Skip to content


Police

Wrong Cops
di Quentin Dupieux
USA, 2013
Con: Mark Burnham (Duke), Eric Judor (Rough), Alexis Dziena (Emma), Steve Little (Sunshine), Arden Myrin (Shirley), Daniel Quinn (il vicino), Marilyn Manson (David Delores Frank)
Trailer del film

Uno dei personaggi di Wrong era il poliziotto Duke, che ora diventa quasi il protagonista intorno al quale ruota una banda di poliziotti soltanto apparentemente surreali e invece credo vicini alla realtà delle ‘forze dell’ordine’ statunitensi e non soltanto statunitensi. Si vede benissimo, nel senso che lo abbiamo visto e continuiamo a vederlo anche nelle nostre contrade, che appena a qualcuno metti una divisa si scatenano in costui gli impulsi più sopiti alla sopraffazione, alla violenza, al delirio di onnipotenza.
Sono questi i sentimenti e le emozioni che muovono il corpo di polizia dell’anonima e paradigmatica cittadina  (o quartiere di Los Angeles) USA nella quale si svolgono i fatti. Poliziotti che spacciano droga, poliziotti che tentano stupri, poliziotti che sparano e colpiscono a caso, poliziotti avidissimi, poliziotti dall’apparenza molto maschile e dalle tendenze fortemente omosessuali (un dispositivo classico della psicoanalisi), poliziotti -soprattutto- molto stupidi. Ne esce una baraonda divertente, amara e dissacrante verso le divise e coloro che le indossano, verso le loro pratiche, i sogni, la corruttela.
Il film prende quota mano a mano che procede, mostrando di essere qualcosa di più di una commedia demenziale. Il culmine arriva nella scena finale, che è un classico di film e telefilm USA. Si tratta infatti del solenne funerale di uno dei poliziotti, che si è ucciso infiggendosi una cazzuola nel collo. È a questo punto che il più depravato dei suoi colleghi e in parte responsabile della morte del defunto -Duke, appunto- enuncia il solenne, ironico ma in ogni caso realistico significato di questo film. Duke afferma infatti che «Raggio di sole» (Sunshine era il soprannome del collega) è uscito adesso dall’inferno, poiché «l’inferno è qui, l’inferno è questa vita qui, non ne esiste un altro».
Il corrottissimo, rozzo, perverso poliziotto (che alla parola book fa smorfie di disgusto) non sa di stare citando uno dei più lucidi filosofi di ogni tempo, per il quale è questo mondo il vero «giudizio universale», è questo mondo «l’inferno» (Arthur Schopenhauer, Parerga und Paralipomena: kleine philosophische Schriften, trad. di M. Montinari ed E. Amendola Kuhn, Adelphi 1983, pp. 288, 302 e 392).

Effimeri

Recensione a:
David Benatar
La difficile condizione umana.
Una guida disincantata alle maggiori domande esistenziali
A cura di Luca Lo Sapio
Giannini Editore, 2020
Pagine 271
in Scienza & Filosofia
numero 24 / 2020
Pagine 367-373

«Dopo tutto, quelli che non esistono non si trovano in nessuna condizione, men che meno in una difficile condizione. Non sono destinati a morire».
Una fenomenologia dell’esistenza che sia libera da presupposti religiosi, moralistici e millenaristici non può che condividere parole come queste.

L’antropologia di Jannacci

Enzo Jannacci
Quelli che…
(1975)

Un elenco e una tassonomia dell’umano. Nelle nostre società, certo, ma anche al di là di esse. I luoghi comuni, le abitudini, le invenzioni, i paradossi, le pigrizie, il fluire, lo stare, i sentimenti, la storia, la solitudine, il sarcasmo, la miseria, il riso, la malinconia. L’esistere, la morte, il tempo.
In altri brani di questo grande artista si enunciano termini come «nano, negher, terun», certamente invisi ai paladini del politicamente corretto, che potrebbero accusare tali canzoni di essere discriminanti, offensive, persino ‘razziste’. Paladini e fanatici della censura che vorrebbero sterilizzare la densità del linguaggio in una neutralità slavata e spenta. E invece tutti ci ritroviamo in almeno una delle forme umane ironiche, divertenti e patetiche cantate da Jannacci. Io mi sono riconosciuto in otto di esse…

 

Ripetizioni

In Another Country
di Hong Sang-soo
Corea del Sud, 2012
Con: Isabelle Huppert (Anne), Kwon Hye Hyo, Moon Sung-keun, Jung Yu-mi
Trailer del film

Nell’incipit del I capitolo del 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, Marx ricorda la tesi hegeliana per la quale «alle großen weltgeschichtlichen Tatsachen und Personen sich sozusagen zweimal ereignen» -tutti i grandi eventi e personaggi della storia accadono per così dire due volte- e osserva però che Hegel «hat vergessen, hinzuzufügen: das eine Mal als Tragödie, das andere Mal als Farce» -ha dimenticato di aggiungere che si presentano la prima volta in forma di tragedia, la seconda come farsa.
I piccoli e privati eventi della vita di Anne accadono invece più di due volte, sempre nello stesso luogo -Mohang, località di mare in Sud Corea- con gli stessi personaggi -la giovane albergatrice, una coppia con lei incinta, un bagnino- ma in combinazioni ogni volta differenti, un po’ sentimentali, un po’ surreali, un po’ ironiche.
Con i suoi vestitini francesi, con la sua grazia sensuale, con la sua recitazione spontanea da bambina esigente e maliziosa, alla ricerca di un faro e accompagnata dal gentile desiderio di un bagnino, Isabelle Huppert regge un film modesto ma capace di mostrare che se riusciamo a prendere sul serio la vita è anche e specialmente perché i suoi eventi ci appaiono unici e irripetibili. Appena essi si ripresentano, infatti, la loro insignificanza emerge con chiarezza. Come dire: «Tutto qui?»
La patetica miseria della vita è narrata da Hong Sang-soo con una precisa scelta stilistica: un costante uso del campo medio, interrotto periodicamente da alcuni zoom che però non diventano mai dei primi piani. Si crea in questo modo la necessaria distanza che dà senso e interesse alla tragedia, alla farsa, al dramma d’esserci.

Per la conoscenza

Nel paragrafo 39 delle lezioni dedicate al Sofista (Marburgo, semestre invernale 1924-1925), Martin Heidegger offre una delle sue più dense definizioni della filosofia, la quale non ha nulla a che vedere con elevazioni spirituali, con soluzioni di angosce psichiche o con miglioramenti del mondo ma è invece il tentativo di una riflessione scientifica che indaghi «la realtà delle cose». «Philosophie» è dunque -come dirà nei §§ 7 e 83 di Essere e tempo– «universale phänomenologische Ontologie» (ontologia universale e fenomenologica). L’unica passione della filosofia è per la conoscenza. Una passione spinoziana. Anche per questo la filosofia non ha alcun bisogno di essere popolarizzata, edulcorata o giustificata. Essa è. E questo basta.

«La filosofia scientifica occidentale, qualora essa abbia salvato, dopo i Greci, la propria autenticità, si è trovata a subire la decisiva influenza del cristianesimo, e precisamente del cristianesimo inteso come religione culturale, potenza insieme mondana e spirituale. […] Ne risultò che l’idea della ricerca fu completamente offuscata da generiche tendenze spirituali e l’idea della filosofia subì l’egemonia di esigenze culturali ben precise, fino a diventare una creazione che soddisfa in senso eccellente tali esigenze e che può a buon diritto essere chiamata ‘filosofia profetica’: essa ha la capacità di prevedere a intermittenza la situazione culturale media prossima ventura e possiede quindi in certi periodi un ruolo dominante.
[…]
A confronto con l’indagine filosofica classica dei Greci, l’esigenza radicale di indagare la realtà delle cose è scomparsa dalla filosofia. Di questo fenomeno di decadenza della filosofia -altri vi scorgono un progresso- è fondamentalmente responsabile il cristianesimo e ciò non deve sorprendere, dal momento che la filosofia è stata associata con il bisogno di elevazione dell’anima. […] È un segnale del fatto che siamo completamente sradicati, che soffriamo di stanchezza del domandare e che in noi si è ormai estinta l’autentica passione della conoscenza. L’altra faccia di tale stanchezza del domandare e di tale esaurimento della passione per il conoscere è nel contempo la tendenza a pretendere dalla filosofia o addirittura dalla scienza qualcosa come un appiglio, a cercare sostegno in essa per l’esistenza spirituale, oppure a congedarla qualora essa non lo conceda. Questa tendenza a cercare rifugio rappresenta un fraintendimento fondamentale dell’indagine filosofica.
[…]
Chi ha compreso questo dialogo [il Sofista], chi si è fatto carico della profonda cogenza che esso comporta, chi si espone a questo dialogo che, in tutta libertà, senza alcun retroterra sistematico e senza alcuna ispirazione si accosta alle cose stesse non ha bisogno di alcuna celebrazione culturale dell’importanza della filosofia».
(Heidegger, Il «Sofista» di Platone, Adelphi, 2013, § 39, pp. 281-284)

 

Fragilità

Detachment – Distacco
di Tony Kaye
Con: Adrien Brody (Henry Barthes), Sami Gayle (Erica), James Caan (Il professor Seaboldt)
USA, 2011
Trailer del film

Henry Barthes insegna come supplente nelle scuole di Chicago. Gli va bene così, in modo da non doversi legare per troppo tempo a nessuna classe, scuola, luogo. L’istituto che lo assume per un trimestre è uno dei peggiori: studenti completamente demotivati e violenti, genitori o assenti o nemici dei professori, amministrazione che intende chiudere la scuola. Barthes attraversa luoghi e persone con gentilezza e con un distacco dentro il quale ci sono in realtà molta passione e molto dolore. La sua famiglia è composta soltanto dal nonno, ospite di un istituto per anziani. Una delle studentesse più brave e più disprezzate dai compagni si innamora di lui. Fuori dalla scuola incontra una ragazzina che si prostituisce e le offre il proprio alloggio. Sembra che dentro Barthes tutto scorra a partire da un’antica ferita.

Alla scuola pubblica statunitense è dedicato il ritratto che essa merita: luoghi che hanno perduto interamente qualunque funzione educativa, in cui non si impara nulla e che rimangono in piedi soltanto come centri sociali nei quali il compito dei docenti è «di evitare che i ragazzi si accoltellino durante la ricreazione». Il genitore di uno studente tra i più violenti difende in modo iroso e insensato il figlio, adducendo tutte le più improbabili patologie e dichiarando che il principio della scuola è questo: «Nessuno deve rimanere indietro». Il risultato è che rimangono indietro tutti. Pensiamoci quando ci facciamo complici della colonizzazione pedagogica americana. Quello slogan, infatti, risuona di continuo anche nelle scuole italiane.
Ma Detachment non è un film sulla scuola. È un  film sull’esistenza, come l’epigrafe da Camus fa subito capire. È un film sulla solitudine inoltrepassabile di ciascuno, sulle passioni che ci schiantano, sulla fragilità umana moltiplicata da una civiltà che ama presentare se stessa come la più avanzata e felice che la storia abbia mai costruito. E che anche per tale pretesa accresce in realtà la delusione e quindi la tristezza.
Al di là dei suoi temi, l’aspetto più coinvolgente è la matura tecnica cinematografica che fa coincidere contenuti e forma nei colori, nei flashback, nel grandangolo utilizzato in quasi tutte le scene collettive. Come un occhio che guarda gli umani e dilata l’assurdo che li intesse.

Vai alla barra degli strumenti