro danno. Ciascun ente stia dunque «contento al quia», per dirla ancora con Alighieri (anche se in un significato che Dante non avrebbe accolto; Purgatorio, III, v. 37), al quia della propria identità spaziotemporale dentro il tutto, senza ambire a impossibili eternità per il singolo, che è un modo/elemento dell’eternità che nulla può scalfire o diminuire. Con grande chiarezza Spinoza sostiene che «bene e male o peccato non sono che dei modi di pensare e non delle cose aventi una reale esistenza […], poiché tutte le cose e le opere della natura sono perfette» (Breve Trattato su Dio, l’Uomo e la sua felicità, 6,9; trad. di A. Sangiacomo, in Tutte le opere, Bompiani 2011, p. 235).

Perfetto è il cosmo, perfetta la materia, perfetto è l’intero. «La materiatempo è perfezione libera da ogni sensibilità, malattia, angoscia, bisogno, risentimento, dolore. La realtà nella quale siamo radicati è fatta di vita e non vita, in un continuum di esistenze materiche dentro il quale i corpi viventi vengono poi accolti dentro la potenza metabolizzante degli elementi, delle radici vegetali, della terra. Vengono accolti nell’essere in quanto tale, che è energia, che è materia. Una potenza che viene prima e che rimane al di là di ogni parola e di ogni concetto. Tanto che solo un poeta-mistico ha forse potuto dirla con sufficiente chiarezza mostrando l’essere senza perché di una rosa, la quale ‘fiorisce perché fiorisce’. Lo ha detto Silesius. Lui e il suo maestro Eckhart hanno oltrepassato ogni individualità animale e ogni personalità divina, immergendo l’essere e la parola che lo dice nel flusso del tempo e nell’emanazione della luce, senza un perché» (Tempo e materia. Una metafisica, Olschki 2020, p. 146).
L’Inferno è la condizione di sofferenza e insecuritas del vivente ma la comprensione della luce oscura che è l’esserci «l’immersione in essa, redime dal suo niente e fonda la libertà dello gnostico: libertà dal male e dal bene, libertà da ogni autorità, libertà dalla speranza, libertà dal senso, libertà dal niente dentro il niente» (Ivi, p. 98).  

Espressionismo manzoniano

I Promessi Sposi
di Mario Bonnard
Italia, 1922
Con: Domenico Serra (Renzo), Emilia Vidali (Lucia), Umberto Scalpellini (Don Abbondio), Mario Parpagnoli (Don Rodrigo), Enzo Billiotti (Fra’ Cristoforo), Rodolfo Badaloni (L’Innominato), Ida Carloni Talli (Agnese), Ninì Dinelli (Gertrude), Olga Capri (Perpetua)

Restaurato e accompagnato da musiche contemporanee, questo capolavoro del cinema muto mostra una coinvolgente originalità formale e narrativa. Mario Bonnard fa del romanzo di Manzoni un percorso dentro la storia, l’antropologia, il male. La vicenda di Renzo e Lucia quasi rimane sullo sfondo delle grandi scene collettive, fatte di folle, soldati, appestati, ribellioni. Scene nelle quali la violenza delle vicende, la malvagità degli umani, l’inesorabilità degli eventi emergono dallo sfondo ora idilliaco del lago ora concitato della città. I rappresentanti dell’ideologia religiosa di Manzoni – fra’ Cristoforo, il cardinale Federigo – appaiono costantemente rivolti verso l’alto, distanti, quasi emaciati, ininfluenti. Come se fossero estranei rispetto alla concretezza della manzoniana fenomenologia dell’umano. Le libertà narrative che Bonnard si è preso – l’Innominato alla guida dei suoi soldati contro i lanzichenecchi; Lucia malata in casa di Donna Prassede; i dettagli del tradimento del Griso e della sua morte; le lunghe scene del saccheggio di Mantova; – sono funzionali a una disincantata descrizione della città umana, così come essa va sempre o come andava ‘nel secolo XVII’:
«In mezzo a questo serra serra, non possiam lasciar di fermarci un momento a fare una riflessione. Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s’era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l’apparenza d’un oppressore; eppure, alla fin de’ fatti, era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a’ fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo…voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo»
(I Promessi Sposi, a cura di G. Getto, Sansoni, Firenze 1985, cap. VIII, p. 184).
E tutto questo viene narrato in una tonalità color seppia, con moderne dissolvenze delle forme, tramite giochi tra sfondo/primi piani e altre modalità espressionistiche. Un grande film.

«Animali siamo tutti, tutti»

Volevo nascondermi
di Giorgio Diritti
Italia, 2020
Con: Elio Germano (Antonio Ligabue), Pietro Traldi (Renato Marino Mazzacurati), Orietta Notari (Madre Mazzacurati), Francesca Manfredini (Cesarina), Paola Lavini (Pina)
Trailer del film

Dentro un sacco, nel gelo dei campi, nelle stalle svizzere e sulle rive del Po. Un dialetto svizzero-tedesco assai duro e un altrettanto stretto dialetto della bassa reggiana, a Gualtieri. Città della quale era originario l’uomo che gli diede un cognome odiato, che Antonio cambiò in Ligabue. Due madri, una biologica e l’altra adottiva, amate e, in modi diversi, assenti. E sopratutto la potenza creativa che sgorga anche dai corpimente più martoriati, dalla psiche più contorta, solitaria, dispersa.
E poi esplode nei colori sfavillanti, nelle forme espressionistiche, negli animali amati imitati abbracciati, quegli «animali che siamo, tutti, tutti» come Antonio dice a un amico. Dell’animalità è parte anche il desiderio erotico che neppure diventato ricco e famoso dà a Ligabue l’amore, perché le donne sono da lui tanto volute quanto temute. «Follia» è parola che tutto spiega e nulla spiega di una vita così dolente e appassionata, ascetica e ctonia, orgogliosa «sono un artista io, un grande artista!» e umilissima. La vita di uno dei pittori più profondi e radicali del Novecento, le cui tele sono terra, foreste, simboli, morte che divora, forma che rinasce.
Alla persona di Ligabue Elio Germano regala un personaggio estremo e forte, mai patetico, a volte insopportabile a se stesso e agli altri.
Sullo sfondo crepuscolare e abbacinante dei campi e del fiume, del magnifico delta del Po, la vita di Ligabue viene narrata da Giorgio Diritti in modo anche rigoroso, poetico, allusivo, delicato. E molto terrestre.
«Il rimpianto del suo spirito, che tanto seppe creare attraverso la solitudine e il dolore, è rimasto in quelli che compresero come sino all’ultimo giorno della sua vita egli desiderasse soltanto libertà e amore», questa la frase che sta sulla sua tomba.

Luce che si fa struttura

Georges de La Tour
L’Europa della luce

A cura di Francesca Cappelletti
Palazzo Reale – Milano
Sino al 27 settembre 2020

Non ci sarebbe stato, naturalmente, senza Caravaggio. Ma non ci sarebbe stato neppure senza i fiamminghi antichi e i più recenti, come i maestri di Utrecht. Non ci sarebbe stato senza l’intera pittura nordeuropea della prima metà del Seicento. E soprattutto non ci sarebbe stato senza la luce. La luce della notte e la luce della sua mente. La mente di Georges de La Tour (1593-1652). Quella che emerge nella penombra dei suoi spazi; nei trapezi e nei rettangoli dei suoi abiti; nell’energia dei suoi mendicanti; nel riverbero incredibile e soffuso delle candele.
La mostra milanese accompagna ai dipinti di de La Tour quelli di alcuni dei suoi contemporanei: prima di tutto il sempre vivace e ammaliante van Honthorst, con una splendida Vanitas (1618, qui a destra, anche se la foto -ahimè- non rende) nella quale la bellezza di una donna diventa specchio, morte, giustizia, arcano; poi un pittore senza nome, chiamato Maestro del Lume di Candela, poiché una candela è sempre il centro dal quale si dipartono i corpi, gli eventi, le situazioni; infine altri artisti nelle cui tele si diffonde una polvere di luce.
Tra i dipinti di de La Tour esposti a Palazzo Reale ci sono alcune opere della prima fase – Il denaro versato; La rissa tra musici mendicanti – nelle quali esplode una violenza che sembra tanto antica quanto naturale, nelle quali il denaro condiziona, plasma e deforma i volti degli umani. Le opere più mature – I giocatori di dadi (in alto), Educazione della vergine – acquistano significati e forme del tutto nuove e potenti, con figure sempre più nette, geometriche, astratte dallo spaziotempo, dentro la luce che si fa struttura. Queste opere e Giobbe deriso dalla moglie (1650, a sinistra) stanno al confine tra la pittura italiana e quella dell’Europa del Nord. Nel Giobbe una figura grande, dominante sino al divino, surclassa un uomo nudo e vago, il cui sguardo è, rispetto alla potenza di lei, una lacrima tenace. Uno degli ultimi dipinti – San Giovanni Battista nel deserto (sotto)– raffigura una solitudine ai confini delle tenebre, del nulla.
Di lui Roberto Longhi disse: «È un pittore sorprendente. Non abbiamo strumenti per misurare il suo genio; ma sento che il talento di de La Tour spezzerebbe più di un manometro».
Dentro Caravaggio ma al di là di Caravaggio, Georges de La Tour incarna un ideale matematico-platonico, un espressionismo esoterico, arcaico e modernissimo dove tutto sembra vibrare di immobilità sospesa, enigmatica, luminosa.

Specchi

Piccolo Teatro Strehler – Milano
La commedia della vanità
di Elias Canetti
Regia di Claudio Longhi
Traduzione: Bianca Zagari
Scene: Guia Buzzi
Con: Fausto Russo Alesi, Donatella Allegro, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Diana Manea, Eugenio Papalia, Aglaia Pappas, Franca Penone, Simone Tangolo, Jacopo Trebbi
Violino: Renata Lackó – Cimbalom: Sándor Radics
Produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro di Roma–Teatro Nazionale, Fondazione Teatro della Toscana, LAC Lugano Arte e Cultura
Sino al 26 gennaio 2020

Un regime volto al bene dei suoi cittadini intende purificarli da uno dei vizi più fastidiosi e pericolosi per la vita collettiva: la vanità. Emana dunque decreti assai severi che impongono di bruciare tutte le fotografie e distruggere tutti gli specchi. Esaltate da questa eccitante novità, le folle accorrono al luogo dove l’Io viene in questo modo distrutto, o almeno impossibilitato a vedersi e rivedersi. La difficoltà di fare i conti con la propria immagine diffonde tuttavia nel corpo sociale una vera e propria nientità del mondo, che ha come effetto disturbi psichiatrici e rigonfiature enormi dell’invidia, dell’odio e degli altri vizi, come accade quando il venir meno di uno dei sensi rende più acuti tutti gli altri. Gli spacciatori di specchi fanno affari, vendendo la possibilità di contemplarsi per qualche minuto. Sorgono infine luoghi dove il vizio viene tollerato e venduto a prezzi di mercato, come nei bordelli. Solo che adesso a essere offerti a differenti tariffe non sono i corpi altrui ma la propria immagine. Perduta l’identità, senza la quale non è possibile alcuna vera relazione, a emergere saranno dei soggetti che ripetono ossessivamente IO mentre si sottomettono tutti al grande ego di un dittatore.
Come si vede, questa commedia giovanile di Elias Canetti (1905-1994), scritta fra il 1933 e 1934, mette in guardia da alcune delle più striscianti illusioni del nostro presente.
La prima è che si possano dichiarare fuori legge i sentimenti. Nella commedia si tratta della vanità, negli anni Venti del XXI secolo si tratta dell’odio. Le dinamiche sono analoghe e non possono che risultare distruttive e autoritarie. Le leggi possono proibire infatti delle azioni, dei comportamenti, non possono toccare i sentimenti, pena la perversione dell’intera vita collettiva. La conclusione della commedia è inevitabile: proibire i sentimenti non può che avere come esito una dittatura.
La seconda illusione consiste nell’attacco all’identità. Chi si pronuncia contro l’identità non soltanto afferma una evidente sciocchezza antropologica ma è causa di grave danno nelle relazioni private, storiche, sociali, collettive. È infatti possibile entrare in relazione con la differenza soltanto a partire da una già esistente identità. Dove non c’è identità non è possibile intrattenere alcuna relazione. È questo un dispositivo sia logico –per il quale A=A e A≠B si coappartengono, l’uno senza l’altro non si dà– sia ontologico, per il quale ogni ente non è mai soltanto un ente ma è anche un evento che è parte di un processo, e quindi ogni ente è una relazione che si origina sempre da ciò che l’ente è già e ciò che l’ente non è ancora.
Si tratta di un dispositivo che agisce nell’opera fondamentale di Canetti, Massa e potere, e che nella commedia viene intuito e rappresentato mediante una struttura e un linguaggio espressionistici, che la messa in scena di Claudio Longhi rispetta nel grottesco dei movimenti, nella violenza del trucco sul corpo degli attori, nel vivace fracasso della prima parte e specialmente nell’opzione scenografica che riconduce e riduce la vicenda a quella di un circo degli anni Trenta, dentro il quale gli umani sono diventati un fenomeno da baraccone. Nelle quattro ore di spettacolo (una durata comunque eccessiva) sembra di assistere non soltanto a una commedia di Canetti ma anche a una serie di quadri di George Grosz. E tutto viene accompagnato dalle musiche dal vivo (violino e cimbalom) che danno ancor più l’impressione di stare dentro un circo. Il circo senza fine delle nostre vanità.

Gadda

Carlo Emilio Gadda
La cognizione del dolore
 (1938-1941)
Garzanti, 1994
Pagine 213

Il romanzo incompiuto di Gadda è un itinerario tragico e grottesco nelle tenebre. In esso nulla succede se non il finale assassinio. Per il resto è una descrizione della vita nelle ville, villette, villoni del Serruchòn in un improbabile Sudamerica che è la Brianza. Una descrizione in particolare della vita del marchese Gonzalo Pirobutirro e della sua vecchia madre. In questi due personaggi si concentra, in modo diverso e profondo,  l’innocenza e il dolore del mondo.
Gonzalo legge Platone e vorrebbe vivere di solitudine e di silenzio. La madre, invece, -figura di perenne lutto dopo la morte in guerra dell’altro figlio- gli riempie la vita e la villa di contadini e donnette tanto puzzolenti quanto rapaci. Il conflitto è fra una consapevolezza del mondo lucida sino alla disperazione -«egli era un uomo […] di criterio piuttosto forte e, direi, temperato. Nessuna illusione» (pag. 168)- e una bontà ancor più disperata, complice effettiva dei malvagi e degli sciocchi, permeata di un cristianesimo sin troppo facile, troppo condiscendente, vile.
Nel segno di Manzoni -e certo anche molto al di là di lui- da tutto il romanzo si sprigiona una forza etica e antropologica che rapisce. Un rigore morale sconosciuto a un paese facile e cattolico, un libro che addita senza pietà il cuore della corruzione, il cattivo gusto, la mala educazione: Gonzalo «non aveva nessun genio per l’arrabattarsi e il tirare a campare E c’era, per lui, il problema del male» (45); «Aveva, della legge, un concetto sui generis […] consustanziato nell’essere, biologicamente ereditario» (88).
Lo storicismo che tutto assolve, la fiducia ebete in un progresso senza fine, il culto del meglio identificato con ciò che è più nuovo e vincente, gli sono del pari estranei. Come estranea a Gadda è una modernità che coniugando perdono cristiano, giustificazionismi sociologici, alibi individuali si mostra per ciò che è: un dispositivo di ferocia nei confronti dei puri, di coloro che proiettano il loro candore sull’intera umanità. Sbagliano, certo. Ma lo fanno con  passione per la giustizia, la quale è anche consapevolezza «della scemenza del mondo o della bamboccesca inanità della cosiddetta storia, che meglio potrebbe chiamarsi una farsa da commedianti nati cretini e diplomati somari» (Appendice, p. 199).
Gadda sa che il Tempo è persuasore di rinunce e divoratore di speranza, che sofferenza e tenebra avvolgono le cose, gli uomini, il vivente nella corsa magnifica e insensata degli evi. Ma -come ogni uomo degno di tal nome- vuole conoscere il dolore, averne cognizione. Nell’ironia parossistica, nel grottesco di Gadda riemerge la Gnosi profonda, il disprezzo della folla e dell’umano, l’orrore e l’ambiguo fascino della materia, del corpo. L’umanità, «questo mare senza requie, fuori, sciabordava contro l’approdo di demenza, si abbatteva alle dementi riviere offrendo la sua perenne schiuma, ribevendosi la sua turpe risacca» (131). Uomini e donne, furbi e sciocchi, ragazzi e vecchie «venuti fuori anche loro dall’Arca bastarda delle generazioni» (132) sono la folla turpe e feroce che con la sua sola esistenza distrugge il poco di bellezza delle cose. Nell’evidenza dell’arte, nell’efficacia della parola letteraria, splende la becera assurdità di una democrazia cieca, incapace di percepire la differenza fra il lettore di Platone e il peone furbastro, e quindi prodiga nell’offrire a entrambi un eguale diritto di voto (p. 200 ma per intero la straordinaria Appendice: L’Editore chiede venia del recupero chiamando in causa l’Autore).
La pietà di Gadda è profonda e rivolta agli onesti, al «ragazzo vivo e normale» al quale una concezione insensata della solidarietà preferisce i «più snaturati delinquenti» (201), è rivolta a chi chiede a se stesso rigore, è rivolta ai più forti, ai puri, che sempre bisognerà difendere dai più deboli quando i deboli -come sempre- sono legione.
La poesia di questo romanzo canta la gloria di un mondo barocco ma solo perché il grottesco e il barocco risiedono già nelle cose: «Quindi assai vero che il luogo comune che quasi imputa a Gadda il suo esser barocco potrebbe commutarsi nel più ragionevole e più pacato asserto ‘barocco è il mondo, e il G. ne ha percepito e ritratto la baroccaggine’» (Appendice, p. 198).
Emblematica -nel suo fulgore, nel suo dolore- è questa pagina: 

«Camminava tra i vivi. Andava i cammini degli uomini. Il primo suo figlio […] in una lunga e immedicabile oscurazione di tutto l’essere, nella fatica della mente, e dei visceri dischiusi poi al disdoro lento dei parti, nello scherno dei negoziatori sagaci e dei mercanti, sotto la strizione dei doveri ch’essi impongono, così nobilmente solleciti delle comuni fortune, alla pena e alla miseria degli onesti. Ed era ora il figlio: il solo. Andava le strade arse lungo il fuggire degli olmi, dopo la polvere verso le sere ed i treni. Il suo figlio primo. […] Il suo figlio: Gonzalo. A Gonzalo, no, no!, non erano stati tributati i funebri onori delle ombre; la madre inorridiva al ricordo: via, via!, dall’inane funerale le nenie, i pianti turpi, le querimonie: ceri, per lui, non eran scemati d’altezza tra i piloni della nave fredda e le arche dei secoli-tenebra. Quando il canto d’abisso, tra i ceri, chiama i sacrificati, perché scendano, scendano, dentro il fasto verminoso dell’eternità» (116). 

L’unicità di Gadda, forse il maggiore insieme a Elsa Morante dei narratori italiani del Novecento, consiste in tutto questo e anche nella sua assenza di retorica, in un Paese e in una letteratura che troppo la conoscono. Nessun romanticismo né estetico né esistenziale. L’espressionismo è indice anche di questo rifiuto di un io eccessivo e narciso al quale Gadda sostituisce il rigore di una oggettività spietata, barocca.

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Di Gadda ho parlato qui a proposito di altri suoi romanzi e racconti:

L’Adalgisa. Disegni milanesi (5.12 2008)

Accoppiamenti giudiziosi (7.6.2009)

Eros e Priapo: da furore a cenere (2.5.2014)

Verso la Certosa (13.10.2014)

Le bizze del capitano in congedo e altri racconti (30.7.2015)

 

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