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Animismo

Animismo

Daniel Steegmann Mangrané
A Leaf-Shaped Animal Draws The Hand
Hangar Bicocca – Milano
A cura di Lucia Aspesi e Fiammetta Griccioli
Sino al 19 gennaio 2020

Le installazioni, i video, le invenzioni, l’arte di Daniel Steegmann Mangrané costituiscono un inveramento e una chiara espressione dell’antropologia amerindia studiata da Eduardo Viveiros de Castro in Metafisiche cannibali e in altre opere.
Nelle analisi dell’antropologo brasiliano e nelle strutture create dall’artista catalano si manifesta infatti lo stesso paradossale antropocentrismo ecologico delle culture amerindie, ecologico nel senso che l’οἶκος di tali culture ritiene che tutto sia umano, che non si dia distinzione gerarchica tra chi in questo momento appare umano e gli altri animali, vegetali, pietre, oggetti. Tutte queste strutture costituiscono dei centri di intenzionalità perché un’intenzione è sempre un rapporto con l’alterità, di qualunque tipo sia la materia che entra in relazione con altra materia, con altri centri di esistenza e resistenza del mondo. Tutti gli animali e ogni altra componente del cosmo sono persone in quanto nel contatto possono sempre inglobare, divorare, trasformarsi, divenire. È questa la radice e la verità di ogni animismo.
All’opposto dell’evoluzionismo europeo, la differenziazione non parte dalla comune animalità ma si origina dalla comune umanità, tanto da ritenere che sia la natura ad allontanarsi dalla cultura, che sia l’animalità a costituire un’evoluzione della primitiva e originaria umanità. E pertanto dove la posizione occidentale tende a essere multiculturalista, quella dei popoli amazzonici è multinaturalista. Lo sciamano attraversa i confini ontologici non semplicemente raggiungendo una conoscenza dell’alterità ma diventando l’alterità. Il prospettivismo amerindio non è una rappresentazione epistemologica ma è una metamorfosi ontologica.
L’attenzione posta da Daniel Steegmann Mangrané al Fasmide, comunemente noto come ‘insetto stecco,’ ha in questa naturalizzazione della cultura la sua origine. Il Fasmide appare infatti come un ibrido tra l’animale e il vegetale. Quando è immobile, è praticamente impossibile distinguerlo dai rami, dalla vegetazione che lo circonda. Nella mostra l’insetto appare in alcuni video nei quali passa da un ambiente fatto di rami –che lo assorbe– a uno costruito con fogli di carta, dove invece la sua identità/movimento si staglia con chiarezza sullo sfondo artificiale. Ed è presente soprattutto in A Transparent Leaf Instead of the Mouth, definito dal suo autore «un esperimento di biologia e semiotica», potremmo dire di biologia semiotica essendo una struttura chiusa e trasparente dentro la quale terra, piante, animali, convivono nel continuo passaggio dell’uno all’altro. Oltre all’insetto stecco sono presenti infatti delle mantidi e l’insetto foglia, del tutto mimetizzati sino a indurre/costringere l’umano che guarda ad aguzzare lo sguardo, a tentare di risolvere il gioco percettivo tra primo piano e sfondo, in modo da cogliere ogni più piccolo movimento e soprattutto ogni minima differenza tra gli enti presenti in quell’ambiente, in modo da interpretare e separare ciò che si vede e che sembra uniforme, identico. Si può aggiungere che anche gli umani costituiscono probabilmente uno spettacolo per gli insetti che li guardano.
Un ibrido è Table with Two Objects, un lungo tavolo con alle estremità due oggetti, uno naturale l’altro artificiale nel senso di prodotto dall’azione umana; distinguerli è quasi impossibile. Mano con Hojas è un ologramma che mostra una mano dalla quale spuntano foglie; un altro ibrido tra animale e vegetale. Sembra discostarsi Lichtzwang, opera seriale composta da centinaia di piccoli acquarelli su foglietti quadrettati. Anche qui però la maestria tecnica riproduce i ritmi del mondo, creando scansioni semplici e complesse, evidenti e profonde. Ritmica sino a essere quasi musicale è una scultura dal titolo Upsylon, costruita in modo tale da poter ogni volta mutare configurazione mantenendo la costanza della forma.
Tramite alcuni video si penetra dentro la foresta pluviale con uno sguardo in soggettiva che della foresta fa emergere il verde profondo, l’intrico, i rumori, la musica prodotta dalla luce dentro le ombre.
«Se rendiamo più labile la separazione fra gli esseri umani e le creature non-umane –consapevoli di essere tutti parte dello stesso tessuto– cultura e natura diventerebbero un’unica trama. La tecnologia non è soltanto frutto del lavoro dell’uomo, piuttosto mi piace definirla come qualcosa che respira, qualcosa di connaturato alla vita» (Steegmann Mangrané).

2 commenti

  • Elvira

    Gennaio 22, 2020

    Caro professore, le lascio qui alcune mie riflessioni sulla mostra.
    L’insetto stecco si manifesta nei suoi lenti movimenti, nell’immobilizzarsi sulle nervature di una foglia, nel mimetizzarsi tra rami o carta ripiegata su se stessa; ecco che appare tramite il nascondimento. La foresta amazzonica viene decostruita in forme, luci e colori su disegni di quaderno ma viene anche riprodotta tramite installazioni. Le linee che dapprima costituiscono la vegetazione circostante si tramutano lentamente in astrazioni geometriche sempre più intricate, celando la differenza tra ambiente naturale e artificiale.
    Daniel Steegmann Mangrané esplora i confini tra natura e cultura e lo fa scegliendo qualcosa che, più di qualsiasi altra, riesce a mostrare come queste ormai vecchie e superate categorie ontologiche siano interconnesse tra loro: l’arte contemporanea.
    Ologrammi, video, strutture, installazioni, incisioni non sono più oggetti esposti per essere osservati dallo spettatore. Il loro senso emerge esclusivamente nella relazione partecipativa con lo spettatore come nel caso di Systemic Grid 17 e Systemic Grid 124, opere costituite da lastre di vetro intagliate da linee oblique. Qui lo spettatore non può far altro che interagire con le lastre, con il proprio corpo in movimento e con l’ambiente circostante per indagare i misteri e le meraviglie della percezione. Proprio tramite il movimento corporeo lo spettatore percepisce in maniera sempre diversa sia la propria figura riflessa sul vetro sia i corpi degli altri visitatori resi visibili dalla trasparenza del materiale dell’opera. Se le zone opache mostrano all’osservatore il proprio corpo evanescente, quelle trasparenti lo riportano al presente e alla realtà. Quest’opera permette di esperire il principio di figura/sfondo teorizzato dalla Gestalt e, soprattutto, di comprenderlo all’interno di un processo percettivo.
    Di conseguenza l’arte non è più costituita di oggetti ma di processi compositivi, così come vuole comunicarci l’artista con Table with Objects, un’opera che consiste, come suggerisce il titolo stesso, in un tavolo su cui sono adagiati vari oggetti. Essa non è un’opera conclusa poiché vuole restituire il senso di un processo che è quello della ricerca artistica nonché della composizione, ossia del “porre insieme” cose nel loro puro manifestarsi. L’opera qui è la relazione tra oggetti e umani e, ancora una volta, tra natura e cultura. Il senso del processo compositivo emerge anche da Kiti K’aeté (Lines), un collage raffigurante la Foresta amazzonica la quale, però, viene percepita solo come insieme di linee che derivano dalla scomposizione dell’immagine fotografica e dalla ricomposizione della stessa. Il senso, cioè la Foresta, deriva da un processo mentale e relazionale di “montaggio” delle linee. Non è un caso che l’artista abbia utilizzato anche il filmato e il movimento della cinepresa (Phasmides e 16mm) come strumenti e tecniche che si tramutano inesorabilmente nell’opera e nel processo artistico vero e proprio. Il mezzo non è più tale perché l’arte non è più rappresentazione della natura, ma è la natura stessa che si fa arte mostrando come i confini tra interno ed esterno e tra soggetto e oggetto siano sempre più labili. Il soggetto è immerso nell’ambiente in cui vive e gli oggetti “culturali” non sono altro che un prolungamento della nostra corporeità che vive e si muove nell’ambiente. Come ha affermato lo stesso artista, «la tecnologia non è soltanto frutto del lavoro dell’uomo, piuttosto mi piace definirla come qualcosa che respira, qualcosa di connaturato alla vita». E lo è infatti, come ha teorizzato uno dei più grandi esponenti dell’Embodied e dell’Aesthetic Cognition: Alva Noë nel suo Strange Tools. Art and Human Nature parlando di arte enattiva. Secondo Noë gli strumenti sono delle estensioni della nostra corporeità movente e percettiva, di ciò che siamo e che possiamo fare. Tutti gli strumenti che ideiamo e utilizziamo divengono parte costituente della nostra vita. Possiamo dire che essi sono “naturali” in quanto noi siamo naturalmente predisposti a progettare e utilizzare strumenti e integrarli alla nostra corporeità. Così come non potrebbe avvenire percezione senza un interscambio con l’ambiente, allo stesso modo non potrebbe esserci percezione artistica senza un’interazione costante con il mondo dell’artista. L’arte è – così come lo è la percezione – enattiva, ossia partecipativa, è una relazione con l’ambiente. Come ha mostrato in maniera trasparente Daniel Steegmann Mangrané l’arte è una relazione che emerge tramite il processo percettivo e creativo dell’uomo, ed emerge proprio lì, dove le forme geometriche si intersecano con elementi naturali e i confini tra soggetto e oggetto e tra natura e cultura si dissolvono inevitabilmente.

    • agbiuso

      Gennaio 22, 2020

      Cara Elvira, la ringrazio molto per questa sua analisi che racconta in modo puntuale molte delle opere/installazioni di Daniel Steegmann Mangrané e le inserisce tutte in un tessuto antropologico e teoretico che illumina la ricchezza della mostra.

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