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Venezia

Venezia

Complice un convegno kubrickiano, ho percorso ancora una volta Venezia. Questo luogo anfibio, nato dalle acque e dagli umani. Ho cercato gli spazi solitari. Non è difficile. Basta scostarsi un poco dalle ripetute indicazioni «Per Rialto e San Marco» o -all’inverso- «Per la ferrovia e piazza Roma» e si dissolvono le certezze di abitare il secolo che chiamiamo XXI. Il ricamo settecentesco sta dovunque, i marmi e le pietre sono antichi, le porte sulle calli sembrano immutate. Nei ‘rami’ -le più strette tra le vie- l’odore acre dell’urina si mescola alla potenza verticale dei muri. ‘Sestieri’, ‘campi’, ’corti’, ‘campielli’  si allargano nei pozzi, nelle bifore, nei radi alberi.  Nonostante il profluvio di pizzerie e di negozi bric-à-brac di ogni tipo, sopravvive a Venezia anche il segreto degli artigiani, di chi fa uscire gli oggetti dalle proprie mani e non da macchine seriali. E poi il silenzio. Fuori dai percorsi stabiliti, Venezia è il silenzio, è la voce muta delle architetture, è il chiarore che si insinua a fatica dentro la massiccia presenza degli edifici ma che è ancora e sempre capace di trasformarli in luce, di travolgerli, abbracciarli, incendiarli di malinconia. Una città dove si cammina. Si cammina e basta. Dove dunque il bipede eretto torna alla sua natura, alla sua maschera nello spazio, al suo tempo che tramonta.

4 commenti

  • agbiuso

    Gennaio 2, 2019

    Segnalo un articolo dedicato a Venezia, uscito sul manifesto del 2.1.2019:
    «La città che vorrei» miti e pregiudizi intorno a Venezia
    di Marco De Vidi

    Versione in pdf

  • Pasquale

    Dicembre 22, 2018

    incendiarli di malinconia

    Dunque tra le cose che per forza ignori di chi ti scrive c’è il fattto che conosce Venezia, anche il Lido, piuttosto bene. Per essere preciso posso dire che ho conosciuto una Venezia, visto il lasso di tempo intercorso tra innumerevoli vacanze estive in casa del mio amico d’infanzia Alessandro e l’oggi. Ebbene a quel tempo Venezia mi spaventava, vacanze a parte; ciò che mi piaceva era il profumo fortissimo di pane e focaccia al mattino; sveglia alle 6:30 e subito dal fornaio a comprare il fabbisogno del giorno; poi i lunghissimi giri in bicicletta per un Lido raro, la spiaggia agli Alberoni infinita, vuota, il mare color sabbia, il caldo soffocante, le bottiglie di chinotto a raffreddarsi infiss nella battigia. E gli innumervoli viaggi in vaporino, lontano, fino a Burano, dove le donne ancora governavano l’intricata trama dei merletti sedute sull’uscio di casa. Fino a Torcello, la verde silente. A Venezia si vedevano cose meravigliose, Giorgione, Guardi, TIziano, poi a sera a cena o l’indomani mattina si doveva riferire del che cosa e del se ci era piaciuto o alla signora B*, la nonna, o a Selly, la governante vaudoise, con tante erre quanto catarro da Gauloises in gola. Tutte le donne, nonna, madre dell’amico e Selly, un gineceo, potevano aspramente sgridarci se non mostravamo, a 9 dieci anni figurati ma anche più tardi, abbastanza comprensione di quelle superbe bellezze. Osai dire, Non mi è piaciuto Canaletto; Non ti è piaciuto Canaletto, oh santo cielo ti rendi conto, alzò gli occhi e tutte la vitiligine al soffitto l’anziana B*. Mi salvai con i polittici della Ca’ D’Oro. Il gotico per fortuna piace ai bambini. A 12 anni mi comprai, risparmiando disperatamente per un anno su ogni mio introito per comprarmi una cinepresa 8 mm. Kodak a molla. 9.000 lire. Così un’estate gira e rigira girammo con l’amico un film che avrebbe dovuto iniziare con l’immagine di Venezia, di profilo, lontana, bruciata dal primo piano di un incendio. Fatta l’inquadratura, sbaglaita ovviamente, incendiammo dell’alcool davanti all’obbiettivo, la fiamma gialla e blu si estinse in pochi secondi. Nella proiezione si vedeva solo una vaga fiammella piccina piccina brillare senza motivo contro uno sfondo di brume estive serali. Il film fotografava sopratutto morti, animali morti, piccioni, gatti. Degli uomini, di preciso come adesso ma più radicalmente vedevo le difformità, nemmeno loro mi piacevano; il film era muto con una colonna sonora incongrua. Ovvio. Ma da Venezia imparai il paragone con Bruges, quella del bellissimo romanzo di Rodenbach, Bruges la morte. Tornai a Venezia più e più volte, da grande anche durante un orrendo carnevale, anche durante una Biennale autogestita. Osai chiedere l’indirizzo di Visconti a Umberto Orsini. Lo serbai a lungo. Non ne feci mai nulla. Poi qualche anno fa, In the bleak Midwinter, tornai al Lido per una giornata. Motivi di lavoro. Un vuoto fatto isola. Luce a pena. Nebbia di ghiaccio. Ombre sull’acqua. La sfilata della riva degli Schiavoni, al lume giallo dei fanali, tornando a sera. Nessun umano. Solo penombre. Oder ein Duft ohne Rest.
    Psq.

    p.s. È curioso ma credo che a fotografare Venezia dal vero sia riuscito solo Enrico Maria Salerno, in un film invernale anch’esso Anonimo veneziano.

    • agbiuso

      Dicembre 22, 2018

      Grazie, Pasquale, per questo racconto vivido e crepuscolare, futurista e proustiano. Venezia, davvero.

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