Skip to content


Colono

Teatro Greco – Siracusa
Edipo a Colono
(Oἰδίπoυς ἐπὶ Κολωνῷ)
di Sofocle
Con:
EDIPO | Giuseppe Sartori
ANTIGONE | Fotinì Peluso
ABITANTE DI COLONO | William Caruso
CAPO CORO| Rosario Tedesco, Elena Polic Greco
CORO | Andrea Bassoli, Guido Bison, Sebastiano Caruso, Spyros Chamilos, Gabriele Crisafulli, Manuel Fichera,Elvio La Pira, Emilio Lumastro, Roberto Marra, Jacopo Sarotti, Sebastiano Tinè
ISMENE | Clara Bortolotti
TESEO | Massimo Nicolini
CREONTE | Paolo Mazzarelli
POLINICE | Simone Severini
MESSAGGERO | Pasquale Montemurro

Traduzione: Francesco Morosi
Scene: Radu Boruzescu
Regia di Robert Carsen
Sino al 28 giugno 2025

«Il tempo, grande compagno» restituisce a Edipo quello che Ἀνάγκη gli aveva sottratto: gli affetti e l’onore. Il sovrano di Tebe era stato ridotto – come afferma il Coro – a «uomo del dolore» (potremmo aggiungere, con Isaia 53, 4 e con i Vangeli: «che ben conosce il patire») ma ora è giunto là dove Apollo gli aveva promesso, in un bosco sacro che lo stesso Edipo definisce «sede delle dee venerande», luogo delle Erinni diventate Eumenidi, nei sobborghi di Atene, a Colono.
L’ospite viene temuto dagli abitanti della grande città dell’Attica, poi viene però accolto dal sovrano Teseo, al quale Edipo assicura che, se accoglierà «l’intoccabile», grande vantaggio ne verrà per Atene. Là dove infatti Edipo avrà la sua tomba, quel luogo durerà per sempre. Questo ha stabilito il dio, questa è la volontà di Apollo.
Ed è per tale motivo che Creonte, suo cognato, si precipita da Tebe allo scopo di riportarlo nella città di cui Edipo era stato sovrano ma dalla quale proprio Creonte, insieme a Polinice, figlio maggiore di Edipo, lo aveva mandato via. Creonte usa apertamente la violenza, con le parole e con i fatti. Rapisce persino le figlie di Edipo, Ismene e Antigone, pur di ricattarlo; si spinge infine a prenderlo con la forza. Ma Teseo lo impedisce, riportando le ragazze ad Atene.
Teseo accusa aspramente Creonte di essere arrivato come straniero ma di non rispettare le leggi e la dignità del luogo che adesso lo ospita, cosa che invece qualunque straniero deve fare (e ciò sia ricordato anche agli ‘accoglienti’ che invocano il modello greco senza sapere di che cosa stiano parlando).
E dunque il sovrano dell’Attica si mostra ancora una volta esemplare, portando a compimento le sue promesse, nonostante l’avviso che aveva dato a Edipo di essere «soltanto un uomo. Sul domani non ho più potere di te». Anche Polinice, giunto inutilmente a Colono per ottenere il perdono paterno, conferma che «è nelle mani di un dio che vada in un modo o nell’altro» la sua guerra con Eteocle, così come ogni intento degli uomini in questo mondo.
Il dio nel quale tutto abita, accade e si scioglie è il tempo. Il saggio Edipo afferma infatti che «a parte gli dèi, che non soffrono e non muoiono, tutto il resto lo sconfigge il potere del tempo», il quale insieme alla Necessità e alle Eumenidi, restituisce gloria al sovrano di Tebe, conducendolo a finire i propri giorni nel luogo consacrato alle dee e permettendo così che «l’abisso dei morti lo prenda con sé, senza dolore».
Questa tragedia così singolare, così serena, è raccontata da Robert Carsen con una semplicità veramente magnifica e con una eleganza che le scene di Radu Boruzescu esprimono già dal boschetto dove spira una pace profonda e nelle scene in cui il coro purifica gli spazi versando acqua lustrale sui sentieri che portano a Colono.
Il protagonista è interpretato con plausibile forza e dolore da Giuseppe Sartori, il quale era già stato il sovrano di Tebe nell’Edipo Re sempre di Carsen del 2022. E come nella precedente tragedia Sofocle fa dire anche qui al Coro che «non nascere è il destino migliore», una verità che i Greci di continuo ripetono, come fosse una semplice ovvietà.
«Il tempo vede tutto, vede sempre», il tempo che a Colono vede compiersi una gioia serena. Per questo, afferma il Coro, «è qui che trionfa Dioniso».
Qui, nelle parole dei tragici greci che sempre ritornano a fare di Siracusa un luogo anch’esso sacro. 

Sarah Dierna su Logos

Sarah Dierna
La letteratura è anche sempre filosofia
Recensione a:
Logos. Scritti di estetica e letteratura
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
22 aprile 2025
pagine 1-6

«Che si tratti di una coniugazione voluta come nella narrativa di Leonardo Sciascia o spontanea come nella potenza letteraria di Borges e Dürrenmatt; che sia l’esito di un’ermeneutica letteraria come accade nel critico Giuseppe Savoca; che avvenga nella forma poetica di Eugenio Mazzarella o alla maniera barocca di Carlo Emilio Gadda, la letteratura è sempre anche filosofia. L’ultimo libro di Alberto Giovanni Biuso, Logos. Scritti di estetica e letteratura, fa trasparire tale connubio a ogni pagina, capitolo e sezione che compone questo ampio volume il quale prosegue, per forma, intenti e disposizione, Chronos. Scritti di storia della filosofia, uscito per la stessa collana di Mimesis nel 2023.
Mentre quest’ultimo testo ha fatto emergere, sia pur in modo variegato e non sempre manifesto, i dispositivi dell’essere, del tempo e della materia che guidano il pensare filosofico dell’autore, gli scritti di estetica, di letteratura e di arti visuali toccano con disincanto e delicatezza la dimensione profonda dell’umano: gli archetipi della guerra e del viaggio, le passioni che lo sconvolgono – prima fra tutte l’amore – la costitutiva solitudine e, sopra ogni cosa, il trionfo della morte. […]
L’espressione letteraria così come la forza delle immagini – a cui l’autore dedica una sezione visuale – possiedono una potenza evocativa, una capacità comunicativa che rendono anche molte manifestazioni artistiche dei capolavori filosofici attraverso i quali è possibile portare ‘a evidenza, comprensione e dolore ciò che di più radicale gorgoglia nelle vite’; se c’è una differenza rispetto alla scrittura filosofica più stringente e teoretica, essa risiede nel fatto che nella poesia, nella letteratura e nelle arti visuali ‘è il mondo stesso che prende la parola, che si fa parola’ per mezzo di un linguaggio in cui la forma lirica e narrativa fa ‘in modo che dei corpimente possano comprendere’ così da trasformare il fango dell’esistenza nell’oro della conoscenza che riscatta la vita investendola di una luce che non cancella il principio dionisiaco del mondo ma impara ad accoglierne la necessità e a esprimerla mediante la forma e l’equilibrio pacato di Apollo».

Il ritorno degli dèi

Gli Dei ritornano. I bronzi di San Casciano
Reggio Calabria – Museo Archeologico Nazionale
A cura di Massimo Osanna e Jacopo Tabolli
Sino al 12 gennaio 2025

Sempre ritornano perché mai se ne sono andati. Nascosti nelle pieghe della dissoluzione umanistica, mascherati nei dogmi dei monoteismi, potenti dentro la Φύσις, sorridenti nella luce, gli dèi sono sempre con noi e accompagnano – distanti – coloro che riconoscono nella materia e nel cosmo il Tutto del quale l’umano è soltanto una parte, un epifenomeno, un gioco, un dramma.
Questo è il politeismo, che trascorre dunque subito in panteismo. Lo si vede bene nei bronzi che dall’estate del 2022 sono ricomparsi nel Bagno Grande di San Casciano dei Bagni, una località in provincia di Siena dove (come si legge nella scheda che il Museo di Reggio Calabria ha dedicato all’evento) uno scavo stratigrafico ha portato alla luce «il più grande deposito di statue in bronzo di età etrusca e romana mai scoperto nell’Italia antica e uno dei più significativi di tutto il Mediterraneo. Riproduzioni di parti anatomiche, offerte per chiedere alle divinità la salute o ringraziare di una guarigione, e statue realizzate secondo i canoni della cosiddetta mensura honorata (alti tre piedi romani, equivalenti a circa un metro), che raffigurano le divinità venerate nel luogo sacro o i fedeli dedicanti. La gran parte di questi pregevoli reperti si data tra il II e il I secolo a.C., un periodo storico di grandi trasformazioni che vede la definitiva romanizzazione delle potenti città etrusche».
Tutto questo costituiva la vita di un antico santuario posto nella città-stato etrusca di Chiusi, luogo che dal III secolo a.e.v. al V secolo e.v. ebbe nell’acqua sacra il principale elemento identitario.
Compare dunque davanti al visitatore la potenza dell’acqua che ha conservato questi bronzi come il mare ha fatto con quelli di Riace, l’acqua delle fonti che Servio afferma giustamente essere sempre sacra; 

compare la gratitudine verso gli dèi che spingeva i pagani a dedicare loro statuette, parti anatomiche, gioielli; compare la potenza del fulmine che indicò agli umani di quelle terre dove seppellire i loro bronzi per onorare il dio che si era mostrato; 

compare la potenza di questo dio, che è Zeus ma è anche Apollo «arciere dall’arco di argento» come lo chiama Omero; compare ovunque un significato totale della vita. Totale e disincantato, luminoso e tragico.

L’antropocentrismo monoteistico dei figli di Mosè, dei nazareni, dei maomettani ha tolto senso al mondo relegandolo nel dio unico, padre assoluto e signore feroce, generando così il problema ecologico dato dalla distruzione dell’οἶκος, la comune casa dei viventi. Tracce del politeismo si scorgono ancora per fortuna nel Cattolicesimo Romano, con il suo culto per i santi, alle cui guarigioni continuano a essere dedicati gli ex voto. Sono, queste, flebili tracce di una comunanza e consolazione che intesseva le vite degli antichi.
I quali anche per questo potevano generare la stupefacente armonia e bellezza dei due Bronzi che dominano lo spazio del Museo Archeologico di Reggio Calabria. 

Visibili anche dalla piazza centrale dell’edificio, giustamente dedicata all’archeologo Paolo Orsi, e poi accoglienti nella sala a essi soltanto dedicata, questi dèi in forma umana sono un emblema limpido e chiarissimo della filosofia greca, del suo superamento di ogni umanesimo nel momento stesso in cui sembra celebrarlo, della metamorfosi della materia – il bronzo – in elemento sacro, della vittoria delle forme su ogni barbarie e bruttura. Accostarsi a queste due entità vuol dire avvicinarsi al dio.
Il museo della città magnogreca accoglie nei suoi spazi migliaia di reperti di varia natura, epoca, fattura, invitando a un percorso dentro la vicenda della Μεγάλη Ἑλλάς, della Grecia oltre la Grecia con la quale gli Elleni donarono al Mediterraneo luce.

Nella piazza di ingresso del Museo è attualmente allestita un’esposizione di opere contemporanee. Tra queste i Guerrieri di Filippo Balice (2024) coniugano le forme arcaiche e gli stilemi di oggi, rendendo ancora una volta vivo l’antico, che mai è morto.

Usciti dal Museo, l’ampio lungomare di Reggio Calabria offre allo sguardo i due mari che si incontrano, l’Etna che sta, la luce senza fine del Mediterraneo.

Sciamani

Antiche sono le nostre radici, la nostra esistenza, i nostri pensieri, la filosofia, la gioia, la salute, la morte.
Le «origini eurasiatiche (altro che cristiane) della nostra civiltà»1 emergono da questa antologia che raccoglie alcune delle più chiare e profonde testimonianze della vita sacra tra i Greci dell’Ellade e della Grande Grecia, tra i Traci, tra gli Sciti Iperborei, poiché «c’è molto Oriente nel nostro Occidente, in particolare greco e magnogreco, e viceversa» (26).
Eric Dodds descrive i filosofi della Repubblica platonica come «una specie nuova di sciamani razionalizzati»2. Angelo Tonelli riprende, conferma ed estende in vari modi questa tesi: fa emergere la dimensione sciamanica di Socrate e di Parmenide; mostra l’approccio olistico della medicina platonica, enunciato nel Carmide (156d-157b), e descrive la struttura corpomentale delle pratiche mediche greche, le quali curavano non il σῶμα o la ψυχή ma l’unità psicosomatica che siamo, «perché l’umano è un intero (hólon), e la cura consiste nel coniugarne la dimensione animale con quella divina, nell’interiorità, facendo di quest’ultima, ammaestrata dalla Sapienza unificante e dalla disciplina spirituale, l’egemone» (470-471); definisce e indaga lo sciamanesimo come una pratica rivolta essenzialmente alla salute dei corpimente individuali e della comunità quale corpo collettivo.

Lo sciamanesimo, infatti, «non è una religione, ma un insieme di pratiche e credenze che gravitano intorno a varie tecniche dell’estasi, cerimonie e rituali che favoriscano il contatto diretto con essenze soprannaturali allo scopo di recare benefici ai singoli e alla comunità di cui lo sciamano e la sciamana fanno parte» (16).
Le potenze alle quali lo sciamanesimo greco attinge, le forze che lo costituiscono, il sacro che lo intesse, hanno i nomi di Apollo, delle Erinni, di Dioniso.

«Duplice è il volto di Apollo: dio solare mediterraneo e iperboreo brumoso signore dei lupi e dei corvi. […] Dio dell’equilibrio che nasce dal distacco sapienziale, e dio della trance vaticinante della Pizia e delle dissociazioni astrali dei suoi sciamani» (444).

Le Erinni/Eumenidi/Μοίρες sono figlie di Κρόνος, come lo è Afrodite. Dal figlio di Οὐρανός e di Γῆ, della Terra e del Cielo, dalla potenza del suo divenire e del suo sperma, si diramano le passioni più fonde: l’eros e la vendetta.

Dioniso, infine, è tutto. È il dio mistico, è il «dio segreto dei Misteri» (292), è medico, è il dio pieno di gioia e che di gioia ricolma chi lo ama, diventando «gioia dei mortali» (Iliade, XIV 325, p. 131), ed è insieme l’Ade (come sostiene Eraclito [22B 15 DK]); Dioniso è soprattutto molteplicità, è colui che guardando dentro lo specchio la propria immagine «si slanciò alla fabbricazione di tutta la pluralità» (Proclo in Timeo, 33b; p. 135). Dioniso è la molteplicità degli enti, degli eventi, dei processi, dell’essere e del divenire, della materia e della luce che si frange e si rivela in ciò che è opaco.

Per quanto trasformata e, appunto, molteplice, la filosofia e la sua storia non si spiegano al di fuori e senza queste radici mistiche, sacre e sciamaniche. Perché la filosofia è comprensione del tempo e immersione nel tempo. Come per il Calcante dell’Iliade, il compito di un filosofo è conoscere «ὃς ᾔδη τά τ᾽ ἐόντα τά τ᾽ ἐσσόμενα πρό τ᾽ ἐόντα; ‘le cose che sono e ciò che saranno e che sono state in passato’» (Iliade, I, 70; p. 221).
Tale è la condizione della vita beata. Condizione nel senso del suo stare, condizione nel senso del suo postulato. E a quel punto l’esistenza potrà diventare il sorriso distante e perfetto dei κοῦροι e di Dioniso: «La vita beata, lontana dall’erranza della nascita, che secondo Orfeo si vantano di ottenere anche quanti vengono iniziati a Dioniso e Kore: cessare dal ciclo e respirare dalla sventura» (Proclo in Timeo 42c-d; p. 405). Tale la struttura e la natura del sacro, che non è il religioso, non è lo spirituale, ma è la potenza stessa del cosmo, della materia.


Note

1. Angelo Tonelli (a cura di), Negli abissi luminosi. Sciamanesimo, trance ed estasi nella Grecia anticaFeltrinelli 2021, p. 27. I numeri di pagina delle successive citazioni da questo libro vengono indicati nel testo, tra parentesi.

2. E.R. Dodds, I Greci e l’Iirrazionale (The Greek and the Irrational, 1950), trad. di V. Vacca De Bosis, La Nuova Italia, Firenze 1978, p. 248.

Pindaro

Di Pindaro (520-446) von Balthasar scrive che «un solo poeta lirico ha ancora inteso la sua arte unicamente come glorificazione di quanto esiste di regale, di vittorioso e di magnifico nel mondo, dove la gloria totale è il preciso e necessario confluire delle due glorie: della trasfigurante e della trasfigurata. […] Celebrazioni dei vincitori – uomini e fanciulli – ai giochi panellenici in Olimpia, Delfi (Pizia), sull’istmo di Corinto e a Nemea . […]
Il mondo è giustificato: vincitori e poeti insieme uniti ne fanno festa. Gli epinici sono un’opera d’arte totale, venivano cantati da un coro e danzati in termini mimici; le parole senza musica che ci sono rimaste, nonostante la loro elevatissima arte linguistica, non possono più comunicarci l’intero effetto di un tempo»1.
Dalla Beozia alla Sicilia, dal cuore della Grecia a Etna (Catania) e ad Agrigento – la quale è «καλλίστα βροτεᾶν πολίων, bellissima fra le umane città»2 -, dal tempo profondo dell’antica Ellade all’oggi. Pindaro è il canto, Pindaro è Apollo.
I suoi epinici, i suoi inni per la vittoria, mostrano quanto naturale fossero per i Greci il corpo, gli spazi, la relazione e la forza. Le Olimpiadi, le Nemee, le Istmiche, le Pitiche e altre manifestazioni più circoscritte sono i momenti nei quali da ogni città della Grecia partono giovani, sovrani, poeti, musici, per mettere alla prova se stessi sperando di dare lustro alla propria città. E Pindaro prende spunto dal successo dell’uno o dell’altro nella corsa a piedi – 200 metri, mezzofondo, fondo – e in quella con i cavalli, nella lotta – pugilato o pancrazio -, nel salto in lungo, nel lancio del disco e del giavellotto, prende spunto da queste sfide per attingere ogni volta con il canto la storia e il mito greci, inseparabili. 

Sembra proprio che gli dèi vivano con noi, che ogni volta si ricordino di noi mentre noi ci ricordiamo di loro, della loro luce. Soprattutto di quella di Apollo, che «ὅσσα τε χθὼν ἠρινὰ φύλλ᾽ ἀναπέμπει, χὠπόσαι / ἐν θαλάσσᾳ καὶ ποταμοῖς ψάμαθοι / κύμασιν ῥιπαῖς τ᾽ ἀνέμων κλονέονται, χὤ τι μέλλει, χὠπόθεν / ἔσσεται, εὖ καθορᾷς, di ogni cosa sai / lo sbocco sicuro e tutte le vie / e quante foglie fa germinare la terra a primavera e quanti / grani di sabbia in mare e nei fiumi / sono travolti dalle onde e dalle raffiche dei venti / e con certezza riconosce che cosa / sarà e per quale ragione» (IX, 45-49, p. 178), sì, la mente (νόῳ) del Λοξίας davvero «πάντα ἰσάντι, tutto sa» (III, 28, p. 98).
Pindaro sa che dismisura bisogna evitare, perché «χρὴ δὲ κατ᾽ αὐτὸν αἰεὶ παντὸς ὁρᾶν μέτρον, dobbiamo sempre guardare la misura d’ogni cosa in accordo col nostro stato» (II, 34, p. 88).
Pindaro sa che «σθένος ἀελίου χρύσεον, l’aurea energia del sole» (IV, 144, p. 124) riempie di gioia la vita dei mortali, l’esistenza degli «ἐπάμεροι», degli effimeri che possono chiedersi «τί δέ τις; τί δ᾽ οὔ τις; σκιᾶς ὄναρ / ἄνθρωπος. ἀλλ᾽ ὅταν αἴγλα διόσδοτος ἔλθῃ, / λαμπρὸν φέγγος ἔπεστιν ἀνδρῶν καὶ μείλιχος αἰών, Cosa siamo? Cosa non siamo? Sogno di un’ombra / l’uomo. Ma quando, dono degli dèi, appare un bagliore, / vivida luce si spande sugli umani, e dolce la vita» (VIII, 95-97, p. 172).
Pindaro sa che se gli effimeri qualche gioia pur vivono, essa però «ἄνευ καμάτου / οὐ φαίνεται, senza pena  /non si mostra» (XII, 28-29, p. 208) poiché «θεὸς εἴη / ἀπήμων κέαρ, solo un nume / può restare immune da rovina» (X, 21-22, p. 190).

Gli umani senza dolore non sono raggiungibili né veleggiando con navi né percorrendo a piedi i cammini e le terre; solo Apollo conosce «ἐς Ὑπερβορέων ἀγῶνα θαυματὰν ὁδόν, la via meravigliosa che porta all’accolta degli Iperborei» (X, 30, p. 190). Noi βροτοί, noi mortali, possiamo e dobbiamo diventare ciò che siamo – «γένοι᾽ οἷος ἐσσὶ μαθών» (II, 72, p. 92) -, dobbiamo e possiamo diventare tempo che va, tempo che pensa, tempo che si raggruma e che si dissolve nella potenza senza fine della materia sacra.
Pindaro ci fa proprio sentire che «gli dèi ci sono»3. 


Note

1. Hans Urs von Balthasar, Nello spazio della metafisica. L’antichità, vol. IV di Gloria. Un’estetica teologica (1965), trad. di G.  Sommavilla, Jaca Book 2017, pp. 87-88.

2. Pindaro, Pitiche (498-446), a cura di Franco Ferrari, Rizzoli 2018, XII, 1, p. 204. Le successive indicazioni bibliografiche appariranno tra parentesi nel corpo del testo: numero della composizione, verso, numero di pagina dell’edizione Rizzoli.

3. Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, Der Glaube der Hellenen, cit. in Warburg e il pensiero vivente, a cura di Monica Centanni, Ronzani Editore 2022, p. 107.

La Notte

«Eὔφρονες; Benevole»1 e non «Eumenidi» come poi gli alessandrini intitolarono questo testo che dà fondamento alla civiltà mediterranea.
Eὔφρονες, benevole, diventano le tremende e antichissime («παλαιὰς») potenze (v. 727; p. 650). Potenze «νυκτὸς παῖδες ἄπαιδες; figlie senza figli, figlie della Notte», le Erinni (v. 1034; p. 670). A compiere la metamorfosi è stata Atena, la mente, sostenuta e aiutata da Πειθώ, dalla persuasione, dal linguaggio, dalla parola.
Erinni e Atena governeranno insieme e per sempre la città umana. Insieme significa che dentro e dietro ogni splendore della razionalità riposa, gorgoglia e vince la corporeità; dentro e dietro ogni etica sta la vendetta di chi quell’etica è riuscito a imporre a coloro che ha sconfitto; dietro e dentro la Luce di Apollo sta la Notte, Νὺξ μέλαινα, la nera notte della maledizione, della memoria inestinguibile del male ricevuto, del morire che non conosce domani. Dietro ogni esistenza, dietro ogni Dasein, sta la nera notte del nulla, sta il Sein zum Tode:

«ἀνδρὸς δ᾽ ἐπειδὰν αἷμ᾽ ἀνασπάσῃ κόνις
ἅπαξ θανόντος, οὔτις ἔστ᾽ ἀνάστασις.
τούτων ἐπῳδὰς οὐκ ἐποίησεν πατὴρ
οὑμός.
Quando invece la polvere della terra è intrisa del sangue di un uomo, una volta che sia morto non c’è ritorno, non tornerà alla luce. Mio padre, Zeus, non fa incantesimi contro la morte»
(vv. 647-650; p. 644)

Questo afferma Apollo al culmine del conflitto con Erinni. Apollo, il colpevole, colui che si intesta senza esitazione il matricidio compiuto da Oreste. Apollo che condivide Delfi con il fratello sorridente e tremendo, Dioniso. 

«Βρόμιος ἔχει τὸν χῶρον, οὐδ᾽ ἀμνημονῶ,
ἐξ οὗτε Βάκχαις ἐστρατήγησεν θεός,
λαγὼ δίκην Πενθεῖ καταρράψας μόρον.
Bromio è signore del luogo – non lo dimentico: di là il dio mosse con il suo esercito di baccanti, per straziare Penteo, braccandolo a morte come una lepre»
(vv. 24-26: pp. 598-600).

Se Eschilo sembra cantare e ratificare la Luce che supera l’orrore, la realtà è che la luce è destinata a convivere con l’orrore. Questo racconta la trilogia di Agamennone, Coefore, Eumenidi. Racconta la vita quotidiana degli umani, il cui dolore è destinato a finire soltanto quando essi stessi finiranno, quando noi tutti spariremo. E Γαῖα, la Terra, respirerà.
La Terra che ha generato la Notte, le Erinni «κόραι, γραῖαι παλαιαὶ παῖδες; le fanciulle decrepite, antiche bambine»  (vv. 68-69; p. 602); «γραίας δαίμονας; dee antichissime» (v. 150; p. 608). La Terra che nel volgersi infinito della materia ha generato il Destino la Μοίρα.
Se «χρόνος καθαιρεῖ πάντα; il tempo passa e purifica ogni cosa» (v. 286: p. 618), tale purificazione – quella destinata certamente a prodursi – è semplicemente la fine dell’umano nella storia, nello spazio, nel mondo.
Fine che Erinni prefigura due volte con gli stessi versi a breve distanza:

«ἐπὶ δὲ τῷ τεθυμένῳ
τόδε μέλος, παρακοπά,
παραφορὰ φρενοδαλής,
ὕμνος ἐξ Ἐρινύων,
δέσμιος φρενῶν, ἀφόρ-
μικτος, αὐονὰ βροτοῖς.
E per la vittima sacrificale
questo canto – delirio
follia frenesia –
inno di Erinni si innalza,
canto che incatena la mente. Canto senza
suono di cetra, che annienta la stirpe mortale»
(vv. 328-333; 341-346; pp. 620-621).

Alla fine, come in Sette contro Tebe (855-860), il paese oscuro che tutti accoglie è il Nulla da cui siamo scaturiti, è la «tenebra priva di luce; δυσήλιον κνέφας» (v. 396; p. 624).
E sarà, finalmente, la pace2.


Note

1. Eschilo, Eumenidi (Εὐμενίδες, 459 a.e.v.), verso v. 992; p. 668,  in Le tragedie, traduzione, introduzioni e commento di Monica Centanni, Mondadori 20133, pagine LXXXII-1245. Le successive citazioni saranno indicate nel testo con i numeri dei versi seguiti dal numero di pagina dell’edizione Meridiani.

2. Con questo testo si conclude l’analisi delle tragedie di Eschilo da me tentata in questo sito. La versione completa è stata pubblicata nel volume 5 (2022) della rivista Mondi. Movimenti simbolici e sociali dell’uomo. Il saggio si può scaricare e leggere anche da qui: Eschilo, il fondamento.

Giustizia / Vendetta

«Oὐκ ἀτρίακτος ἄτα; invincibile è Ate!»1  invincibile è la giustizia/vendetta. È lei la signora dell’intera trilogia che va sotto il nome di Orestea e lo è in particolare di questa seconda parte. Giustizia/vendetta che hanno a che fare con il cosmo, con la Terra, con l’intero e non soltanto con le effimere vicende dei mortali.
Si tratta di un principio universale, che già il frammento di Anassimandro aveva espresso con grande potenza. Il coro delle coefore, delle donne che portano libagioni sulla tomba di Agamennone, afferma che «δι᾽ αἵματ᾽ ἐκποθένθ᾽ ὑπὸ χθονὸς τροφοῦ / τίτας φόνος πέπηγεν οὐ διαρρύδαν; il sangue bevuto dalla Terra nutrice / è vendetta, è delitto, è un grumo che non si scioglie» (vv. 66-67; p. 518). Giustizia è «τὸν ἐχθρὸν ἀνταμείβεσθαι κακοῖς; ricambiare il malvagio con il suo stesso male» (v. 123; p. 522), modalità d’esistenza nella quale il fondatore del cristianesimo identifica correttamente «i pagani» (Mt, 5, 43-48).
La giustizia/vendetta è per i Greci un potente sentimento – «θυμὸς ἔγκοτον στύγος; è l’impeto del cuore – è il rancore implacabile» (v. 393; p. 542) – ed è anche un principio sacro, che gli Dèi vogliono, pensano, impongono ai mortali. «Ἄρης Ἄρει ξυμβαλεῖ, Δίκᾳ Δίκα; Ares contro Ares, Dike contro Dike» (v. 461; p. 546); conflitto e giustizia unite in cinque parole, in un verso tra i più splendidi e sintomatici della Grecità.

A imporre a Oreste la vendetta è il dio dell’equilibrio e della luce, è Apollo, Apollo Λοξίου, l’obliquo, il molteplice, l’ironico. Se non ubbidisse al dio, Oreste subirebbe la persecuzione delle Erinni. E tuttavia compiuto il riscatto della morte del padre Agamennone con la morte per sua mano della madre Clitemnestra, Oreste viene immediatamente perseguitato dalle Erinni. Non si dà ragione alcuna, infatti, per uccidere la madre, qualunque azione abbia ella compiuto. È dalla sua carne che infatti gli umani, come qualunque mammifero, vengono lentamente plasmati nei mesi in cui sono con la madre una cosa sola. Uccidere la propria madre è uno dei massimi atti contro natura che sia possibile pensare.
La sorella Elettra, il coro delle schiave troiane, l’amico Pilade, la nutrice, ricordano in modi diversi a Oreste il suo dovere di vendicare il padre tradito e assassinato. E Oreste ubbidisce. Dopo aver ubbidito ad Apollo dichiara perché lo ha fatto: «κτανεῖν τέ φημι μητέρ᾽ οὐκ ἄνευ δίκης; ho ucciso mia madre per giustizia» (v. 1027; p. 588). E tuttavia la conseguenza sono le Erinni davanti al suo cuore, le Erinni che lo fanno impazzire, le Erinni che non hanno pietà e che soltanto il tocco del Lossia, forse, potrà scacciare dal corpomente del matricida.
Davvero nel mondo degli umani «τὸν ζῶντα καίνειν τοὺς τεθνηκότας; i morti uccidono i vivi» (v. 886; p. 576), corpo si sostituisce a corpo, vita si sostituisce a vita; la morte è il signore di tutti. Suo tramite è il principio femminile che prende e dà, che costruisce dentro di sé la vita e schianta con la propria forza le vite che ha generato. Monica Centanni vede acutamente e giustamente all’opera in tutto questo uno «sguardo etologico» (p. 1061), quello che Sofocle esercita nel celebre inno dell’Antigone che celebra l’umano come forza meravigliosa e tremenda, concezione che in realtà è di Eschilo, per quanto splendidamente ripresa dal suo successore. Infatti:

πολλὰ μὲν γᾶ  τρέφει
δεινὰ καὶ  δειμάτων ἄχη,
πόντιαί τ᾽ ἀγκάλαι κνωδάλων
ἀνταίων βρύουσι:
πλάθουσι βλαστοῦσι καὶ πεδαίχμιοι
λαμπάδες πεδάοροι,
πτανά τε καὶ πεδοβά-
μονα κἀνεμοέντ᾽ ἂν
αἰγίδων φράσαι κότον.

ἀλλ᾽ ὑπέρτολμον ἀνδρὸς
φρόνημα τίς λέγοι
καὶ γυναικῶν φρεσὶν  τλαμόνων  καὶ
παντόλμους ἔρωτας
ἄταισι συννόμους βροτῶν;

Molti la terra nutre
Terribili […] funesti orrori
E i recessi del mare
brulicano […] di bestie mostruose, maligne.
E dall’alto cala ancora rovina:
I fulmini dal cielo distruggono
Gli esseri dell’aria e della terra. E potrei dire dei venti, il vortice tempestoso del loro furore.

Ma la violenza che c’è nella mente dell’uomo
Chi potrà dirla a parole?
E la brama del cuore delle donne
Temerarie […] l’audace
Passione che porta tutti a rovina?
(vv. 585-598; p. 556)

Una condizione ambigua, dinamica, cangiante, che diventa in Oreste cambio repentino di identità: da figlio vendicatore supplicato dalla madre a figlio perseguitato dalle Erinni della madre, da queste cagne immonde e potenti. In pochi versi, in un istante, «Oreste non è già più il vendicatore vittorioso del padre: è un figlio con le mani sporche di sangue della madre, perseguitato dai demoni» (Centanni, pp. 1088-1089).
I demoni che intessono e guidano le nostre passioni, non quelle di Oreste, le nostre: ogni giorno, per tutta la vita. Nessuno, davvero, «fra i mortali può passare / tutta senza affanno la vita, senza pagare il prezzo; οὔτις μερόπων ἀσινὴς  βίοτον / διὰ παντὸς  ἀπήμον᾽  ἀμείψει» (vv. 1018-1019; p. 588). Una vita priva di dolore e di inquietudine, sarebbe qualcosa di «più prezioso dell’oro / più grand[e] della grande fortuna degli Iperborei!; κρείσσονα χρυσοῦ, μεγάλης δὲ τύχης καὶ ὑπερβορέου» (vv. 373-374; p. 540).
Gli Iperborei, popolo presso il quale Apollo trascorreva gli inverni. Anche Eschilo è Λοξίου, obliquo come il dio.


Nota
1. Eschilo, Coefore (Χοηφόροι, 459 a.e.v.), verso v. 338; p. 538,  in Le tragedie, traduzione, introduzioni e commento di Monica Centanni, Mondadori 20133, pagine LXXXII-1245. Le successive citazioni saranno indicate nel testo con i numeri dei versi seguiti dal numero di pagina dell’edizione Meridiani.

Vai alla barra degli strumenti