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Memoria e oblio

Paul Ricoeur
Ricordare, dimenticare, perdonare
L’enigma del passato
(Das Rätsel der Vergangenheit. Erinnern – Vergessen – Verzeihen, Wallstein, Göttingen 1998)
Trad. di Nicoletta Salomon
il Mulino,  2012
Pagine XVII-124

La persona umana è una memoria viva che si muove nello spaziotempo costituito dai ricordi che abitano il suo corpo e dagli eventi che si susseguono nel mondo. Entrambi -ricordi ed eventi- non possiedono la struttura massiccia e uniforme di una strada e del muro che la delimita, non sono uniformi e continui ma somigliano alla complessità delle isole di un arcipelago, che emergono dal mare profondo del tempo.
Il corpomente è costituito dalla molteplicità delle possibili relazioni con questo arcipelago. In primo luogo dalla differenza tra μνήμη e ἀνάμνησις, già fondamentale e assai chiara in Aristotele, per il quale la staticità del μνήμη è inseparabile dal dinamismo dell’ἀνάμνησις, poiché il ricordo è sempre anche rimemorazione ora di ciò che è avvenuto prima. E questo fa del ricordare un’attività del presente rivolta all’azione nell’adesso e nel poi.
L’aristotelico Heidegger ha tenuto ben presente questa distinzione quando ha posto a fondamento di molte analisi di Sein und Zeit la differenza tra il passato come Vergangenheit e il passato come Gewesen-Gewesenheit, la differenza tra ciò che non è più e ciò che è ancora nel suo essente-stato. Quanto Ricoeur  definisce passéité, passeità, non è l’essere-stato che non è più ma è l’essente-stato che è ancora. È, ad esempio, l’oggetto d’amore perduto dal singolo ma ancora presente nel suo essere stato perduto. È l’evento accaduto a una comunità, evento che come struttura eveniente è passato ma che determina ora e ancora l’identità e i drammi del gruppo.

L’oblio strumentale di ciò che è stato compiuto dai singoli e dai popoli -strumentale al non pagarne le conseguenze- ha il suo contraltare nell’«ostinata politica di commemorazione» che produce «abusi della memoria» (p. 81) il cui inevitabile esito è l’insostenibilità del ricordo, sia per chi è accusato sia per chi accusa.
Se ci sono forme di oblio strumentali, passive e interessate, c’è anche e soprattutto una forma d’oblio necessaria alla vita umana, alla sua continuazione lungo i sentieri delle vicende individuali e collettive. Come ben sapeva Nietzsche, l’oblio è infatti necessario alla «conquista della distanza temporale» (68) e quindi alla risignificazione che permette di accogliere quanto è accaduto nelle strutture dell’adesso. Se «i fatti sono incancellabili, se non si può più disfare ciò che è stato fatto, né fare in modo che ciò che è accaduto non lo sia, in compenso, il senso di ciò che è accaduto non è fissato una volta per tutte» (41 e 92 ).
Un vero perdono è difficile poiché non cancella i fatti accaduti, cancellazione impossibile, ma muta il loro significato, accettando che il debito non venga saldato e che il debitore rimanga insolvente senza per questo rimanere per sempre colpevole. Un perdono di questa natura, portata ed effetti è possibile soltanto perché i fatti storici non coincidono con l’oggettività dell’accaduto, non sono strutture date una volta per tutte ma costituiscono una costellazione semantica che presentifica il passato in modo ogni volta diverso in relazione alla differenza che è il futuro.

La riflessione heideggeriana sulla Schuld, sulla colpevolezza intrinseca all’essere, è feconda anche nell’ambito psichico e storico, oltre che metafisico. Comprendere la colpa, accoglierla come struttura  ontologica e non morale, è una condizione di intendimento del limite che accomuna ogni evento e della differenza tra gli eventi che confermano la colpa e altri che invece da essa affrancano.
Gli esistenziali di Sein und Zeit mostrano in questo modo la loro continuità con il platonismo, con l’immemorabile da sempre obliato e la cui ἀνάμνησις rappresenta il lavoro della mente che conosce «ciò che non abbiamo mai veramente appreso, e che tuttavia ci fa essere ciò che siamo: forze di vita, forze creatrici di storia, ‘origine’, Ursprung» (100-101). È questo il fondamento dell’apprendimento platonico, che rende  «possibile imparare ciò che in un certo senso non si è mai smesso di sapere» (101).
Come si vede, bisogna affrancarsi da ogni prospettiva semplicemente etica per cogliere quanto si muove nel fondo dell’umano e del suo tormento.

Elena gnostica

Teatro Greco – Siracusa
Elena
(Ἑλένη)
di Euripide
Traduzione di Walter Lapini
Con: Laura Marinoni (Elena), Sax Nicosia (Menelao), Simonetta Cartia (Teonoe), Giancarlo Judica Cordiglia (Teoclimeno), Viola Marietti (Teucro), Mariagrazia Solano (una vecchia), Maria Grazia Centorami (Primo Messaggero), Linda Gennari (Messaggero di Teoclimeno), Federica Quartana (Corifea)
Regia di Davide Livermore
Sino al 22 giugno 2019

Ho assistito a questo spettacolo insieme a un gruppo di studenti del corso di Filosofia teoretica del 2019. A loro dedico le riflessioni che seguono.

I percorsi del mito e degli dèi sono rizomatici, labirintici, cangianti, imprevedibili. Il politeismo greco è anche libertà rispetto a ogni monoteismo ermeneutico, a ogni unicità del divino, a ogni identità immutabile del dio.
Elena di Euripide rappresenta un’evidente dimostrazione di tutto questo. Si tratta infatti di un personaggio diverso dalla Elena omerica, che è la più nota, con l’universale biasimo che l’accompagna. Eccezione significativa rispetto alla generale condanna verso questa donna fu Gorgia, che su di lei pronuncia invece parole del tutto plausibili di encomio. Contemporaneo di Gorgia, Euripide disegna un’Elena fatta di saggezza e di misura. Ci voleva coraggio nel far questo, visto che «l’azzeramento delle responsabilità di Elena equivale all’azzeramento della tradizione omerica» (Anna Beltrametti, in Euripide, Tragedie, Einaudi 2002, p. 556).
Racconta Euripide che Elena non è mai arrivata a Troia, che mentre i guerrieri a Ilio si scannavano, lei venne portata in Egitto, dove la troviamo sulla tomba di Proteo, a difendere se stessa dal figlio di lui che vorrebbe farla propria. Elena narra che «Era, incollerita per non avere vinto le altre dee, mandò in fumo il connubio ad Alessandro: non diede me, ma un simulacro vivo, che compose di cielo a somiglianza di me, al figliolo del re Priamo: e lui ebbe l’idea d’avermi – vana idea che non m’ebbe» (trad. di F.M. Pontani).
Decisa a uccidersi piuttosto che andare in sposa a Teoclimeno, il caso o gli dèi – sono la stessa cosa – fanno approdare sulle coste egizie il naufrago Menelao, che crede di portare con sé Elena conquistata a Ilio. Non crede quindi ai propri occhi quando vede e riconosce quest’altra Elena. Tra i due, come prima in un dialogo fra Elena e Teucro, gioca la dinamica di realtà e illusione. Gli antichi sposi decidono di ingannare il nuovo re egizio, fargli credere Menelao morto e chiedere di onorare la sua fine in mare. Ottenuta da Teoclimeno la nave, tornano a Sparta, vincitori.
Anche i percorsi della Wirkungsgeschichte, delle interpretazioni della tragedia e dei suoi effetti, sono molteplici. Non esiste, ovviamente, alcuna regia o messa in scena ‘corretta’ delle opere teatrali, tanto meno di quelle greche. Chi difende la ‘tradizione’ difende in realtà le interpretazioni novecentesche o persino del XIX secolo. La domanda da porsi è invece questa: quanto di greco c’è in questa regia? Nel caso della Elena di Davide Livermore c’è molto, per numerose ragioni.
La prima è che abbiamo assistito a una Gesamtkunstwerk, un’opera d’arte totale, fatta di parole ma anche di musica, di danza e di immagini. I primi tre elementi erano costitutivi del teatro greco, l’ultimo li rende vivi attraverso un grande schermo che fa da sfondo alla scena creando di volta in volta immagini degli dèi, degli umani, del mare, delle stelle, del fuoco. La suggestione e l’enigma ne vengono moltiplicati in una sorta di arcaismo elettronico che, insieme ai tanti specchi e all’acqua nella quale la scena è immersa, rende visibile il doppio, la dissoluzione dell’identità nell’aria e nel tempo. Nell’acqua sono immersi la tomba di Proteo, l’obelisco di Teoclimeno, il relitto della nave di Menelao.
Le musiche vanno dal barocco rivisitato al minimalismo, dalla musica leggera al Fandango del Quintetto IV in Re Maggiore G. 448 di Boccherini , che restituisce il ritmo dell’eros, del tradimento, del gioco. Musica che coniuga dissonanza e redenzione, la Dissonanza come immersione nel Nulla della «vana immagine» di Elena, «creata da un dio»; dei guerrieri «morti per una nuvola»; del «dio che è insondabile». L’etica dei Greci sta qui, nella loro ontologia, nella radicalità con la quale esistono e comprendono l’esistere.
L’Elena di Euripide – opera per molti versi sconcertante – è accenno, filigrana e metafora di qualcosa di assai profondo nella storia mediterranea e greca. Qualcosa che era nato con l’orfismo e che si compie nella visione gnostica del mondo. Elena è infatti un simbolo orfico di nascondimento e rinascita, una gemella di Dioniso, un itinerario che gli gnostici presero a modello di gettatezza e riscatto, disvelante le apparenze e volto verso la luce. L’uovo dal quale nacque Elena, dopo che sua madre Leda venne fecondata da Zeus in forma di cigno, divenne un simbolo della Gnosi, un’allegoria dell’esistere redento.
Tra le forme della verità che appare e si dissolve ci sono le strutture che i Greci raccolgono sotto il nome di Afrodite. Di lei, come di Dioniso, Elena è figura. Anche per questo può osare definire la dea πολυκτόνος Κύπρις, vale dire «la Cipride omicida» (v. 239) riconoscendone però sempre la dolcezza, insieme alla potenza. Rivolta ad Afrodite infatti Elena dice: «Avessi la misura! Per il resto, oh non dico di no, tu sei per gli uomini, certo, di tutti i numi la più dolce». Livermore ha reso visibile questa potenza di Elena/Afrodite, la sua bellezza, i modi e le parole.
Più di ogni altra forma, anche la vicenda iniziatica, tragica e inquietante di Elena è espressione di Ἀνάγκη: «λόγος γάρ ἐστιν οὐκ ἐμός, σοφὸν δ᾽ ἔπος, / δεινῆς ἀνάγκης οὐδὲν ἰσχύειν πλέον» ‘Non è sentenza mia, ma dei sapienti: della necessità nulla è più forte’ afferma Menelao (vv. 513-514). Ed è questa necessità ad aver generato Elena, la sua dionisiaca bellezza, la sua storia che si conclude, e in altro modo non potrebbe, con la divinizzazione profetizzata dai suoi fratelli, i Dioscuri: «ὅταν δὲ κάμψῃς καὶ τελευτήσῃς βίον, / θεὸς κεκλήσῃ» ‘Quando poi verrà la svolta e finirà per te la vita, sarai dea’ (vv. 1666-1667). È questo che a Siracusa si è compiuto nel rosso conclusivo che intride la scena, le immagini, le acque, mentre tutti intorno a lei muoiono –  come sempre nel divenire del mondo –  ed Elena rimane invece viva, trasfigurata, gnostica nel pianto e nella luce.

Euripide

Mercoledì 15 maggio 2019 alle 14.30 nell’aula 252 del Dipartimento di Scienze Umanistiche parleremo di Euripide in occasione delle rappresentazioni delle tragedie Elena e Le troiane, in scena al Teatro greco di Siracusa per la 55a Stagione di spettacoli classici dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico (INDA). L’evento è organizzato dall’Associazione Studenti di Filosofia Unict.
Tenteremo un’analisi dell’opera euripidea che faccia emergere la concezione tragica e insieme innocente che i Greci avevano del mondo. In loro abita un’accettazione profonda della nostra natura intrisa di limite, tempo, balbettio, tramonto. Assai più grande è infatti la forza degli dèi rispetto alla fragilità di una condizione finita. Se «la sorte dell’uomo è patire» (Ippolito, trad. di Filippo Maria Pontani), questo è dovuto alla volontà dei Numi, che sono anch’essi materia che desidera.
Nelle Baccanti Dioniso afferma che «io non dovrò mai subire / quello che non è scritto nel mio destino». Il destino di dolore e di morte era scritto nel nome di Penteo, il destino di vittoria, di euforia, di saggezza e di canto era scritto nel nome di Dioniso, «il dio dell’evoè». L’umano è la mescolanza di questi destini.
L’arte di Euripide trova uno dei suoi vertici nella preghiera panteistica che Ecuba, donna e regina al culmine della disperazione, rivolge a Zeus, preghiera nella quale i nomi degli dèi trascolorano nella forza senza fine e senza senso della materia agra: «Sostegno della terra, tu che siedi sopra la terra, chiunque tu sia, Zeus, così arduo a immaginare, oppure legge forzante di natura oppure mente dell’uomo, a te la mia preghiera. Per silenti tramiti muovi ed ogni umana cosa secondo il giusto guidi» (Le troiane).
Parleremo in particolare di Elena, tragedia nella quale si fa evidente come e quanto i percorsi del mito e degli dèi siano rizomatici, labirintici, cangianti, imprevedibili. Il politeismo greco è anche libertà rispetto a ogni monoteismo ermeneutico, a ogni unicità del divino, a ogni identità immutabile del dio. Qui Elena è infatti un personaggio del tutto diverso dalla Elena omerica e dall’universale biasimo che l’accompagna. Elena è un simbolo orfico di nascondimento e rinascita, una gemella di Dioniso, un itinerario che gli gnostici presero a modello di gettatezza e riscatto, disvelante le apparenze e volto verso la luce.

Schmitt, die Zeit in das Spiel

Carl Schmitt
Amleto o Ecuba
L’irrompere del tempo nel gioco del dramma
(Hamlet oder Hecuba. Der Einbruch der Zeit in das Spiel, Eugen Diederichs Verlag, 1956)
Trad. di Simona Forti
Presentazione di Carlo Galli
il Mulino,  2012
Pagine 132

Carl Schmitt chiama Zeit la Historie, la realtà storica che irrompe dentro l’opera artistica, la produce, la trasforma, la segna. Uno dei numerosi elementi soggettivistici e idealistici dell’estetica moderna consiste nella rimozione di questo sostrato e senso storico, a favore della esclusiva fantasia e creatività personale dell’autore. E invece l’ermeneutica schmittiana -assai diversa da quella di Gadamer- intende far parlare il testo scritto, la lingua del suo autore determinata dal mondo da cui quella lingua parla e non soltanto dal modo in cui lo fa.
Hamlet è uno degli esempi più complessi e riusciti di questa irruzione del dramma storico nel dramma estetico. Della regina Gertrude non si arriva a sapere se fosse a conoscenza dell’intenzione di uccidere suo marito da parte del cognato Claudio o se fosse addirittura sua complice. A questa incertezza il figlio Amleto risponde con un singolare atteggiamento di vendicatore dubbioso, il quale -allontanandosi di molto dalla tradizione tragica greca (Oreste) e dalle saghe nordiche (l’Amleto scandinavo)- non uccide la madre né si allea con essa contro Claudio.
Come si spiegano questi due fattori? Quali sono le motivazioni e il significato del tabù della madre e della amletizzazione del vendicatore? La risposta di Schmitt è nella Zeit, nella storia. Il tabù «ha a che fare con la regina di Scozia, Maria Stuarda. Suo marito, Henry Lord Darnley, il padre di Giacomo, fu atrocemente assassinato dal conte di Bothwell nel febbraio 1566. Nel maggio dello stesso anno Maria Stuarda sposava proprio questo conte di Bothwell, l’assassino del marito» (p. 53). Il figlio di Maria, Giacomo, dovette collaborare con la regina Elisabetta -responsabile dell’uccisione di sua madre- per poter diventare a sua volta il successore di lei sul trono d’Inghilterra. E dunque davanti agli occhi di Shakespeare «stava, nella sua esistenza concreta, un re che nel suo destino e nel suo carattere era egli stesso il prodotto della lacerazione della sua epoca» (67-68).

L’argomento si fonda anche sulla circostanza che le opere teatrali rinascimentali -e quelle di Shakespeare in particolare- non vengono concepite per i posteri o per la stampa, bensì per la messa in scena davanti a un ben determinato pubblico presente, il quale era consapevole delle allusioni, dei sottintesi, delle circostanze che intessevano il dramma sulla scena. Erano opere pensate per il pubblico londinese, per la corte inglese, per la Londra dell’età elisabettiana. Ed è per questo che Amleto dice e non dice, allude e sottintende, abita nella sospensione della storia, là dove essa accade ma là dove il suo accadere ha bisogno di una spiegazione che partendo dalla storia conduca oltre la storia.
Schmitt sgombera in questo modo il terreno da ogni soggettivismo sia psicologico/psicoanalitico sia biografico (poiché in ogni caso Amleto non è Giacomo I) e propone una distinzione raffinata e feconda fra Trauerspiel e Tragödie. Il primo è il dramma, il gioco del dramma, il gioco teatrale. Esso può diventare tragedia soltanto se esce dai limiti della fantasia soggettiva e della pura forma estetica per farsi espressione, interrogativo, spiegazione di «una realtà storica tremenda [che] balena dunque attraverso le maschere e i costumi dello spettacolo teatrale; e, su questo punto, nulla possono fare o modificare le interpretazioni filologiche, filosofiche o estetiche, per acute che siano» (56). In generale, uno dei principi dell’estetica storica -non storicistica- di Schmitt è che «né nell’antichità classica né nell’epoca moderna si è inventato l’avvenimento tragico. Accadere tragico e libera inventività sono incompatibili tra di loro e si escludono a vicenda» (90).
Il Trauerspiel di Hamlet si è elevato a tragedia ed è diventato in questo modo uno dei più potenti miti di una modernità che fa di tutto per cancellare i miti attraverso un razionalismo il quale non può che generare altri miti, spesso volgari.

Schmitt dialoga non soltanto con l’ermeneutica gadameriana ma -come in tutti i suoi scritti- con una serie assai ricca di prospettive, autori, opere. Benjamin, ad esempio, il cui Dramma barocco tedesco (1928) è uno dei tre libri esplicitamente indicati come fonte dell’opera. O con Nietzsche, verso il quale esprime perplessità non soltanto e non tanto perché la tragedia non nascerebbe ‘dallo spirito della musica’ bensì da quello della storia, quanto perché il giurista tedesco appare molto legato a un’idea tradizionale, oggettiva e prenietzscheana di verità: «Possiamo piangere per Ecuba, possiamo piangere per molte cose, molte cose suscitano la nostra tristezza, ma il tragico ha origine in primo luogo da un dato di fatto, da una realtà che è data come ineluttabilmente presente ed effettuale a tutti i partecipanti, sia al poeta, sia all’attore, sia agli ascoltatori. Un destino inventato non è un destino; l’invenzione più geniale, in questo caso, non serve a nulla» (86).
Piangere per Ecuba. Sta qui la spiegazione del bel titolo di questo libro: Hamlet oder Hecuba, perché Amleto -mettendo in scena il dramma che dovrà rivelare l’assassino del padre- si chiede come possa accadere che un attore pianga per Ecuba di Troia, per qualcuno quindi al quale niente lo lega, in nessun modo. E tuttavia è capace di pianto. Da qui la riflessione, e il libro stesso, di Schmitt: «Non è pensabile che Shakespeare, in Amleto, avesse come unica intenzione di fare del suo Amleto un’Ecuba, di farci piangere su Amleto come l’attore piange sulla regina di Troia. Ma noi finiremo davvero col piangere allo stesso modo per Amleto come per Ecuba se volessimo separare la realtà della nostra esistenza presente dalla rappresentazione teatrale. Le nostre lacrime sarebbero in tal caso lacrime di attori. Non avremmo più nessuna causa e nessuna missione, e le avremmo sacrificate per godere del nostro interesse estetico al gioco del dramma. Ciò sarebbe grave, poiché dimostrerebbe che a teatro abbiamo altri dèi che al fòro o sul pulpito» (83-84).

La centralità del Politico, dell’elemento pubblico, della storia, è in Schmitt talmente pervasiva da non poter pensare che qualcosa di essenziale possa sfuggire al suo dominio. È un aristotelico, come il suo contemporaneo Heidegger. Per entrambi l’umano è anzitutto Mitsein e ζῷον πολιτικόν. Ma da Aristotele entrambi appresero anche che l’essenziale va sempre al di là dell’umano e quindi  al di là della storia:
φανερὸν δὲ ἐκ τῶν εἰρημένων καὶ ὅτι οὐ τὸ τὰ γενόμενα λέγειν, τοῦτοποιητοῦ ἔργον ἐστίν, ἀλλ᾽ οἷα ἂν γένοιτο καὶ τὰ δυνατὰ κατὰ τὸ εἰκὸς ἢ τὸἀναγκαῖον. […] διὸ καὶ φιλοσοφώτερον καὶσπουδαιότερον ποίησις ἱστορίας ἐστίν: ἡ μὲν γὰρ ποίησις μᾶλλον τὰκαθόλου, ἡ δ᾽ ἱστορία τὰ καθ᾽ ἕκαστον λέγει. ἔστιν δὲ καθόλου μέν, τῷ ποίῳ τὰ ποῖα ἄττα συμβαίνει λέγειν ἢ πράττεινκατὰ τὸ εἰκὸς ἢ τὸ ἀναγκαῖον, οὗ στοχάζεται ἡ ποίησις ὀνόματαἐπιτιθεμένη.
«È chiaro anche questo: compito del poeta è dire non ciò che è accaduto ma quello che potrebbe accadere  in base al verosimile e al necessario. […] E per questo la poesia è più filosofica e più nobile della storia, perché la poesia tratta dell’universale, mentre la storia del particolare. L’universale è questo: che cosa a quale genere di persona capiti di dire o di fare in base al verosimile e al necessario; a questo è rivolta la poesia anche quando utilizza nomi propri» (Aristotele, Poetica, 1451 a-b), compresi i nomi di Amleto e di Ecuba.

Interpretans

Giovedì 7.6.2018 alle 15,15 terrò una relazione nell’ambito della «Giornata dei Dottorati Italiani di Scienze del Testo e dell’Interpretazione». L’evento ha per argomento Leggere, tradurre, pensare e si svolgerà il 7 e l’8 giugno nell’Auditorium del Dipartimento di Scienze Umanistiche di Unict.
Il titolo della mia relazione è Animal Interpretans.

Il cuore dell’ermeneutica è costituito dal gioco tra il dato e il significato. Pervasività, varietà e universalità del segno sono state da sempre oggetto del discorso filosofico. Il segno significa in un tessuto di relazioni e regole combinatorie inserite in un mondo più ampio di azioni ed eventi.
Heidegger e Gadamer hanno trasformato l’ermeneutica da metodica delle scienze dello spirito a ontologia. Un’ontologia che affonda nella temporalità; nell’insieme di rimandi fra il passato della tradizione e il presente della comprensione; nella Wirkungsgeschichte, la «storia degli effetti» che l’opera ha generato e nella quale consiste il suo significato più pieno; nella Horizontverschmelzung, la «fusione di orizzonti» che accade sia fra gli interlocutori del dialogo sia tra loro e il testo che proviene dal passato e parla nell’adesso.
L’essere degli umani è sempre storico, temporale, linguistico. Il che equivale a dire che l’essere degli umani è costitutivamente ermeneutico.

Dea del Tempo

Ho messo a disposizione su Dropbox il file audio (ascoltabile e scaricabile sui propri dispositivi) della terza lezione dedicata a Proust, da me svolta al Disum di Catania il 20 aprile 2018.
Aggiungo qui le diapositive che ho utilizzato in questa occasione. Scorrendo le immagini/testo e ascoltando l’audio, spero si possa cogliere la potenza della scrittura di Marcel Proust, della sua arte, della dimensione cosmogonica e sacra delle parole che raccontano l’illusione suprema che sempre ci spinge verso l’Altro. L’oggetto amato è figura del Dio, in lui cerchiamo la Grazia, in lui ci sentiamo redenti. Abbiamo bisogno di tanto in tanto di trarre dalla specie una persona che diventa lo splendore che ci salva, che ci regala la gioia.
La Recherche è la notte dell’esistenza in un libro figlio del silenzio. È l’Adoration perpétuelle. È la Gloria.

«Del resto, le amanti che più ho amate non hanno mai coinciso con il mio amore per loro […] Quando le vedevo, quando le udivo, non trovavo nulla in loro che somigliasse al mio amore e potesse spiegarlo. Eppure, la mia sola gioia era di vederle, la mia sola ansia di aspettarle […] Sono incline a credere che in questi amori (lascio in disparte il piacere fisico che d’altronde s’unisce abitualmente a essi ma non basta a costituirli), sotto l’apparenza della donna, ci rivolgiamo in realtà alle forze invisibili accessoriamente unite a lei, come a oscure divinità. È la loro benevolenza a esserci necessaria, è il loro contatto quello che cerchiamo, senza trovarvi nessun piacere vero».
Marcel Proust, Sodoma e Gomorra, Einaudi 1978, pp. 560-561

«Di per sé lei è meno di niente, ma nel suo essere niente c’è, attiva, misteriosa e invisibile, una corrente che lo costringe a inginocchiarsi e ad adorare una oscura e implacabile Dea, e a fare sacrificio davanti a lei. E la Dea che esige questo sacrificio e questa umiliazione, la cui unica condizione di patrocinio è la corruttibilità, e nella cui fede e adorazione è nata tutta l’umanità, è la Dea del Tempo. Nessun oggetto che si estenda in questa dimensione temporale tollera di essere posseduto, intendendo per possesso il possesso totale che può essere raggiunto con la completa identificazione di soggetto e oggetto. […] Tutto ciò che è attivo, tutto ciò che è immerso nel tempo e nello spazio, è dotato di quella che potrebbe essere definita un’astratta, ideale e assoluta impermeabilità».
Samuel Beckett, Proust, SE 2004, pp. 41-42.

Seconda lezione su Proust (6.4.2018)

L’Altro

Recensione a:
Storia naturale dell’amore
di Domenica Bruni
(Carocci 2010, pp. 143)
in Rivista Internazionale di Filosofia e Psicologia
Vol. IX, numero 1, primavera 2018
Pagine 107-108

Innamoramento e amore sono due strutture naturali e culturali, innate e apprese, universali e differenziate. Ovunque e sempre l’amore è anche un conflitto tra i sessi. Ovunque e sempre, «l’amore sembra avere qualcosa in comune con il mistero più profondo, ossia con la fine dell’esistenza» (p. 93). Non soltanto, infatti, l’abbandono è un’anticipazione e una metafora della morte ma la struttura stessa del sentimento amoroso ha a che fare con il nulla, con l’«inesistenza dell’oggetto d’amore, il quale altro non è che una proiezione dei nostri desideri» (p. 93). L’universalità dell’amore è dunque la stessa universalità del morire. Le caratteristiche somatiche e mentali riassunte con chiarezza da Domenica Bruni descrivono efficacemente la relazione tra la passione amorosa, la fine per l’individuo di un’epoca e la rinascita in un mondo nuovo.
Per l’Altro si è disposti a cambiare abitudini e persino valori. Tutto questo crea una dipendenza emotiva foriera di ansia, di speranza e di disperazione. Tali caratteristiche non nascondono tuttavia, anzi confermano, che l’Altro è un oggetto ermeneutico verso cui si esercita una costante e minuziosa «ricerca di indizi», ricerca nella quale si esprime una «ipersensibilità verso i segnali che invia la persona amata per avere una conferma della reciprocità del sentimento» (p. 97).

 

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