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Che era, che è e che sarà

Teatro Greco – Siracusa
Prometeo incatenato
di Eschilo
Traduzione di Roberto Vecchioni
Scene di Federica Parolini
Costumi di Silvia Aymonino
Con: Alessandro Albertin (Prometeo), Deniz Ozdogan (Io), Michele Cipriani (Efesto), Davide Paganini (Kratos), Silvia Valenti (Bia), Alfonso Veneroso (Oceano), Pasquale De Filippo (Ermes)
Regia di Leo Muscato
Sino al 4 giugno 2023

Un solo umano appare in questa tragedia. Una donna, una ragazza che però umana non è più. È stata infatti trasformata in vacca dalla gelosia di Era ed è costretta a vagare tra l’Europa e l’Asia, sospinta da un tafano che non le dà pace e sorvegliata da Argo, bovaro dai cento occhi. Vittima dunque dell’amore di Zeus, che distrugge i mortali (anche Semele, madre di Dioniso, ne è stata vittima). Ma gli umani stanno dappertutto, di loro si parla senza posa, sono una delle ragioni dell’inchiodatura del Titano alle montagne della Scizia. Anche gli umani sono infatti vittima di un dio, vittima dell’amore per loro, della filantropia, di Prometeo, senza i cui doni si sarebbero estinti: il fuoco, l’energia, la mente, la tecnica. E soprattutto il dono del futuro che si dischiude dall’ignorare la data della propria morte. Senza tutto questo, senza Prometeo, gli umani sarebbero finiti nella pace dei Trausi, sarebbero scomparsi. E invece gli ἐφήμεροι, efficacemente tradotto con «creature dalla breve luce» (vv. 83, 253, 547 e 945), sono ancora qui, a transitare effimeri nel fiume del tempo che siamo.
Giustamente dunque Zeus ha punito il Titano, al quale tuttavia deve molto della vittoria sua e degli altri dèi contro le antiche divinità della terra, del cosmo, della morte e del tempo. Prometeo viene punito senza possibilità che egli muoia; a lui, infatti, questo dono è precluso: «ὅτῳ θανεῖν μέν ἐστιν οὐ πεπρωμένον: αὕτη γὰρ ἦν ἂν πημάτων ἀπαλλαγή; perché a me dal destino non è dato di morire: perché, è vero, la morte è la fine di tutte le pene» (vv. 753-754; trad. di M. Centanni).
E invece Prometeo deve stare inchiodato lì, nelle lande più desolate del mondo, restituite sulla scena nella forma di un’archeologia industriale che produce soltanto ruggine, fuochi e stridore. Qui lo raggiungono le figlie di Oceano e Oceano stesso, tutti affranti per quanto al Titano sta accadendo.

Qui lo raggiunge Io, alla quale Prometeo predice il futuro di gloria, nonostante la penombra del male che dovrà ancora attraversare; qui lo raggiunge Ermes, che gli ordina in nome di Zeus di chiarire le inquietanti profezie dal Titano enunciate contro il dio. Ma Prometeo respinge sarcastico questa richiesta e il fuoco della Terra lo inghiotte, senza poterlo comunque distruggere.

Così si conclude Προμηθεὺς δεσμώτης; il Titano sarà poi liberato arrivando a un accordo con Zeus. Ma la sua abilità, per quanto immensa, pari a quella del sovrano del cielo, è anch’essa secondaria, è una «τέχνη δ᾽ ἀνάγκης ἀσθενεστέρα μακρῷι; un’arte di gran lunga meno potente della necessità» (v. 514); Necessità, Ἀνάγκη, è la vera signora, padrona e destino di tutto. I mortali, poi, come tutti i βίοι, come tutti i viventi, sono davvero il limite dell’essere, il confine del niente, una goccia del tempo, un riflesso di luce, il luogo dove la materia, gli atomi, le molecole, trovano velocemente la propria dissipatio, la μεταβολή, la trasformazione incessante nell’alterità della morte per tornare al carbonio primordiale, al residuo delle stelle dalla cui potenza anche i viventi sono stati generati.
Alla pretesa di Zeus di dominare l’intero, alla pretesa di Prometeo di salvare gli ἄνθρωποι, risponde con il suo fragoroso silenzio la ὕλη, la Materia, che del Tempo è l’altro nome. Prima degli ἐφήμεροι stanno le potenze gorgoglianti e senza fine, le «Μοῖραι τρίμορφοι μνήμονές τ᾽Ἐρινύες; le Moire dai tre volti e le Erinni, demoni della Memoria» (v. 516) e le «Φορκίδες ναίουσι δηναιαὶ κόραι / τρεῖς κυκνόμορφοι, κοινὸν ὄμμ᾽  ἐκτημέναι, / μονόδοντες,  ἃς οὔθ᾽ ἥλιος προσδέρκεται / ἀκτῖσιν οὔθ᾽ ἡ νύκτερος μήνη ποτέ; Forcidi, le tre vecchissime fanciulle dall’aspetto di cigno, che hanno un occhio solo fra tutte e un dente per una; mai si espongono ai raggi del sole, mai alla luce della luna notturna» (vv. 794-797).
Eschilo è questo accenno all’indicibile, all’incomprensibile, all’unione di tenebra e luce, alla potenza che era, che è e che sarà. Eschilo è il fondamento.

[Le immagini sono di Davide Amato e Sarah Dierna]

Medea, la maga

Teatro Greco – Siracusa
Medea
di Euripide
Traduzione di Massimo Fusillo
Scene di Marco Rossi
Costumi di Giovanna Buzzi
Con: Laura Marinoni (Medea), Alessandro Averone (Giasone), Debora Zuin (nutrice), Francesca Giochetti (prima corifea), Roberto Latini (Creonte), Luigi Tabita (Egeo)
Regia di Federico Tiezzi
Sino al 24 giugno 2023

È un male per gli umani l’amore. Questa verità antica e discussa viene enunciata da Medea, che non parla di sé soltanto ma degli effetti universali e spesso nefasti che un sentimento di possesso così esclusivo comporta e produce. Medea è una maga dei veleni e del linguaggio. Sa porsi a un livello dialettico assai alto nel confronto retorico con Giasone durante il quale i due sposi cercano di sovrastare l’uno le ragioni dell’altro con le proprie. E sono ragioni tutte razionali, ragioni tutte etiche. Anche questo fa la grandezza del filosofo/drammaturgo Euripide: aver reso inestricabile nei suoi testi la mescolanza tra il più raffinato ragionare e la più estrema violenza fisica, in una guerra dialettica e materica che soltanto nei Greci ha potuto giungere a unità.
Mentre i moderni hanno separato del tutto la razionalità diventata cartesiana e il sentimento diventato romantico, in Euripide si tratta di due aspetti della stessa struttura, di due modi d’essere che transitano senza posa l’uno nell’altro e che non costituiscono dunque – come vorrebbe Nietzsche – la fine della tragedia ma forse, al contrario, il suo più splendente e oggettivo inveramento.
«Selvaggia, totale, cieca e illuminata, feroce, sapiente delle passioni. […] Questo è Medea. Intrisa di un sentimento potente, la vendetta. Medea è tale passione fatta carne, intelligenza, azione. Fatta gioia» (Chronos. Scritti di storia della filosofia, p. 51).
Una gioia tanto sicura quanto inquieta, tanto incerta quanto alla fine solare mentre sul carro celeste che la porta verso Atene Medea rivolge all’annichilito Giasone, al quale ha ucciso i due figli con lui generati, parole di saggezza e di disprezzo:
«Alle tue parole potrei certo opporre lunghe repliche, se il padre Zeus non sapesse sia quello che avesti da me, sia quello che m’hai fatto tu. Non potevo permettere che tu, spregiato il letto mio, te la godessi allegramente, facendoti beffe di me, né che la tua sposa regale e Creonte, che a te la diede in moglie, mi cacciassero via da questa terra impunemente. Dopo questo dì pure, se vuoi, che sono una leonessa o la Scilla che sta lungo il Tirreno: in ogni caso t’ho colpito al cuore (τῆς σῆς γὰρ ὡς χρῆν καρδίας ἀνθηψάμην)» (v. 1360, trad. di Filippo Maria Pontani).
E al cuore da millenni vengono colpiti anche gli spettatori e i lettori di questa vicenda estrema, alla quale la traduzione di Massimo Fusillo offre un linguaggio immerso nella contemporaneità e ricco di riferimenti anche impliciti; Conrad ad esempio, che in Hearth of Darkness così descrive un’altra estrema forza umana e materica: «His stare […] was wide enough to embrace the whole universe, piercing enough to penetrate all the hearts that beat in the darkness. He had summed up -he had judged. “The horror!”»  (Dover Publications, New York 1990, p. 65) .
Non è casuale o frutto soltanto di scarsa educazione teatrale se in occasione di questa rappresentazione siracusana da un certo momento in poi gli spettatori, per lo più folle di studenti medi e liceali, abbiano cominciato ad applaudire quasi a ogni discorso dei personaggi. Era anche un tentativo (inconsapevole, ovviamente) di neutralizzare con la banalità e la familiarità dell’applauso l’orrore al quale stavano assistendo.

Volontà di sapere

Teatro Greco – Siracusa
Edipo Re
di Sofocle
Traduzione di Francesco Morosi
Scene di Radu Boruzescu
Con: Giuseppe Sartori (Edipo), Rosario Tedesco (capo coro), Graziano Piazza (Tiresia), Paolo Mazzarelli (Creonte), Maddalena Crippa (Giocasta)
Regia di Robert Carsen
Sino all’1 luglio 2022

Pervaso dalla volontà di sapere, intriso della passione dell’indagare, ossessionato dal bisogno di fare luce. Così Edipo rovina se stesso e la propria casa. C’è qualcosa di estremo e arrogante in questa necessità di portare a evidenza ogni anfratto degli eventi. Un’esigenza di comprensione che si volge contro chi la nutre. Ma che è greca, profondamente greca. Uomini furono che vollero conoscere. E conobbero. E che di fronte a ciò che avevano appreso dissero parole talmente  chiare da essere sempre e ancora nostre, sempre e ancora vere nell’affermare che nessun umano potrà essere detto sereno sino a quando in lui pulserà ancora la vita (ὥστε θνητὸν ὄντα κείνην τὴν τελευταίαν ἰδεῖν / ἡμέραν ἐπισκοποῦντα μηδέν᾽ ὀλβίζειν, πρὶν ἂν / τέρμα τοῦ βίου περάσῃ  μηδὲν ἀλγεινὸν παθών, vv. 1528-1530).
Il Tempo che vede tutto apre infine gli occhi a Edipo; Apollo, dio crudele, lo invade della propria luce di conoscenza; Necessità fa sì che ciò che deve accadere accada al di là anche del silenzio e delle parole di Tiresia. Convocare il quale è stato il primo gesto del lento processo di agnizione di Edipo. Tiresia gli consiglia di rinunciare a sapere, Giocasta gli consiglia di rinunciare a sapere, il vecchio servo che lo aveva tenuto in fasce gli consiglia di rinunciare a sapere. Ma Edipo, no. Edipo indaga. Si dichiara persona estranea ai fatti che condussero alla morte di Laio. Estraneo, lui. Si dice alleato del dio Apollo e del morto Laio. E fa luce. Una luce trionfale che gli regala un ultimo atto di gloria da parte della città che una volta ha salvato, un attimo intriso non a caso di Evoè, il canto vittorioso di Dioniso (è questo il momento colto nell’immagine in alto). Una luce straziante che lo farà tornare in scena completamente nudo, intriso del sangue dei propri occhi e di quello di Giocasta suicida.
Appaiono e scompaiono i sovrani -Edipo, Creonte, Giocasta- lungo l’alta scalinata che dalla piazza di Tebe ascende all’alto della reggia e degli dèi. Piazza dentro la quale appaiono nella scena iniziale i cittadini durante una processione luttuosa e fatta di nero. Processione scandita da una cadenza dell’oltre, l’oltre della morte e della vita.
Una scenografia essenziale e suggestiva, dunque. Nient’altro che la piazza e la grande scala. Per dare spazio alla voce di Sofocle, ai corpi degli attori, alla meditazione su quanto sia preferibile non essere nati e, una volta nati, morire bambini, come Edipo afferma e desidera al culmine del proprio destino.
Quest’uomo, questo re, non ha alcuna colpa, perché non sapeva di essere l’omicida di Laio e lo sposo di sua madre. Ma l’intenzione è un concetto che per i Greci conta ben poco. A pesare è il danno oggettivo che l’agire di Edipo ha inferto alla città, il danno oggettivo che chiunque può infliggere. È a motivo del danno che si deve essere neutralizzati, non della volontà di far male o far bene. La volontà è semplice e insindacabile psicologia, il danno è una realtà oggettiva.
Questo, alla fine, la luce portata da Edipo ci fa vedere. Nella volontà di sapere, per quanto dolorosi risultino i suoi esiti, splende in ogni caso la libertà dei Greci, la loro intelligenza rispetto alla bêtise contemporanea, alla stupidità di ogni sistema etico-linguistico che assurga a valore assoluto, che proibisca le parole e i loro significati a volte terribili. Stupidità dall’esito fatale: «Non ti accorgi che il principale intento della neolingua consiste proprio nel semplificare al massimo la possibilità del pensiero? Giunti che saremo alla fine, renderemo il delitto di pensiero, ovvero lo psicoreato, del tutto impossibile perché non ci saranno parole per esprimerlo. […] Ortodossia significa non pensare, non aver bisogno di pensare. L’ortodossia è non-conoscenza» (Orwell, 1984, trad. di G. Baldini, Mondadori 1989, pp.  56–57). Un’ortodossia che per i Greci è soltanto tenebra.

Ate, il suo inno

Teatro Greco – Siracusa
Agamennone
di Eschilo
Traduzione di Walter Lapini
Scene di Davide Livermore, Lorenzo Russo Rainaldi
Video design: D-Wok
Musici: Diego Mingolla, Stefania Visalli
Con: Laura Marinoni (Clitennestra), Sax Nicosia (Agamennone), Linda Gennari (Cassandra), Stefano Santospago (Egisto), Spettro di Ifigenia (Carlotta Messina, Maria Chiara Signorello), Corifea (Gaia Aprea)
Regia di Davide Livermore
Sino al 5 luglio 2022

La cifra stilistica è naturalmente sempre quella che lo scorso anno caratterizzò Coefore / Eumenidi, anche se la declinazione è un poco diversa, più sobria. Sobria compatibilmente con le intenzioni di Livermore, che anche in questo caso travalica non soltanto Eschilo ma proprio l’idea greca del teatro. Nel preciso senso che la presenza del regista diventa preponderante e la formula registica potrebbe essere applicata a qualunque testo di qualsiasi epoca. Una notte, insomma, in cui tutti gli spettacoli sono uguali. Il coro è formato, tra gli altri, da generali più o meno paralitici e in ogni caso vecchissimi. I gesti sono meccanici, artificiosi, esagerati. Compaiono ovunque fantasmi, una figura evidentemente cara a Livermore. In questo caso nelle fattezze di due bambine che rappresentano il fantasma della Ifigenia sacrificata dal padre Agamennone e della cui morte la madre Clitemnestra appunto si vendica massacrando il marito e la nuova schiava/concubina Cassandra.
Coerente e interessante è invece l’idea di accompagnare l’intero spettacolo con la musica. Si parte da livelli alti, dai più alti, vale a dire da Bach ma si conclude con gli attori che eseguono una canzone accettabile ma che ancora una volta nulla c’entra. Se questo regista ama il musical perché non mette in scena dei musical?
Ma ancora una volta la parola di Eschilo sopravvive e vince.
Vince nel comprendere che «ἐγρηγορὸς τὸ πῆμα τῶν ὀλωλότων, si risveglia sempre il dolore dei morti» (v. 346, questo e gli altri versi vengono citati nella traduzione di Monica Centanni), che coloro che non sono più possiedono ancora la forza di legare a sé il destino dei vivi, nell’infinita serie di cause e legami che costituisce l’esistere.
Vince nel pieno splendore della Necessità, ben conscia che quanto sta accadendo è «μοῖρα μοῖραν ἐκ θεῶν, Moira contro Moira» (v. 1026), è l’inno originario di Ἄτη, «πρώταρχον ἄτην», le sue parole che -«ἐν μέρει δ᾽ ἀπέπτυσαν, cantano il canto della colpa originaria» (v. 1192).
Vince dicendo con chiarezza dall’inizio alla fine che la stirpe degli Atridi, «κεκόλληται γένος πρὸς ἄτᾳ, questa stirpe è legata con le catene di Ate» (v. 1566) e che pertanto tutto accadrà di ciò che deve accadere: infanticidio, matricidio, vendetta, giustizia. Nulla sfugge all’occhio gorgogliante di Erinni.

[Aggiungo queste poche parole stimolate dall’Agamennone di Livermore a quelle che la lettura del testo mi indusse a pensare: Distruzione a distruzione]

Socrate, la paura

Teatro Greco – Siracusa
Nuvole
di Aristofane
Traduzione di Nicola Cadoni
Musiche di Germano Mazzocchetti
Scene e costumi di Bruno Buonincontri
Con: Nando Paone (Strepsiade), Antonello Fassari (Socrate), Massimo Nicolini (Fidippide), Stefano Santospago (Aristofane), Galatea Ranzi e Daniela Giovanetti (Corifee), Stefano Galante (Discorso Migliore), Jacopo Cinque (Discorso Peggiore)
Regia di Antonio Calenda
Sino al 21 agosto 2021

«La terra si imbeve tutta del succo del pensiero». Questo è ciò che le nuvole producono, questo l’effetto della pioggia di parole che spaventa Aristofane, che lo induce a presentare Socrate e il suo ‘pensatoio’ nella maniera peggiore possibile ma che in questo modo esalta la forza irresistibile delle parole e del pensiero.
In questo tradizionalista affascinato dal caos che il dire e il pensare rappresentano di fronte all’ordine autoritario della città, si esprime tutta la paura che gli ateniesi nutrivano verso la filosofia, la paura che qualunque città antica o moderna nutre verso il pensare che non si acconcia a diventare megafono, strumento, ornamento e zerbino di chi comanda. Ė per questo che Socrate è morto, giustiziato dai bravi cittadini della giuria di Atene. Ė per questo che dopo di lui altri filosofi sono stati perseguitati, calunniati, uccisi, da Giordano Bruno a Galilei, da Spinoza a Heidegger. Ė per questo che Aristofane è un bel paradosso, che della filosofia mostra la debolezza e la potenza.
Al di là, infatti, delle battute scontate e sconce che descrivono Socrate e i suoi allievi come degli zombie, dei ladri, degli spostati, il cuore della commedia è Zeus, è il presunto «ateismo» dei filosofi, il loro voler sovvertire la πóλις con spiegazioni razionali e ‘meteorologiche’ del cielo, della pioggia e delle nuvole; con la trasformazione del discorso peggiore nel discorso migliore; con la distanza dal solido buon senso rurale di Strepsiade.
La filosofia non ha dogmi, non ha valori, non obbedisce. Nel suo feroce attacco a Socrate, il commediografo riconosce a lui e alla filosofia la potenza di questa libertà.
La messa in scena di Antonio Calenda è rispettosa di tale complessità di strati, modi e intenzioni del testo. Al centro c’è la traduzione di Nicola Cadoni, caratterizzata dal tentativo di riprodurre la musica dell’antica lingua greca; dal calco dei giochi di parole; dai ripetuti accenni alla politica contemporanea e soprattutto dall’ardita decisione di tradurre numerosi passi con i versi di Manzoni, Leopardi, Alighieri, con autori del Settecento, con Totò e Pasolini. Una scelta che mostra la continuità poetica dai Greci al presente. A conferma della continuità politica della filosofia europea, che è dissacrante di ogni certezza e conformismo oppure, semplicemente, non è.
Il paradosso Aristofane è anche questo: la reductio di Socrate al relativismo sofistico ma anche la conferma che c’è una dimensione della filosofia – e soltanto della filosofia – irriducibile al relativismo: la sua libertà, il suo respiro, l’impalpabile potenza delle nuvole.

In forma dunque di vermiglia rosa

Teatro Greco – Siracusa
Baccanti
di Euripide
Traduzione di Guido Paduano
Con: Lucia Lavia (Dioniso), Ivan Graziano (Penteo), Antonello Fassari (Tiresia), Stefano Santospago (Cadmo), Linda Gennari (Agave)
Regia di Carlus Padrissa (La Fura dels Baus)
Sino al 20 agosto 2021

I nomi degli dèi e dei mortali che dal χάος da cui tutto sgorga pervengono infine a Dioniso e a Penteo compaiono alcuni subito e altri a poco a poco sulla superficie spazzata dai passi e dal vento. Immediato è invece l’irrompere sulla scena delle Menadi con il loro grido dell’orgia, εὐοῖ, evoè! Le Menadi, le Baccanti, stanno al centro di questa corale messa in scena dell’opera di Euripide. Una scelta saggia a indicare il cuore collettivo della festa e della ferocia umane. Espresse mediante lo spazio totale del teatro, lo spazio del teatro che si fa totale –Gesamtkunstwerk– attraverso i suoni, le percussioni, le danze, le voci che restituiscono la gloria degli dèi e la loro forza, antiche come il tempo.
E soprattutto, tratto caratterizzante la Fura dels Baus, mediante le imponenti macchine che portano attori e personaggi per l’aere, nelle contrade assolute, nell’aperto spazio del mito che dalla terra sale al cielo e poi dal cielo ridiscende nella polvere. I due principi del mondo sono infatti Demetra, la terra, il secco e Dioniso, l’umido, il succo della vite che dà ai mortali l’oblio dei loro mali. Non esiste altro rimedio al dolore d’esserci e del fare. Sia al povero sia al ricco, Dioniso concede il piacere del vino che libera dal dolore. Astemio, stitico, schematico e ultramoralista, Penteo invece non riconosce questa leggerezza, entra in scena portando con sé tre pesanti massi, offende, disprezza e illusoriamente incatena lo Straniero che parla in nome di Dioniso, lo Straniero che è Dioniso. La furia del dio, la sua vendetta, come si sa, saranno terribili. E meritate. La testa / prigione che domina sin dall’inizio la scena si trasforma nella testa vuota di un mortale che non vuole capire la forza inarrestabile del desiderio, del sesso e del sorriso, rimanendo nella tristezza dell’autocontrollo, della castità e della smorfia pudica intrisa di paura. Per diventare infine la testa mozzata e insanguinata che la baccante Agàve mostra con gioia dopo aver fatto a pezzi il proprio figlio.
Carlus Padrissa e la Fura dels Baus sono stati da sempre euripidei, da sempre utilizzano l’ἀπὸ μηχανῆς θεός, il deus ex machina che fa scendere, muovere e salire l’umano e il divino nello spazio della scena. Il loro Imperium, ad esempio (al quale avevo partecipato a Milano in compagnia di Mario Gazzola), era costruito come spazio affollato dagli spettatori, direttamente coinvolti nelle vicende e nella violenza rappresentata. Uno spazio dentro il quale si elevano piramidi, gru, corde. Da queste geometrie si staccano i soggetti del dominio, nel doppio genitivo di chi ordina e di chi subisce. Donne dai cui corpi si sprigiona la sensualità, l’implacabilità, la fecondità del comando. In Imperium la musica restituisce la raggrumata densità dei movimenti scenici, che sembrano tornare alla semplicità del gesto primordiale, quello che fonda insieme natura e civiltà, che dà e riceve morte, perché altro nelle cose non sembra darsi se non questa furia dei corpi.
Era già quello dunque uno spettacolo dionisiaco che in Baccanti diventa un’enorme forma antropomorfa (Semele / Zeus) dal cui ventre esce il dio bambino, con l’attore / Dioniso che precipita investito dalle acque del parto che si rompono. Dinamismo che raggiunge il culmine in gru e corde con le quali il Coro e le Menadi si avvicinano e si allontanano, si addensano e si espandono, dando ogni volta forma e vita al fiore del cosmo pulsante di potenza e desiderio.
«In forma dunque di vermiglia rosa / mi si mostrava la corale sacra / che nel suo sangue Bacco fece sposa», si potrebbe dire guardando la gloria delle Menadi librarsi e parafrasando per esse Alighieri (Paradiso, XXXI, 1-3).
Peccato solo che Dioniso appaia coinvolto nelle vicende di Tebe con gesti e gridolini che nulla hanno ovviamente del dio, il quale «ὃς πέφυκεν ἐν τέλει θεός, / δεινότατος, ἀνθρώποισι δ᾽ ἠπιώτατος; ‘è dio nel pieno senso, ed è terribile, ma più d’ogni altro con gli uomini è mite», come egli stesso tiene a dichiarare (Βάκχαι, vv. 859-861, trad. di Filippo Maria Pontani). Dioniso uccide sorridendo. In Euripide (e sempre) questo dio è una maschera ironica e distante, braccia spalancate, voce gorgogliante dall’inquietudine della terra. Una scelta di coinvolgimento isterico, come invece ha voluto qui il regista, è completamente sbagliata. Tale limite non inficia comunque la profondità e la bellezza di una messa in scena delle Baccanti imponente, coraggiosa e visionaria.

 

Gangster

Teatro Greco – Siracusa
Coefore / Eumenidi
di Eschilo
Traduzione di Walter Lapini
Musiche di Andrea Chenna
Scene di Davide Livermore, Lorenzo Russo Rainaldi
Video design: D-Wok
Con: Giuseppe Sartori (Oreste), Anna Della Rosa (Elettra), Laura Marinoni (Clitennestra), Stefano Santospago (Egisto), Maria Laila Fernandez, Marcello Gravina, Turi Moricca (Le Erinni), Olivia Manescalchi (Atena),  Giancarlo Judica Cordiglia (Apollo), Maria Grazia Solano (la Pizia), Sax Nicosia (voce e immagine di Agamennone)
Regia di Davide Livermore
Sino al 31 luglio 2021

Un’opera lirica. Con musicisti e pianisti sulla scena e con le voci intense delle Coefore a gorgogliare il dolore. Con, in un momento della trama, in sottofondo anche le musiche di Memorial di Nyman.
La Madre Terra dalla quale tutto sgorga. La Notte, che ha generato le Erinni, la Moira, la Furia. È nelle loro mani il destino degli umani. È nelle mani, negli sguardi, nella profondità di queste potenze sovrane dell’oscurità, accompagnate dal Coro che narra atroci vicende. Le quali però con una progressione di implacabile razionalità trasformano la giustizia della Vendetta nella giustizia dei Tribunali. Per volontà di Apollo e di Atena, vale a dire di Zeus. E così nasce la città umana, la πόλις. Così Eschilo. La sua energia.
Tutto questo diventa invece nel progetto e nella regia di Davide Livermore una parodia. Una parodia nella forma spesso di un musical. Come nella orrenda canzoncina finale. Volontà parodistica che, attenuata, funzionava nella Elena di due anni fa, che di per sé è una tragedia assai particolare, dalla tonalità più lieve e con un lieto fine. Ed è Euripide. Qui invece è Eschilo, che significa la fondazione stessa del mondo sulla materia violenta dei corpi. Non a caso, invece, i corpi degli ateniesi chiamati a stabilire giustizia tra Oreste e le Erinni sono delle sagome metalliche accese di fuoco e spente di esistenza. E se Apollo e le Erinni lottano in un corpo a corpo non soltanto verbale ma proprio fisico, lo fanno dopo essere apparsi le une in dorati abiti da sera sberluscenti e l’altro in tenuta da cameriere d’alto bordo. Non solo. Apollo parla proprio con il birignao dei padroni dei camerieri d’alto bordo. Mani in tasca. Atteggiamento svagato. Dizione strascicata.
Così come Atena e altri personaggi, immersi in una recitazione da commediola novecentesca, nella quale le parole di Eschilo rischiano semplicemente il naufragio. Atena, inoltre, è doppia. Una elegante signora che declama e poi una giovane modella in posa, che fa -alla lettera- la bella statuina. Per concludersi tutto, insieme alla ricordata canzonetta finale, sulle immagini di Aldo Moro nella Renault, delle stragi di Bologna e di Capaci e altre italiche tragedie.
Perché è grave? Perché mostra da parte del regista una radicale sfiducia in Eschilo e nella tragedia. Come se le parole dei Greci avessero bisogno di essere ‘attualizzate’ da questi abiti, da questa recitazione, da queste immagini. E dalle pistole. Sì, ci sono anche delle pistole utilizzate a destra e a manca come nei cartoni animati, nei quali le vittime della pistolettata risorgono pimpanti per essere di nuovo colpite.
Eschilo è ‘attuale’ sempre. Lo è perché sa che di fronte alla Necessità siamo tutti servi. Perché sa che il sangue/biologia non può essere cancellato da nessun pensiero/volontà ma, semmai, soltanto attenuato e indirizzato. Livermore sembra invece condividere il puro culturalismo contemporaneo, uno dei maggiori equivoci del presente. E dei più superficiali.
L’elemento più radicale, più greco e più bello di questa messa in scena è la sfera/video che accompagna l’intero spettacolo, che genera di continuo forme e colori di pece, di fuoco, di oceani, di magma, di Soli, di fango. E che diventa anche lo spettro di Agamennone, il velato, la voce, lo stridore dei morti. Se gli attori -è un’iperbole ovviamente- si fossero semplicemente limitati a leggere Eschilo sullo sfondo di tale sfera e vestiti come noi tutti, la tragedia sarebbe stata tragedia. Perché la potenza delle parole e dei pensieri di Eschilo vince anche sulle trovate di Livermore, sulla riduzione dei Greci a volgari gangster degli anni Venti del Novecento. Le parole di Eschilo.

«Ho ottenuto il successo:
legare spietate,
possenti creature divine ad Atene.
È loro campo fatale reggere
l’universo umano: chi non ebbe mai caso
d’incrociarle rabbiose, ignora
la fonte dei colpi che devastano la vita»

(Coefore, vv. 928-934, trad. di Monica Centanni)

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