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Animali cibernetici

Lunedì 24 ottobre 2022 dalle 9,30 alle 11,30 terrò una conferenza all’Università Cattolica di Milano (Aula G.016), dal titolo Umanità, animalità, artificio. A invitarmi è stata la Prof.ssa Roberta Corvi, ordinario di Filosofia teoretica nell’Ateneo milanese.

L’umanità è un dispositivo biologico, poietico, ibridato e quindi insieme naturale e culturale. L’animalità è l’universale biologico e ontologico che comprende ogni vivente, umano compreso. L’artificio è il modo nel quale alcuni animali si rapportano al loro mondo/ambiente.
Anche perché costituito dalla convergenza di tecnica e biologia, l’umano è apertura alla Differenza. L’Altro è il conspecifico, l’Altro è l’animale, l’Altro è la macchina, l’Altro è il dio. L’umano è una molteplicità nella quale il dominio del soggetto antropocentrato è un’illusione rispetto al rizoma della persona incarnata nel mondo e ibridata con esso. Antroposfera, zoosfera, tecnosfera e teosfera costituiscono le dimensioni nelle quali nasce, gorgoglia e splende l’esserci.

 

Postumanismo antropodecentrico

Oltre l’etica: un approccio antropodecentrico all’intelligenza artificiale
con SELENIA ANASTASI
in Rivista Internazionale di Filosofia e Psicologia
Anno 11 – Numero 2/2020
Pagine 251-258

Sono contento di aver scritto questo saggio sull’Intelligenza Artificiale insieme alla mia allieva e amica Selenia Anastasi, la cui competenza sui temi dell’IA e del postumano è ampia e profonda.
Come afferma il titolo, abbiamo cercato di presentare e proporre una prospettiva sull’Intelligenza Artificiale che eviti tecnofilie e tecnofobie, che si liberi dai limiti antropocentrici dell’etica e dalle troppo ripetute banalità sociologiche. Abbiamo insomma cercato di pensare una delle dinamiche fondamentali del nostro tempo, di avere quindi «un approccio teoretico».
Il testo è articolato nei seguenti paragrafi:
-Il progetto
-La superintelligenza
-Il problema del controllo
-Sull’approccio etico all’intelligenza artificiale
-Per un approccio teoretico

Abstract
Sviluppandosi sul piano della “prevenzione del rischio”, dei “livelli di controllo” in fase di programmazione e del possibile inserimento dei cosiddetti “algoritmi etici”, il dibattito sul presente e il futuro dell’Intelligenza Artificiale, ha favorito nel corso degli anni la creazione di una sempre più profonda spaccatura tra discipline “tecniche” e saperi “umanistici”, tra il dominio del “fare” e il dominio del “pensare”. Prendendo atto di questa sterile distanza, occorre mettere in questione i metodi dell’etica e interrogarsi sull’efficacia e l’utilità della teoria e, più in generale, meglio definire la relazione che la filosofia oggi intrattiene – e potrà ancora intrattenere – con le macchine progettate per pensare e con i loro progettisti.

Beyond ethics: An anthropodecentric approach to artificial intelligence
The ethical and philosophical debate around the present and future of Artificial Intelligence has grown in intensity over the years. Continual development within AI in terms of “prevention of risks”, “levels of control in programming”, and the inclusion of so-called “ethical algorithms”, has encouraged an ever deeper split between “technicians” and “humanists”, between the domains of “making” and “thinking”. Focusing on this unproductive distance, we interrogate ethical approaches methods and the effectiveness and utility of ethical theories. More generally, we attempt to better define the relationship that philosophy has today – and will be able to maintain in the future tomorrow – with machines designed to think and with their designers.

Transumanesimo

Prefazione a:
Verificare di essere umani. Per una teoresi del Transumanesimo
di Selenia Anastasi
Lekton Edizioni, Acireale 2019
Pagine 210

Del Transumanesimo Selenia Anastasi coglie la complessità teoretica che analisi soltanto giornalistiche o sociologiche non sono in grado di comprendere. Anche per questo il suo libro è nello stesso tempo una limpida introduzione all’argomento e una analisi del tema da una prospettiva capace di evitare le più diffuse formule per individuare invece la ricchezza, i rischi, le possibilità che abitano nel plesso umano-postumano-transumano.
È quanto ho cercato di indicare nella Prefazione al volume, che sarà presentato venerdì 20.9.2019 alle 19,00 nel cortile della CGIL di Catania in via Crociferi 40, nell’ambito di EtnaBook – Festival Internazionale del libro.

Terminator Salvation

di McG (Joseph McGinty Nichol)
USA 2009
Con Christian Bale (John Connor), Sam Worthington (Marcus Wright), Moon Bloodgood (Blair Williams), Anton Yelchin (Kyle Reese)
Trailer del film

terminatorsalvation

Nel 2003 un detenuto condannato a morte autorizza l’uso del proprio corpo “per la scienza”. Nel 2018 lo stesso corpo ricompare, trasformato in un ibrido uomo-macchina, con lo scopo di aiutare la Rete Skynet a debellare le ultime resistenze umane al dominio delle macchine. E tuttavia Marcus Wright ricorda più il proprio cuore umano che il chip cerebrale di cui è stato dotato. Forse questo ricordo aiuterà l’eroe John Connor a trovare colui che sarà il proprio padre -Kyle Reese- e che adesso è soltanto un ragazzo…

Cortocircuiti temporali e guerra tra umani e androidi sono i due elementi che caratterizzano sin dall’inizio la saga di Terminator. Qui per la prima volta si parte dal futuro postatomico, con scene e immagini a volte di notevole suggestione. Tuttavia, gli spunti di riflessione sul rapporto uomo-macchina sono quasi sempre sacrificati alla consueta spettacolarità. Nata negli anni Ottanta, quando i computer erano soprattutto hardware, la serie non si è ancora liberata da una visione della cibernetica fatta di gigantesche ruspe, primordiali e rozze (certo più attraenti di un impalpabile software). L’elemento più interessante del film è proprio l’individuazione della corporeità protoplasmatica -la carne del corpo e non l’anima formale- come dimensione veramente e profondamente umana. Il cuore, alla fine e alla lettera, avrà il sopravvento. Nel complesso, il film è un videogioco un po’ più raffinato.

[Consiglio di leggere la recensione molto più articolata di Mario Gazzola]

Il senso e la narrazione

Giuseppe O. Longo
Springer-Verlag Italia, 2008
Pagine XVIII-214

Condensare molto di ciò che si è imparato e che si è vissuto. E farlo non soltanto esponendo dei contenuti ma anche e soprattutto trasformando la propria scrittura in una dimostrazione di ciò che si sostiene, della tesi per la quale «sopprimere la narrazione non è possibile», poiché «gli umani sono creature della comunicazione» (pp. 164 e 1). L’impresa teoretica e letteraria di coniugare in modo rigoroso e appassionato il dire e i suoi modi è a Longo perfettamente riuscita.  In questo libro si intersecano, infatti, «matematica e poesia (…) estremi opposti della possibilità linguistiche» (p. 45), si uniscono competenze scientifiche di prim’ordine con una critica dura ma sempre argomentata alle pretese del linguaggio scientifico di esaurire l’ambito del dicibile, si trae il meglio dal monoteismo logico e matematizzante del metodo occamista e galileiano ma si punta decisamente al politeismo dei segni, a quell’impero di varianti, di molteplicità, di disseminazioni che è il reale. Un regno che noi stessi -dispositivi semantici- costruiamo respirando, vivendo, immergendo i corpi che siamo nel mare del senso, che è anche il luogo nel quale il presente scaturisce dai ricordi passati e dalle intenzioni future.
La nostra mente non si limita a registrare eventi, a incamerare dati, a collezionare percezioni ma partecipa attivamente alla costruzione del mondo. La dicotomia tra il soggetto e la realtà è uno degli ostacoli più persistenti e più gravi che si oppongono alla comprensione di quel sistema complesso di segni e processi dentro il quale esistiamo. Il limite forse più consistente delle scienze -quello dal quale scaturiscono anche gli altri- sembra abitare proprio qui: nell’approccio paradossalmente acritico con il quale esse pensano il vero. In realtà, anche le scienze sono forme dell’interpretazione. Il luogo da cui esse germinano è il soggetto nelle sue relazioni storiche, concettuali, professionali, economiche. La “libertà di ricerca”, ad esempio, trova il suo limite e le sue condizioni nei finanziamenti del capitale, nella capacità dei ricercatori di ottenere consenso e collaborazione, negli specifici modelli dentro i quali nascono i progetti e le ipotesi, negli scopi operativi e commerciali ai quali la ricerca serve, nell’utilizzo ideologico -e cioè esterno al proprio specifico ambito- della “scienza” come visione generale del mondo, nella stratificazione millenaria dei saperi. Anche di quelli che il metodo scientifico reputa oggi falsi -origini che tenta di nascondere come fanno i parvenu con i parenti più prossimi…- ma dai quali esso stesso è scaturito poiché «la scienza quantitativa e matematizzata oggi vincente si è distillata in un crogiolo ribollente di scorie, passioni e credenze, dalla quali ha tratto la sua forza creativa» (p. 11). Invece di ammettere con spirito davvero scientifico queste proprie origini, i ricercatori erigono spesso tribunali e barriere, costringendo chi voglia praticare le scienze ad abiure, ad autocensure, a forme di pensiero unico, poiché «la scienza seria è, per definizione, dei riduzionisti, quella dei riduzionisti» (p. 155).
Longo non dubita della fecondità di risultati e della potenza euristica del metodo galileiano ma sostiene che al di là degli ambiti e degli enti che le scienze quantitative sono in grado di cogliere e spiegare, c’è il mondo qualitativo dei soggetti, delle sensazioni, delle passioni e delle storie. Un mondo che il linguaggio matematico è per sua stessa definizione impossibilitato a indagare e sul quale quindi sono altri i linguaggi che possono far luce, mondi che vivono di tempo e che solo il narrare può dunque spiegare: «Norbert Wiener osservò che l’impoverimento associato alla formalizzazione sarebbe devastante per discipline che, come l’antropologia, la sociologia e la psicologia, si occupano di entità (umane) complesse, immerse in una rete di relazioni essenziali, molteplici e stratificate e in una storia imprescindibile. Per molte discipline (psicologia, sociologia, antropologia) è molto più adeguata un’impostazione di tipo “narrativo”, basata sui casi particolari, sugli eventi, anche sugli aneddoti, che non un’impostazione formalistica che ne ridurrebbe l’oggetto, complesso e sfaccettato, a una caricatura per difetto» (p. 69). La necessità del narrare non è una questione di stile o di comunicazione. È una necessità intrinseca alla scienza stessa, se intende comprendere la realtà. Perché la realtà è fatta di tempo. Alla staticità eleatica, al pensiero che reputa impura ogni contaminazione con il tempo, va opposta la verità mobile e cangiante che intride di sé ogni ente, evento e processo.

[Consiglio di ascoltare una breve e interessantissima intervista radiofonica rilasciata da Longo a proposito dei temi affrontati nel libro. Una versione più ampia di questa recensione si può leggere in Nuova Civiltà delle Macchine, anno XXVI, numero 1/2008, pagine 108-109]

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