Easy Rider
di Dennis Hopper
Con: Peter Fonda (Wyatt, Capitan America), Dennis Hopper (Billy), Jack Nicholson (George Hanson)
USA, 1969
Trailer del film
In occasione dei suoi cinquant’anni Easy Rider esce in versione restaurata. La rinnovata visione conferma la tragicità di questo film, che non riguarda gli hippy, non si limita agli anni Sessanta, non è una celebrazione delle droghe e dei mondi da esplorare. Al suo centro c’è il vuoto. Il vuoto delle strade e delle praterie, dello spazio attraversato nel lungo itinerario che da Los Angeles conduce a New Orleans, il vuoto delle vite e dei saperi. L’America profonda è quella descritta in un altro film interpretato da Denis Hopper, Il cuore nero di Paris Trout di Stephen Gyllenhaal (1991): un mondo rachitico, piccolo, provinciale, razzista, feroce. Un mondo perduto.
La cui perdenza si riflette nello sguardo sempre malinconico di Wyatt, Capitan America, il quale sa fin dall’inizio che mentre i panorami si aprono l’orizzonte suo e di Billy si chiude.
Sì, certo, Easy Rider è anche un film western, è un’opera On the Road, è un’apologia dei fricchettoni ma è soprattutto un film mistico, pervaso per intero da simboli e azioni religiose, che trova il suo culmine nelle allucinazioni dentro un cimitero e nel sacrificio dei protagonisti.
Stare lontani da questo mondo buio, dall’umanità statunitense, è una semplice esigenza di sopravvivenza.
«Billy: Che c’è di male nella libertà? La libertà è tutto.
George: Ah sì, è vero: la libertà è tutto, d’accordo…Ma parlare di libertà ed essere liberi sono due cose diverse. Voglio dire che è difficile essere liberi quando ti comprano e ti vendono al mercato. E bada, non dire mai a nessuno che non è libero, perché allora quello si darà un gran da fare a uccidere, a massacrare, per dimostrarti che lo è. Ah, certo: ti parlano, e ti parlano, e ti riparlano di questa famosa libertà individuale; ma quando vedono un individuo veramente libero, allora hanno paura».
2 commenti
Pasquale
Caro Alberto,
Vidi Easy rider al cinema De Amicis, MIlano settemila anni fa, ne ricordo poco ma concordo con quel che dici circa i paesaggi, paesaggi non dissimili da quei di pochi anni prima in Pasolini, Mamma Roma 1962, film che ignoravo, visto ieri sera. Bello brutto, mi piace non mi piace la questione non è questa. La questione è nel paesaggio, attore in entrambe le pellicole nella parte, come tu fai capire, della desolazione, della miseria, travestita in Easy rider, nuda in Mamma Roma. Ma l’impressione che ho avuto è che non c’è niente da fare, da biasimare, da contestare; inutile dire America o Russia o Indocina, in ogni caso noi, e altri come noi altrove, siamo l’aristocrazia senza domini che ha ricevuto e si è conquistata, standovi aggrappata, al privilegio del sapere; la dizione è elementare, ma non me ne viene in mente altra. Nostri i ducati, contee, marchesati, baronie delle lettere, del bel pensare. Una fortuna, un patrimonio, una scelta. Case, vestiti, automobili sono il corollario, modesto devo dire, del potere che, per chi più per chi meno, da lì deriva. Per gli altri non è così, e non è questione di America o di Filippine. Mi pare che il mondo sia un vasto deserto, Arizona, Borgata, marca trevigiana co’ suoi capannoni, Bassa Baviera, Prussia Orientale, per me pari sono. Cambia il modo con cui si pettinano i prati, se ci siono. Alcuni direbbero Inferno del mondo di fuori, là dove si affolla un umanità diseredata in quanto tale, troppa e tutta con lo stesso pensiero, durare, trovare un lavoro o inventarselo,aspettare l’occasione come le mantidi per afferrare la preda del giorno, campare, sopraffare, tutti in trincea tutti ma con l’aspettativa di farcela, ignari che la guerra non finisce e non può finire. In Cina il Comitato Centrale pare saperlo e cerca di garantire il suo pezzetto di ricchezza a ciascuno. A Hong Kong ce l’hanno e non sanno cosa vogliono di più, bandiere americane. Chi si stupisce di Sirie e Turchie, non capisce che ogni guerra è solo il sintomo del tumore umano che si autoaffligge. Il numero vuol dire. Conosco un bellissimo ragazzo egiziano, arrivato qui a ricongiungersi con la famiglia, col padre, immaginarsi, col Corano; arrivato in barcone, sa dio perché dal Cairo; non ha come l’Ettore di Mamma Roma, istruzione, nessuna aspirazione a farsela, ma ha capito che occorrono soldi per vivere, che per lui significa sopravvivere, e ne desidera molti. Molti è meglio. Più prede, piccola mantide.Stare da quella parte, dalla parte diciamo americana, che io intravidi tra i marmi di Washington e le torri di New York, poco dunque, e ai tempi in cui ti tagliavano le dita per sfilarti la fede nuziale, chi l’aveva, è una necessità; non dico obbligata ma del tutto giustificata. Sono un po’ superficiale e mi scuso per aver replicato, e solo dietro stimolazione intellettuale, da letterato; non ho voglia di scrivere un blog che saprebbe di antropologia che non so o di filosofia che non pratico. Sono molti i mestieri che ignoro. Abbracci cari.
p.s. Pasolini, è stato da me poco amato nella convinzione inesausta che chi scrive scrive e dovrebbe appartenere alla parola studiata, e chi fa il cinema fa il cinema, prima il teatro, e dovrebbe appartenere all’immagine e al corpo studiati, cioè agli attori. Pasolini fu un miscuglio senz’arte né parte, sicuro egli che riempire di simboli la pellicola avrebbe prodotto racconto; non è così ma Pasolini ebbe il pregio di avere successo; anche come guru, il che non guasta se si è intelligenti quanto lui lo era.
agbiuso
Caro Pasquale, concordo sul fatto che le questioni politiche sono sempre questioni antropologiche, le quali a loro volta affondano nell’ontologia. Da Aristotele, e da numerosi altri filosofi, ho tuttavia imparato che comprendere significa in gran parte distinguere, vedendo ciò che accomuna ma cogliendo anche le differenze.
E in ogni caso, qualunque sia il paesaggio che ai nostri occhi si dispiega, è diritto e dovere anche civile operare, per quanto possiamo, affinché ci sia mehr Licht.
Concordo in gran parte con quanto dici a proposito della poetica di Pasolini, del suo voler “riempire di simboli la pellicola”; i suoi film davvero riusciti sono, credo, non più di tre, quattro. Si tratta comunque di un intellettuale e di un artista che va inteso al di là dei confini estetici e disciplinari e che già all’inizio degli anni Settanta del Novecento comprese a fondo ciò che sarebbe accaduto dentro il corpo sociale nei decenni successivi. Anche per questo Pasolini è uno dei riferimenti più importanti di Contro il Sessantotto.
Ti abbraccio.