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Nonostante il dualismo

Nonostante
di Valerio Mastandrea
Italia, 2024
Con: Valerio Mastandrea, Dolores Fonzi, Lino Musella, Laura Morante, Giorgio Montanini
Trailer del film

In coma, certo. Sono in coma i protagonisti del film, soprattutto lui (nessuno di loro ha un nome). E però mentre il corpo giace intubato la loro personalità in forma somatica va in giro per l’ospedale, esce, ritorna. Reciprocamente si riconoscono ma nessuno dei sani li vede, li percepisce, li sente, può entrare in contatto con loro né loro con gli altri. Tranne un volontario che suona e canta per aiutare i degenti in coma a risvegliarsi.
Lui si trova bene in quel luogo, nella sua stanza, che ormai è diventata casa. Lo accompagnano un altro paziente, affezionato ma anche conflittuale, e una veterana del coma. Tutto scorre più o meno uguale sino a che arriva lei e fra i due inizia un rapporto di singolare attrito e singolare amore.
Quando un malato si sveglia dimentica tutto questo, come se non ci fosse mai stato, come se non fosse accaduto. Lui e lei non vogliono dimenticarsi ma la loro condizione e situazione appare tanto paradossale quanto fragile.
Se questi particolarissimi malati si avvicinano a qualcuno che sta per morire, li investe un vento impetuoso, tanto che devono aggrapparsi a qualcosa per non volare via. Al momento della loro morte il vento diventa tempesta e ciò che di essi appare vola nello spazio, sino a schiantarsi da qualche parte.
Nonostante il dualismo tra anima e corpo che del film è l’evidente chiave e condizione, Nonostante è un’opera coraggiosa, delicata, molteplice, capace di coniugare paradosso, ironia, sentimento, dramma. Il coraggio sta nel descrivere il morire, o la condizione di morienti, come del tutto inscritto nella condizione del vivente, come suo inevitabile scopo, stabilito sin dall’inizio nella cellula originaria, nello zigote.
Dalla narrazione cinematografica alla psicologia e poi alla biologia e infine all’ontologia, ciò che va accettato e compreso è che quanto oggi esiste, in ogni caso non sarà più. Ciò che è stato cadrà nel nulla, al quale l’essere stato non risparmierà in nessun modo, grado e misura la dissoluzione. E, soprattutto, il tessuto quotidiano dei giorni e l’angoscia del dover morire non saranno in alcun modo intaccati dal sapere che si è stati.
Tale è la struttura di tutto ciò che esiste: tempo che da se stesso e in se stesso trova ed esplica il proprio divenire nel tessuto inarrestabile e potente della materiamondo. La quale è eterna, nonostante il banale ed effimero incidente che chiamiamo coscienza. Un poco di vento basterà a dissolverla.

Contro la nascita

Contro la nascita
il Pequod
anno V, numero 10, dicembre 2024
pagine 38-51

Indice
1 βίος
2 Strategie
3 Una tragedia ridicola
4 Entropia e DNA
5 Oltre la vita, la materia
6 Il mondo è perfetto

«Chi genera un umano genera un condannato a morte. Il quale non soltanto morirà ma lungo tutto il corso del suo esistere dovrà sostenere difficoltà, inquietudini, malattie, pianti. Una simile azione non può che essere definita come frutto di egoismo supremo. Certo, essa viene compiuta in obbedienza a un potente ordine del βίος, dell’impulso che guida ogni entità vivente a riprodurre se stessa e tramite se stessa far sopravvivere la specie alla quale appartiene. Per sottrarsi a una simile forza è necessaria molta consapevolezza, molta tenacia, molta razionalità. Ma appunto tale è l’esistenza che la pratica filosofica regala, un’esistenza fatta anche e specialmente di consapevolezza, tenacia, razionalità. Questo è ciò che Homo sapiens può fare: sottrarsi al demone della nascita, all’imperativo della specie, all’ordine della morte.
[…]
Il mondo in quanto tale, al di là dei viventi, è un’energia e un destino che accadono senza dolore, come senza dolore esistono e accadono ‘la roccia o il mare, una cosa sorda e refrattaria, qualcosa che non può soffrire perché non conosce sofferenza: né quella che lui dà agli altri né quella che gli altri dànno a lui’ (Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca). Il mondo è perfetto ovunque non ci sia nascita organica ma si dia la potenza senza dolore della materia e del tempo».

[Considero questo uno dei testi fondamentali del mio percorso. Poche pagine nelle quali ho cercato di riassumere quanto ho compreso della materia e dell’esserci. Spero che i miei amici vorranno leggerlo e conservarmi la loro amicizia, soprattutto gli amici che hanno avuto dei figli 🙂 .
In ogni caso, la tesi più importante che il saggio intende argomentare è che il mondo è perfetto. Espressione che va presa alla lettera. È dunque un testo dalla tonalità del tutto positiva]

La Madre

Mother, Couch
(Divano di famiglia)
di Niklas Larsson
USA, Danimarca, Svezia 2023
Con: Ewan McGregor (David), Ellen Burstyn (la madre), Rhys Ifans (Guffrud), Taylor Russell (Bella), Lara Flynn Boyle (Linda), F. Murray Abraham (Markus / Marco)
Trailer del film

Per dei mammiferi la madre è tutto. E non soltanto per i cuccioli di Homo sapiens che nascono in una cultura mediterranea, dove la Grande Madre è la vera divinità (la Madonna cattolica è questo) e dove, all’opposto di quanto affermano tesi che rimangono alla superficie delle dinamiche sociali, la struttura delle comunità è sostanzialmente matriarcale (la più parte dei figli di origine siciliana potrà darne conferma). La questione è più profonda: la madre è il legame con la vita stessa (come è ovvio), con il clan, con la casa, con la filogenesi. La madre è tutto.
E lo è anche e soprattutto quando il suo comportamento risulta scostante e l’atteggiamento poco affettuoso, come per la madre di questo film, la quale non aveva desiderato i suoi figli – e apertamente glielo comunica –  e non nutre affetto neppure verso i nipotini. Una madre che ha avuto i suoi tre figli da tre uomini diversi. Il figlio più giovane, David, è il più dedito a lei. E lo rimane anche quando, imprevedibilmente, la signora ultraottantenne non intende alzarsi dal divano di un negozio di arredamento. I figli, uno dopo l’altro, cercano di convincerla ad alzarsi e a tornare a casa. Ma non c’è niente da fare. Prima per delle ore e poi giorno e notte la madre rimane lì, reagendo con furore a ogni tentativo di condurla via. In un momento di quiete, consegna a David la chiave di una cassettiera dicendogli che è giusto che sia lui ad averla e ad aprirla. Questo mobile contiene la spiegazione di molti eventi, di molto dolore. A poco a poco tutta la vicenda assume una dimensione onirica che è l’espressione della interiorità di David. Lo è anche la madre. Il negozio si trasforma in un luogo di passaggio dalla solidità della terra al mistero delle acque, dalla vita alla morte, dal presente alla memoria.
È un film plurale, questo di Niklas Larsson. Un film che è commedia ed è dramma, che è la desolazione di un negozio sperduto nelle lande statunitensi ed è però anche un luogo sacro, i cui proprietari, due fratelli gemelli e la bella figlia di uno di loro, si rivelano assai più che dei commercianti essendo invece figure del destino. Il sogno, l’incubo e la pace mi hanno ricordato Una pura formalità (1994), il capolavoro di Giuseppe Tornatore.
Protagonista di Mother, Couch è il figlio, il quale però vive dentro l’anima della madre. Come molte delle sue simili, essa non tollera concorrenza, competizione, collaborazione. I figli sono suoi, frutto delle sue viscere, portati per mesi nel ventre, dati con dolore alla luce, specchio riflesso della sua natura.
E invece la Madre va uccisa, se vogliamo vivere. Essa deve diventare una persona qualsiasi della famiglia. Non bisogna permetterle di raggiungere il suo scopo: essere la Grande Madre che controlla i tempi, gli affetti, i progetti degli altri. La Grande Madre è la Gorgone che paralizza, è la Vergine Maria che rende ogni Giuseppe un individuo ridicolo e patetico, è l’Angelo del focolare che brucia le anime dei figli, è la Potenza della Terra che si apre a inghiottire nel proprio utero i corpi che da esso sono usciti. Che stritoli i nati nel proprio affetto o che dia loro l’angoscia dell’abbandono, la Grande Madre è la Morte.
Come la madre di Citizen Kane, la Signora di questo film ha abbandonato la prole, anche se lo ha fatto in modo diverso. La dimensione tragica, greca e gnostica del capolavoro di Orson Welles diventa qui una commedia nera. Ma in ogni caso ha ragione Baudrillard: «Fallo vivente della madre, tutto il lavoro del soggetto perverso consiste nell’installarsi in questo miraggio di se stesso e trovarvi l’appagamento del suo desiderio – in realtà appagamento del desiderio della madre. […] Processo identico a quello dell’incesto: non si esce più dalla famiglia» (Lo scambio simbolico e la morte [1976], Feltrinelli 2007, p. 127). Uscire, affrancarsi da lei, dalla Madre, è dunque liberarsi dalla perversione, è vivere. Finalmente lontani dal grembo di tenebra che anche questo film intuisce e comunica.

Il giudice e il suo boia

Friedrich Dürrenmatt
Il giudice e il suo boia
(Der Richter und sein Henker, 1952)
In «Romanzi e racconti», a cura di Eugenio Bernardi
Traduzione di Enrico Filippini
Einaudi-Gallimard, 1993
Pagine 7-91

«Che cos’è l’uomo? Che cos’è l’uomo?» (p. 55) si chiede il Commissario Bärlach (e con lui Dürrenmatt). Le possibili risposte sono assai numerose, diverse, anche molto diverse. L’uomo è un enigma semplice. I movimenti che lo agitano sono infatti sempre gli stessi e ormai sono ben conosciuti. Le passioni che lo intridono sono antiche e anche un poco ripetitive. La gelosia, ad esempio. Una delle passioni più diffuse nelle relazioni umane, insieme all’invidia. Invidia e gelosia sono passioni che hanno una legittima funzione anche etologica ma che non per questo, almeno al livello di consapevolezza e di civiltà al quale siamo arrivati, sono meno meschine.
Un uomo diventa talmente «geloso delle capacità, del successo, della cultura, della ragazza» (88) di un altro uomo da non vedere più davanti a sé che l’eliminazione dell’oggetto della sua gelosia.
Un altro uomo è così convinto della propria legittimità al dominio da cominciare a uccidere soltanto per vincere «la scommessa» di «commettere un delitto in tua presenza senza che tu fossi in grado di provarlo» (53).
Le diverse passioni di questi umani deflagrano quando in un piccolo perimetro della Svizzera intorno al Giura e a Berna un tenente di polizia viene trovato ucciso nella propria auto con un colpo alla tempia, in una stradina vicina a un bosco. Comincia allora l’opera del Commissario Bärlach, intramata e intessuta del «male [che] l’aveva sempre ripreso nel suo cerchio, il grande enigma, una fascinosa tentazione di risolverlo» (29).
Di fronte alle persone che del male si fanno veicolo e sostanza, davanti al loro agitarsi o al loro autocontrollo, al loro freddo sudore o a una fragorosa risata, gli occhi di Bärlach diventano «come pietre» (36), si fanno «calma sovrumana, una tigre che giuoca con la vittima» (87), si erigono a giudice che condanna il colpevole e conduce alla morte anche il suo boia: «Ti ho già giudicato, ti ho condannato a morte. Tu non vivrai oltre questa sera. Il boia che ho scelto per te verrà oggi a cercarti» (77).
Nell’apparenza di un vecchio commissario malato, al quale i medici non danno più di un anno di vita, Bärlach è un demone guidato dall’ossessione della vendetta e della giustizia, di una vendetta che è giustizia; è un antropologo che sa come nell’umano «sono sempre possibili due cose, il bene e il male, è il caso che decide» (63); è un’entità che sta «al centro della stanza, in una solitudine gelida e remota, immobile e impassibile» (69); è «un cuore lacerato da un fuoco feroce», la cui «unica grazia» è dimenticare (84).
Molto al di là del ‘poliziesco’ e tuttavia in esso perfettamente a suo agio, lo sguardo e la scrittura di Dürrenmatt hanno disegnato in Bärlach la luce e il silenzio della materia, luce e silenzio protagoniste dell’incontro con il cadavere del suo nemico: «La luce era comune a tutti, anche a loro due, era stata creta per loro, ora li riconciliava. Il silenzio del morto penetrò in Bärlach, gli si insinuò nel sangue, ma non gli dava pace, come invece l’aveva data all’altro. I morti hanno sempre ragione» (83). Perché i morti sono il nostro destino. L’esistenza stessa è il giudice e il suo boia.

Nel Tirreno

La chimera
di Alice Rohrwacher
Italia, 2023
Con: Josh O’ Connor (Arthur), Carol Duarte (Italia), Isabella Rossellini (Flora), Alba Rohrwacher, Vincenzo Semolato (Pirro)
Trailer del film

La bellezza dei pagani, la loro consapevolezza della morte, gli dèi diventati marmo, la loro presenza negli oggetti di uso quotidiano, le tombe dell’Etruria e la ricchezza della vita e della morte.
I tombaroli che cercano questi luoghi, li scavano, li depredano, ne vendono i ritrovamenti a impeccabili società d’aste e a eleganti collezionisti, questi tombaroli nulla sanno del mistero che avvolge le cose, il buio, i millenni. Conoscono soltanto le banconote per campare. Campare nella sporcizia e nei sogni. Arthur invece è un rabdomante, un ‘maestro’, uno che sente le tombe e indica dove scavare, è un archeologo. Durante un furto alle tombe gli altri scappano e soltanto lui viene arrestato. Liberato tramite l’intervento di Spartaco, un ricco e misterioso collezionista, torna alla sua baracca di alluminio sotto le mura di una città toscana. I compagni di impresa lo rivogliono con sé, anche se lui preferisce far compagnia a una vecchia signora della cui figlia è (era?) fidanzato. Una signora circondata da altre figlie e da una giovane brasiliana che impara da lei il canto e l’accudisce.
Ritornano le antiche imprese, Arthur non può vivere lontano dalle tombe, ritornano i furti, la miseria e il denaro, ma anche i simboli, i miti, l’enigma, la bellezza suprema «che occhi umani non possono vedere» e un’espressione della quale precipita nel Tirreno dopo essere venuta alla luce. Miti d’amore anche, miti di scansione del tempo (una festa delle befane/streghe), oggetti apotropaici, i volti degli dèi. E infine come sempre la morte, verso la quale l’itinerario di Arthur è diretto.
Morte che non è quella degli umani attuali, destinati in ogni caso a finire, ma dei morti antichi le cui dimore vengono violate non dai tombaroli, non dagli archeologi ma dalle industrie chimiche che affondano le loro costruzioni dove i morti abitano, rendendo mortale la terra e il mare.
Una magia percorre questo film, l’incanto della bellezza presente e perduta, l’enigma di civiltà aliene, completamente aliene dall’oggi, come quella degli Etruschi, le voci dei cantastorie, la sacralità che il finire dopo essere nati assume sempre agli occhi degli umani ἐφήμεροι, degli umani che niente sono nell’immensità della materia e del tempo. Qualcosa di struggente attraversa La chimera, qualcosa di perduto. Del quale è parte l’Italia degli anni Ottanta, poco prima che essa fosse svenduta alla globalizzazione, messa al servizio dell’Unione Europea e della sua Banca Centrale, degli Organi della finanza, venduta come un reperto di millenaria bellezza il cui unico valore è lo scambio, il mercato.

Dissolvenza e luce

Dissolvenza e luce
Aldo Palazzolo
in Gente di Fotografia. Rivista di cultura fotografica e immagini
anno XXIX – numero 81 – ottobre 2023
pagine 94-99

La fotografia, lo hanno notato in tanti, è un’arte che ben documenta la pervasività della morte. Del numero sconfinato di immagini che costituiscono l’archivio dell’umanità da quando questo dispositivo fu inventato, la parte preponderante rappresenta strutture, luoghi, città, paesaggi, animali umani e non umani che sono stati e più non sono. Ma l’essere è sempre in qualche modo luce. Tanto è vero che Palazzolo ha potuto intitolare due sue mostre siciliane di qualche anno fa con le espressioni Imago Lucis (a Comiso) e Chiedi alla luce (a Scicli).
L’artista fotografa la struttura della dissolvenza e non la potenza dello stare. I suoi soggetti in parte esistono ancora e già non ci sono più. Già e non ancora è una delle formule più dinamiche per cercare di cogliere l’incoglibile del tempo. Dissolvenza e luce, quindi. Vale a dire due degli elementi tecnici e formali che costituiscono e costruiscono il lavoro fotografico.

Potere

Oppenheimer
di Christopher Nolan
USA, 2023
Con: Cillian Murphy (Robert Oppenheimer), Robert Downey Jr. (Lewis Strauss), Emily Blunt (Katherine Oppenheimer), Matt Damon (Leslie Groves), Florence Pugh (Jean Tatlock), Benny Safdie (Edward Teller), Kenneth Branagh (Niels Bohr), Jason Clarke (inquisitore)
Trailer del film

Shakespeare (in particolare Riccardo III e Macbeth), Machiavelli (Il Principe), Canetti (Massa e potere) ci hanno mostrato che il potere è un fatto pervasivo e stratificato, evidente e complesso. Ma la sua sostanza non è difficile da cogliere: il potere è espressione e forma della dissoluzione, è radice sempre attuale dei bisogni animali della nostra specie, è raffinata giustificazione della violenza, è la brutale e penultima parola sugli eventi. Penultima perché l’ultima è la conoscenza che indaga sugli esiti del potere, come appunto in Skakespeare, Machiavelli, Canetti e in altri.

Nel Novecento c’è stato un momento (in verità assai lungo) nel quale il potere della filosofia/scienza, nella forma della fisica teorica, e quello politico conversero nella progettazione, realizzazione e utilizzo di un fuoco mai visto, devastante, accecante. Il fuoco generato dalla manipolazione umana del nucleo dell’atomo, fuoco che come onda inarrestabile e totale brucia, dissolve, cancella tutto ciò che incontra. E trasforma quanto di biologico gli sopravvive in un grumo senza fine di piaghe e di dolore.
L’unica potenza che sinora – 2023 – ha utilizzato contro altri stati e contro gli umani e i viventi tale fuoco sono gli Stati Uniti d’America, il 6 agosto 1945 dissolvendo Hiroshima, il 9 agosto cancellando Nagasaki.
Christopher Nolan racconta le origini di questa vicenda, il suo svilupparsi dentro un intrico fatto di carriere universitarie, di procedure e risultati scientifici, di innovazioni tecnologiche, di scommesse e di azzardi, di ambizioni politiche, di dismisura storica. Il presidente USA Harry Truman (del Partito Democratico, interpretato per pochi ma sufficienti minuti da uno straordinario e cinico Gary Oldman) al fisico Oppenheimer che afferma di sentire le mani grondanti di sangue, offre il suo fazzoletto per pulirsele e giustamente gli dice che «lei ha utilizzato la bomba a Los Alamos, non c’entra nulla con Hiroshima e Nagasaki. Le bombe le ho sganciate io».

Los Alamos (New Mexico) fu la sede principale del Progetto Manhattan, che ideò e realizzo gli ordigni nucleari. A guidare il progetto fu appunto Robert Oppenheimer (1904-1967), uno tra i maggiori fisici del Novecento, protagonista del primo esperimento atomico avvenuto il 16 luglio 1945, esplosione alla quale venne data una denominazione religiosa: Trinity.
Di questa persona e personaggio dalla natura complessa, riservata e narcisista, sfuggente, ambiziosa, sostanzialmente malata come quella di tutti i grandi criminali, il film narra la vicenda dagli esordi di studente ai successi scientifici, all’impegno strenuo per realizzare la bomba atomica, ai sospetti di militanza comunista che gli valsero un’umiliante inchiesta, alla collaborazione prima e all’odio implacabile poi da parte di Lewis Strauss, un altro ebreo e Presidente della Commissione per l’energia atomica degli Stati Uniti d’America. Gran parte del film è giocata sul canto/controcanto delle udienze dal cui esito a Oppenheimer venne revocata «l’autorizzazione di sicurezza», e dunque la possibilità di continuare a lavorare ai progetti scientifico-militari degli USA, e a Lewis venne negato di entrare come ministro nel governo del Presidente Eisenhower. La contrapposizione tra i due protagonisti è un’autentica lezione di ciò che di solito si intende con  «machiavellismo».
Oppenheimer è un’opera sul potere ed è un’opera sulla morte. Un’opera epica nello stile, frenetica nel racconto (tre ore che scorrono senza che ci si renda conto), dinamica e complessa nella temporalità, come sempre in Nolan, a partire da Following (1998) e Memento (2000) sino a Tenet (2020). Un’opera radicale nell’indicare le origini di quello che sarà probabilmente il destino di gran parte del pianeta, forse in tempi non troppo lunghi: la distruzione per opera dell’energia atomica, della potenza inarrestabile della materia manipolata nel suo nucleo, degli ordigni termonucleari di cui sono pieni gli arsenali delle maggiori potenze politiche del presente.

Un’opera che coniuga la morte all’amore. Mentre si accoppia con lui, la giovane amante Jean chiede a Oppenheimer di leggerle alcuni versi di un libro in sanscrito che il fisico sta studiando. E le parole dicono: «Sono diventato morte, il distruttore di mondi». Frase che ritorna durante l’esplosione sperimentale del luglio 1945 a Los Alamos. Questo è il momento sublime del film, anche in senso kantiano: per circa due-tre minuti tace ogni suono e ogni musica (che accompagna invece in modo ossessivo tutta la vicenda), si fa improvviso silenzio, si vede di colpo e poi lentamente ampliarsi la scintilla del fuoco, salire, diventare fungo atomico, espandersi, illuminare, accecare, splendere. Tutto nel più assoluto silenzio e con i volti e i corpi dei fisici e dei militari stupefatti di fronte a tanta perturbante meraviglia.
Amore, potere, morte. Aver potuto sentire tutto questo recitato nella lingua originale di alcuni grandi interpreti ha dato ulteriore profondità alla visione di un’opera inquietante e omerica. Opera che è anche un altro omaggio di Nolan al suo modello Kubrick, il quale affermò che «la distruzione di questo pianeta sarebbe insignificante in prospettiva cosmica. […] Non ci sarà nessuno a piangere una razza che usò il potere che avrebbe potuto mandare un segnale di luce verso le stelle per illuminare la sua pira di morte»1.
Non ci sarà nessuno.

Nota
1. In Enrico Ghezzi, Stanley Kubrick, Il Castoro Cinema 1995, p. 12.

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