Skip to content


Transizioni

Transizioni
Aldous, 27 gennaio 2024
Pagine 1-2

A partire dal caso della città dove abito, Milano, ho cercato in questo articolo di analizzare il significato, le contraddizioni e la forte spinta transumanista di alcune recenti tendenze alla “transizione”: transizione digitale, transizione ecologica, transizione di genere.
Tali transizioni sono fondate su un moralismo estremo che intende sostituire (per usare le categorie platoniche) il Vero con il Buono, dove che cosa sia Buono è naturalmente stabilito da chi ha il potere e le risorse economiche per convincere le masse degli spettatori.
Tutto questo è espressione di una posizione storico-politica ancora più ampia: l’occidentalismo. Esso consiste nella certezza che i valori dell’Occidente anglosassone (e non dell’Europa) siano valori universali, indiscutibili e santi. Un occidentalismo molto aggressivo, manicheo e sostanzialmente suicida visto che l’Occidente rappresenta una minoranza sul pianeta, sia dal punto di vista economico sia da quello demografico e in relazione alle risorse naturali.
Il rischio per un’Europa asservita all’ideologia occidentalista è di cadere nella spirale di una transizione verso la propria fine.

[L’articolo è uscito anche su Sinistrainrete]

Innamoramento

Il mio profilo migliore
(Celle que vous croyez)
di Sayf  Nebbou
Francia, 2019
Con: Juliette Binoche (Claire Millaud), Nicole Garcia (Catherine Bormans), François Civil (Alex Chelly)
Trailer del film

Il titolo originale di questo film suona un poco pirandelliano, quasi un Come tu mi vuoi, la decisione e il bisogno di apparire all’altro come vorremmo che l’altro ci vedesse, nel nostro profilo migliore. Il titolo italiano in questo caso restituisce parte del significato dell’opera, dato che il profilo al quale fa riferimento è quello dei Social Network. Claire Millaud è infatti una bella docente universitaria cinquantenne, lasciata dal marito, con due figli adolescenti, con un amante che non la ascolta mai ed è interessato soltanto al sesso. Questo amante ha un giovane collaboratore, Alex, un fotografo del quale Claire vede il profilo su facebook e quasi per gioco e per contattarlo si inventa l’identità fasulla di una bella ventiquattrenne. Messaggio dopo messaggio, parole dopo parole, e poi telefonata dopo telefonata, Claire e Alex iniziano una relazione virtuale che nella prima parte del film viene raccontata dalla donna alla propria analista e nella seconda parte si dipana in vari ‘colpi di scena’ e in finali su finali nei quali il confine tra reale e virtuale si assottiglia sempre più. Anche la scena di chiusura sembra preludere a sviluppi forse ovvi, forse patologici, forse inquietanti.

Due mi sembrano i temi centrali di Celle que vous croyez.
Il primo è la potenza, le modalità, le opportunità e i rischi della comunicazione tramite cellulare telefonico, dello scambio vissuto solo virtualmente, ‘da remoto’. Gli umani non riescono a inventare nessun dispositivo che non risulti intrinsecamente ambiguo, per la semplice ragione che ambigui sono loro stessi: πολλὰ τὰ δεινὰ κοὐδὲν ἀνθρώπου δεινότερον πέλει, afferma il verso 332 dell’Antigone di Sofocle: “molti enti ed eventi ammirevoli e terribili ci sono al mondo ma nulla appare più ammirevole e terribile dell’umano”. E tale terribilità fa riferimento in Sofocle proprio alla natura tecnica dell’animale umano. Lo stasimo sofocleo si conclude con l’affermazione che un simile commensale non sarebbe il benvenuto a tavola.
Le possibilità, offerte dalle tecnologie digitali, di intrecciare relazioni e comunicazioni in ogni istante e con chiunque, si mescolano dunque alla possibilità che tali relazioni e comunicazioni siano fasulle, diventino patologiche, costituiscano un rischio anche assai grave. E questo conferma che l’enfasi sul «remoto», della quale il corpo sociale è stato vittima e carnefice in occasione dell’epidemia Covid19, è un’altra forma di distruzione dei legami umani più sani.
Il secondo elemento del film, ovviamente legato al primo, è la solitudine, è l’innamorarsi, sono le passioni umane. E su questo mi limito a rinviare ad alcuni brevi testi che ho dedicato all’argomento: 
Frammenti di un discorso amoroso (2009); Innamoramento ed evoluzione (2012 ); Amore / Vendetta (2016);  Lezione sull’amore (2017); Roth (2018); L’Altro (2018); Nella spuma potente del cosmo (2019;); Gender (2021).

Nel primo di tali testi scrivevo che l’Altro è una figura del desiderio, del nostro e di quello diffuso nel corpo collettivo, nella filogenesi della specie. L’amato è per l’innamorato l’imprendibile che rimane desiderio – e dunque è la pienezza dell’assenza. Pur sapendo che non raggiungerò mai l’amorosa quiete delle tue braccia, in cui spasimi e drammi saranno appagati e redenti, io continuo a spogliarmi di ogni cosa, continuo a barattare la mia forza con l’istante del tuo sguardo, a rinunciare al mio sorriso per il tuo. Teso verso l’impossibile, il mio discorso è un soliloquio.
L’Altro, infatti, non esiste. Il linguaggio avvolge l’umano sin dal suo apparire, è l’umano nella concretezza del suo agire, esistere, comprendere, comunicare, pensare. L’innamorarsi è una delle pratiche linguistiche che della parola sanno esprimere l’intera potenza nel racconto che la mente narra a se stessa.
Che l’Altro sia una figura linguistica è esattamente ciò che il film mostra.

Lavoro / schiavitù

After Work
di Erik Gandini
Svezia, 2023
Trailer del film

Quasi clandestini sono in Italia i film di Erik Gandini. Pochi hanno visto Videocracy. Basta apparire (2009), dedicato all’immonda finzione berlusconiana, al suo fondamento antropologico, ai suoi effetti devastanti. La RAI rifiutò di mandarlo in onda con tre motivazioni censorie.
Anche After Work si colloca nel nucleo attivo della contemporaneità, con una indagine sulla realtà del lavoro ma soprattutto sulla sua idea, sulla concezione che le persone se ne fanno, su come lo vivono. Il cuore dell’indagine sono naturalmente gli Stati Uniti d’America, la loro origine dal Calvinismo (i puritani, i Padri Pellegrini) il quale ha inventato un’«etica del lavoro» che produce ritmi tali da indurre un corriere di Amazon a consegnare ogni giorno 300 pacchi, a mangiare mentre guida e a urinare in una bottiglia «per non perdere tempo». Etica che si è ampliata ai luoghi dell’impero americano, primo dei quali la Corea del Sud, il cui governo ha persino lanciato delle campagne volte a convincere i cittadini a lavorare di meno – tale è diventata l’ossessione produttivistica – e nelle cui aziende i computer si disattivano alle 18.00 per impedire agli impiegati di rimanere ancora a lavorare.
A questo mondo di ‘macchine umane per produrre’ si contrappone quello di società nelle quali molta parte delle persone nel pieno della loro energia (i «giovani») appartiene alla categoria che i sociologi definiscono NEET: Not [engaged] in Education, Employment or Training, vale a dire che non fanno nulla, proprio nulla, in gran parte per scelta volontaria. Nel 2021 in Italia NEET sarebbero state il 26% delle persone tra i 15 e i 29 anni. Persone che possono (soprav)vivere soltanto perché finanziate dalla famiglia.
Struttura peculiare è quella di un Paese come il Kuwait, la cui (enorme) ricchezza rispetto al numero dei cittadini induce il governo a dare loro impieghi del tutto fittizi; questi ‘lavoratori’ si recano negli uffici tutti i giorni ma non hanno alcun incarico, giocano con i cellulari, guardano film, nei casi migliori leggono.
Dell’ambito del non lavoro fa parte poi una piccolissima cerchia di persone molto ricche, che vivono di grandi rendite – una delle intervistate è presentata con la formula «ereditiera» – e che cercano di inventarsi ogni giorno qualcosa da fare: interessi, hobby, pratiche.
E infine il futuro che è già presente: grandi fabbriche dove non c’è più un operaio e a lavorare non sono gli umani ma dei robot guidati da algoritmi assai perfezionati: hardware e software che vanno sempre più celermente sostituendo lavoratori umani, persone vive.
Il film di Gandini descrive con efficacia queste realtà. I brevi interventi di un filosofo anarchico come Chomsky, di un imprenditore visionario come Musk, dell’ex ministro greco delle finanze Varoufakīs,  di un transumanista come Harari, sembrano piuttosto esornative, non aggiungono molto alla sostanza del documento.
Quale sostanza? Come si può analizzare ciò che questo film descrive?
Il punto di partenza è, come sempre, la nostra natura animale. Come tutti gli altri mammiferi, Homo sapiens ha bisogno di mangiare, di coprirsi, di avere un rifugio. Per questo tutti gli animali ‘lavorano’, vale a dire cercano il cibo e il benessere quotidiano. Dopo aver raggiunto l’obiettivo, gli altri animali non fanno più niente, in attesa di avere di nuovo fame. Ma non solo gli altri animali. Gli studi di Marshall Sahlins e di Pierre Clastres sulle «società selvagge» mostrano come il modo di produzione domestico (Mpd) «assicuri in realtà una completa soddisfazione dei bisogni materiali della società, a fronte di un tempo limitato dedicato alle attività di produzione e della bassa intensità con cui sono espletate. […] Le società primitive, sia di cacciatori nomadi sia di agricoltori stanziali, sono in realtà, considerando il poco tempo destinato alla produzione, vere e proprie società del tempo libero” e “società dell’abbondanza”» (Clastres, L’anarchia selvaggia. Le società senza stato, senza fede, senza legge, senza re, Elèuthera 2013, pp. 46 e 97).
Lo sguardo va dunque radicalmente mutato: le società ‘primitive’ sia nel tempo sia nello spazio sono di fatto più ricche di quelle successive. Ricche anche di tempo da dedicare ad attività non direttamente legate alla produzione. Nelle società protestanti-capitalistiche (da questo punto di vista i due aggettivi indicano lo stesso fenomeno), vale a dire in tutto l’Occidente contemporaneo – comprese molte società asiatiche – ‘non lavorare’ instilla un profondo senso di colpa o una evidente riprovazione sociale.
Nel mondo non cristiano, e segnatamente tra i Greci e i Romani, una delle caratteristiche dell’uomo libero è invece esattamente il non lavorare, il non averne bisogno. E potersi così dedicare ad altre attività, tra le quali rientrano anche e specialmente l’attività politica e quella creativa, la vita intellettuale, ciò che noi definiamo oggi «cultura». Diversamente dalle società selvagge, nel mondo antico tutto questo era possibile perché altri producevano. E sta qui il fondamento della proposta platonica della Repubblica che distingue i produttori, i soldati e i governanti/filosofi. Essere liberi dalle esigenze immediatamente produttive è condizione necessaria per ritenersi ed essere liberi. Il resto è schiavitù.
Alla fine di After Work viene chiesto ad alcuni dei lavoratori di rispondere a un’ultima domanda: che cosa farebbero se si offrisse loro uno stipendio senza che debbano fare più nulla? È un interrogativo ovviamente legato alla automazione che si estende ed estenderà sempre più, rendendo inutile la presenza umana rispetto a macchine ed algoritmi capaci di lavorare senza posa 24 su 24, sempre. Gli sguardi e le non-risposte degli intervistati dicono che da molti secoli ormai la più parte delle società umane sono composte da persone che fuori dal lavoro «produttivo di qualcosa» non sanno concepirsi; persone per le quali vivere è immergersi nell’etica del lavoro; persone che – nella prospettiva delle società mediterranee sino alla caduta dell’Impero Romano – sono semplicemente degli «schiavi».
Una schiavitù che conferma l’ipotesi di Pascal per la quale gli umani hanno bisogno di impiegare il loro tempo in qualche attività, anche perché questo li aiuta a non pensare alla loro miserabile condizione.
La grandezza di una vita dedicata allo studio, ai libri, al sapere consiste invece nell’impiegare il tempo avendo sempre davanti la condizione assai triste dell’umano e tuttavia essendo capaci di gioia, la gioia della conoscenza.

Sul virtuale

Presenza e realtà
Sul virtuale

in Dialoghi Mediterranei
n. 62, luglio-agosto 2023
pagine 27-33


Indice

-Una premessa metafisica 
-La presenza
-Realtà e documanità
-Una «biopolitica progressista»
-Simulacri 

Dopo una breve premessa a sostegno del realismo metafisico – vale a dire che il mondo esista indipendentemente da qualunque entità che lo percepisca – ho cercato di descrivere le diverse prospettive sul virtuale proposte da due recenti libri di filosofi italiani: Contro Metaverso. Salvare la presenza (Mimesis, 2022) di Eugenio Mazzarella e Documanità. Filosofia del mondo nuovo (Laterza, 2021) di Maurizio Ferraris. Ho concluso con un accenno al concetto di «simulacro» proposto da Jean Baudrillard, il quale difende la presenza rispetto alla società dello spettacolo diventata l’«estasi della comunicazione», che si è trasformata a sua volta nella pervasiva potenza di un virtuale il cui esito ultimo è la rimozione della presenza, la dissipatio della realtà.

Le riviste

Il respiro delle riviste
in Dialoghi Mediterranei
n. 61, maggio-giugno 2023
pagine 156-161


Indice

-L’utilità e il danno del digitale per le riviste
-Riviste universitarie, il caso del CORIFI
-La valutazione (anche) delle riviste
-La valutazione come dispositivo politico
-Conclusione: il respiro del labirinto 

Il numero 61 di Dialoghi Mediterranei ha dedicato una sezione alle riviste scientifiche e di cultura, alla funzione che esse svolgono nel presente, ai rischi che scompaiano, alla possibilità che invece rafforzino il loro statuto di indispensabile luogo di dialogo, scienza e libertà.
Ho partecipato molto volentieri a questa discussione, con un testo nel quale ho cercato di indicare, appunto, «l’utilità e il danno del digitale per le riviste»; di accennare alla loro vicenda dal Settecento a oggi; di approfondire il caso delle riviste di area filosofica in Italia; di discutere della funzione che le riviste e la loro classificazione – scientifiche/non scientifiche; normali/di classe A – svolgono nell’attribuzione dell’Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN), vale a dire del requisito da alcuni anni indispensabile per accedere ai concorsi per diventare professore universitario.
Ho concluso citando un grande bibliotecario, Jorge Luis Borges, e ribadendo la convinzione che qualunque cosa accada, qualunque sia l’evoluzione, il destino, la metamorfosi dei libri e delle riviste nelle quali da secoli trova spazio, si esprime e si condensa la conoscenza che tentiamo del mondo e di noi stessi, in ogni caso la parola scritta, la parola pensata, rimane il respiro dell’umano, la sua condizione di vita, la sua nobiltà. 

Gnosi / Nietzsche / Metaverso / Poesia

Da martedì 18 a giovedì 20 aprile 2023 il filosofo e poeta Eugenio Mazzarella parteciperà ad alcuni eventi che si svolgono a Catania, a due dei quali collaborerò anch’io.
Li riassumo sinteticamente qui:

-martedì 18 aprile, ore 16.00, Dipartimento di Scienze Umanistiche, Sala Rotonda del Coro di Notte, presentazione del volume di Lucrezia Fava Heidegger e la Gnosi (Mimesis 2022);
-mercoledì 19 aprile, ore 10.00, Dipartimento di Scienze Umanistiche, aula 252 (e non aula A4 come indicato nella locandina) lezione per gli studenti di Filosofia teoretica (e per chiunque fosse interessato) su Nietzsche / Metaverso;
-mercoledì 19 aprile, ore 18.00, libreria Feltrinelli, dialogo con Giuseppe Frazzetto e Lucrezia Fava su Contro Metaverso. Salvare la presenza (Mimesis, 2022);
-giovedì 20 aprile, ore 10.30, Dipartimento di Scienze Umanistiche, aula 31, dialogo sulla più recente raccolta poetica di Mazzarella, Cerimoniale (Crocetti editore 2023)

I primi due eventi sono organizzati dall’ASFU (Associazione Studenti di Filosofia Unict) e dal progetto di ricerca di Ateneo EuRoad (Europa Tràdita).

 

 

 

Servitù digitale

Sul Metaverso
Aldous, 23 marzo 2023

Aldous ha pubblicato una versione più ampia della riflessione che sul Manifesto ho dedicato al libro di Eugenio Mazzarella Contro Metaverso. Salvare la presenza (Mimesis 2022, pp. 142).
L’integrazione riguarda in particolare le affermazioni che riporto qui sotto.
Se si guardano le modalità concrete nelle quali sinora si è tradotto questo progetto, emerge appunto la sua somiglianza con forme di dominio assai tradizionali, un «uso oligarchico e lucrativo della rete da parte di uomini su altri uomini» che si manifesta, tra l’altro, in «concretissimi processi di alienazione sociale, esistenziali e finanche percettivi […]. Non ci si rende conto che il web è la nuova gleba a cui siamo asserviti, paradossalmente ancora più stanziale della vecchia gleba, perché è racchiusa nel fazzoletto di terra di uno schermo che ci viene fornito a ‘casa’, senza neppure necessità che si esca ‘in campagna’».
Lungi dall’essere smart, intelligente e agile, il telelavoro è una «truffa che rischia di aggiornare online il cottimo della manifattura domiciliare senza fabbrica». E dunque la decantata da troppi (Luciano Floridi, ad esempio) ’quarta rivoluzione’ dell’infosfera si rivela un ulteriore «passaggio epocale nella storia dell’alienazione intrinseca all’umano nel rapporto con i suoi mezzi». Un’alienazione proprio nel senso marxiano, una rinuncia all’autonomia e all’emancipazione per sottomettersi invece senza neppure averne coscienza a una «oligarchia dei padroni pubblici e privati del web nel Deep State  del potere dell’infosfera».

Vai alla barra degli strumenti