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La malinconia del barocco

Una tristezza lieve afferra a volte la vita. Non disperazione, no. Né consapevole affrontamento dell’assurdo. Un’amarezza, piuttosto, fatta di giustizia negata ai nostri desideri, di nostalgia per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, di una lenta dissoluzione nel crepuscolo.
L’Overture di Dido & Aeneas di Purcell mi sembra che ben esprima e comunichi un tale sentimento dell’esistere. La regina abbandonata provò certamente un rimpianto senza luce prima di decidere che il suo corpo, «una volta per lui adorno / di dolci fiori colti all’imbrunire», venisse restituito alle tenebre dalle quali era sorto.

Dido & Aeneas
Overture (1689)
di Henry Purcell
The Mermaid Orchestra (1952)

[audio:Purcell_Dido.mp3]

«Dentro il fasto verminoso dell’eternità»

Marche pour la Cérémonie turque
di Jean-Baptiste Lully
da Le bourgeois gentilhomme
(1670)

Molière ha colto in modo esatto la divertita insignificanza dell’umano. Il borghese gentiluomo è l’ossimoro nel quale questo genio ha racchiuso un intero mondo di penose ambizioni, di ferocia sociale, di carrierismi grotteschi, quelli che inducono chi si pone sulla china del potere e della mondanità ad assorbire come una droga l’innalzamento di funzione e di carica. E a non accorgersi più di quanto siano ridicoli nella loro smania di allontanare in questo modo la morte, che per fortuna verrà a prenderli. Tutti. Qualunque grado abbiano raggiunto in questo mondo di tenebra.
Lully ha colto la profonda malinconia della satira di Molière e le ha regalato musiche che sono pensiero. La Marche pour la Cérémonie turque è una cadenza di trionfo che in realtà è una marcia funebre.

[audio:Lully.mp3]

Mente & cervello 83 – Novembre 2011

La voce umana è una straordinaria funzione della corporeità vivente, capace di modulare suoni, emozioni, significati, giudizi, concezioni del mondo, desideri. Essa «ci presenta al nostro interlocutore, che può dedurne facilmente il sesso e attribuirci altre caratteristiche come un’età anagrafica, il livello culturale, lo stato emotivo e tratti personali come il livello di sicurezza o insicurezza» (P.E.Cicerone, p. 86).  E se accade di sentire la nostra propria voce registrata ci stupiamo e ci chiediamo se davvero sia nostra, «perché quando ci ascoltiamo la percepiamo dall’interno, e quindi diversa da come la sentono gli altri» (Id., 89).
Anche i sogni vengono dal profondo della corporeità e da millenni resistono al tentativo di comprenderne davvero dinamica e funzione. Credo che abbia sostanzialmente ragione la teoria neurobiologica denominata «“ipotesi di attivazione-sintesi”, secondo cui i sogni non significano nulla: sono semplici impulsi elettrici cerebrali che estraggono a caso pensieri e immagini dalla nostra memoria e che organizziamo in storie al nostro risveglio nel naturale tentativo di dar loro un senso» (S.van der Linden, 102). Questa loro insignificanza non contrasta comunque con il fatto che i sogni svolgano una importantissima funzione di difesa attraverso la costruzione di possibili scenari diurni, di rafforzamento della memoria del vissuto, di elaborazione delle emozioni che ci scuotono. Ma, naturalmente, nulla profetizzano e a nulla si riferiscono al di là del corpomente.
Da dentro deriva quella tristezza di fondo ma spesso creativa che Aristotele chiamava malinconia (e non “depressione”, come afferma S.Carson, 43), che si può attenuare con i sali di litio (poiché siamo fatti di chimica) ma che rimane difficile da superare del tutto perché -secondo l’esperienza anche personale di Kay Jamison Redfield- «bipolari si nasce, non si diventa» (D. Ovadia, 55). Psicologa che ha subìto e subisce sulla propria carne -sino a vari tentativi di suicidio- la depressione maniacale, Kay Jamison cerca giustamente di sfatare il legame romantico tra genio e follia, affermando che «se la malattia mentale può agire da catalizzatore per l’artista, la creatività esiste a prescindere dalla malattia. E per rendere al massimo, per riuscire a produrre, non si può stare male. […] La produttività, la creatività, sgorgano con la massima forza quando gli opposti si conciliano, quando il buio della depressione e la perdita di controllo legata alla mania si conciliano in un nuovo equilibrio» (Ibidem).
Ma dentro di noi, fitto nella corporeità che siamo, sta soprattutto il tempo. Alla lettera. Lo conferma un articolo di questo numero di M&C dedicato al problema di chi lavora nei turni di notte. Il ritmo circadiano che intesse la vita viene infatti in questi casi stravolto, poiché di luce siamo fatti come di tempo. La luce passa dagli occhi. E tuttavia non sono i coni e i bastoncelli a farci percepire il ritmo temporale bensì altre cellule sensoriali, le cellule gangliari retiniche che contengono la melanopsina, la quale regola l’orologio interno.

Appena la luce di una determinata lunghezza d’onda colpisce le cellule gangliari retiniche, queste, attraverso il nervo ottico, inviano segnali al cervello verso un fascio di neuroni grande come un chicco di riso e contenente circa 10.000 cellule per ogni emisfero. Questo gruppo di neuroni si trova, da entrambi i lati, sopra l’incrocio tra il nervo ottico destro e il nervo ottico sinistro -chiasma ottico- e viene chiamato nucleo soprachiasmatico o NSC. Il NSC, a sua volta, “comunica l’orario” a tutte le cellule del corpo, per mezzo di impulsi nervosi e di neurotrasmettitori immessi nel circolo sanguigno. È così che, proprio come un grande orologio che governa l’organismo, regola i processi biologici di tessuti e organi”. (T.Kantermann, 76)

Il NSC intensifica di giorno la propria attività, riducendo in questo modo la quantità di melatonina (l’ormone del sonno) presente nel sangue. È così che viviamo. L’orologio che siamo si fa svegliare chimicamente dalla luce percepita e decodificata dalla melanopsina. La luce diventa così subito tempo.

Il nostro orologio interno può essere paragonato a un’altalena per bambini che viene spinta continuamente. A seconda del punto di oscillazione in cui riceve la spinta, l’altalena accelera, rallenta o continua a oscillare nello stesso modo. Nel caso del nostro orologio interno, la spinta corrisponde alla luce: a seconda dell’orario in cui entra in gioco la luce, l’orologio si sposta in avanti, indietro o continua a battere il tempo come sempre. (Id., 77)

Melancholia

di Lars Von Trier
Con: Kirsten Dunst (Justine), Charlotte Gainsbourg (Claire), Kiefer Sutherland (John), Charlotte Rampling (Gaby), Alexander Skarsgård (Michael), Stellan Skarsgård (Jack), John Hurt (Dexter)
Danimarca, Svezia, Francia, Germania 2011
Trailer del film

La Melencolia I di Albrecht Dürer è una figura circondata dagli strumenti e dai segni della conoscenza e tuttavia intensamente perduta nella contemplazione di un doloroso pensiero. «C’è falsità nel nostro sapere, e l’oscurità è così saldamente radicata in noi che perfino il nostro cercare a tentoni fallisce» scrisse Dürer1 nella lucida e disincantata consapevolezza che la nostra ignoranza delle cose rimane, per quanto si estenda la nostra conoscenza, inoltrepassabile. Ignoranza del senso delle cose e anche, con più modestia, del destino del nostro pianeta. Al quale sempre più si sta avvicinando un corpo celeste molto più grande, il suo nome è Melancholia, pronto ad assorbire dentro la propria energia tutto ciò che la Terra è stata.

Il preludio dal Tristano e Isotta di Richard Wagner è la malinconia fatta musica. Possiede tutta la forza paradossale e struggente di questo sentimento. Le sue note intessono il Prologo del film. Una sequenza onirica nella quale una sposa emerge dalla terra e non riesce a liberarsi dal suo viluppo, i pianeti danzano l‘uno intorno all’altro, dal cielo piovono grandine e uccelli, una madre con il figlio in braccio affonda in prati troppo morbidi, dalle dita di una donna si espandono lampi.
E poi Justine, la sposa. Che insieme al marito arriva in ritardo alla festa preparata per loro dalla sorella Claire e dal cognato John nel bellissimo castello in riva al mare che è la loro dimora. Eleganza, misura, fasto e sorrisi si sbriciolano poco a poco di fronte alla profonda ferocia sociale che riposa dietro i riti e le convenzioni, pronta a svegliarsi, a sbranare, a distruggere. La madre di Justine e Claire esprime con pubblico sarcasmo il proprio disprezzo verso la farsa che tutti in quel momento vede protagonisti, verso la finzione collettiva. La sposa si allontana lungamente lasciando nell’imbarazzo gli invitati. Con l’inevitabilità di un piano inclinato, è la catastrofe.
Infine Claire, che ospita di nuovo la sorella, la sua malattia -tristezza la chiamavano gli antichi, depressione è il suo nome attuale-, la sua distanza da ogni evento, emozione, paura. Invece Claire è terrorizzata da Melancholia, che sempre più si avvicina inesorabile a noi. Il marito cerca di tranquillizzarla, prepara l’emergenza, scruta continuamente il cielo. Ma infine non reggerà. Le due sorelle e il bambino di Claire costruiscono una capanna trasparente nel prato. E attendono. Dopo l’ultima scena è il silenzio. Non più una parola né un’immagine. E neppure una nota.

Risuona invece in chi ha guardato questo film qualcosa di antico che si chiama catarsi. Lars von Trier è riuscito a trasformare in immagini ciò che probabilmente prova chi sta sentendo avvicinarsi la fine. Quel pianeta è infatti come il monolito di 2001. Odissea nello spazio. È figura di Ananke, della Necessità che ci supera infinitamente e tutto avvolge. È figura della morte e della vita intrecciate e dominatrici del cosmo. Anche tra i minerali, tra i pianeti, tra le stelle. Anch’essi nascono, durano e si dissolvono. Ma nel volgersi della materia e della sua energia, «la vita è qualcosa di negativo» -questo sostiene von Trier-, una breve parentesi di sofferenza destinata a tornare nel grande fuoco.
«Perittoì mén eisi pántes oi melacholikoí ou dià nóson, allà dià physin; i “melanconici” sono persone eccezionali non per malattia ma per natura» è l’affermazione conclusiva dell’aristotelico Problemata 30,12. Il genio malinconico e gnostico di questo regista ha costruito un capolavoro che offre all’arte cinematografica l’estrema tensione della totalità e della verità ultima delle cose -la verità del mondo è la morte– e a chi guarda dona lo stupore di aver visto millenni di pensiero sull’umano e sul cosmo diventare una sola immagine.

1. Cit. in R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno e la melanconia, Einaudi 1983, p. 341
2. Trad. di C. Angelino e E. Salvaneschi, il melangolo 1981, p. 27

La malinconia delle labbra

This Must Be the Place
di Paolo Sorrentino
Con: Sean Penn (Cheyenne), Frances McDormand (Jane), Eve Hewson (Mary), Kerry Condon (Rachel), Harry Dean Stanton (Robert Plath), Olwen Fouere (la madre di Mary), Joyce Van Patten (Dorothy Shore), Judd Hirsch (Mordecai Midler), Heinz Lieven (Alois Lange), David Byrne (Se stesso)
Italia, Francia, Irlanda 2011
Trailer del film

Cheyenne è un cinquantenne che vive in un magnifico palazzo irlandese. Lo ha acquistato con i proventi della sua attività di rockstar. Attività che ha abbandonato da vent’anni ma che lo induce ancora a vestirsi e a truccarsi come faceva una volta. La sua vita procede tranquilla, annoiata, gravata da pesi e fantasmi che lo accompagnano discreti. Il padre, un vecchio ebreo di New York, sta molto male. Cheyenne parte con la nave  -teme infatti il volo- e arriva troppo tardi. Dai documenti lasciati dal padre scopre che questi ha cercato per tutta la vita un ufficiale nazionalsocialista che lo aveva umiliato ad Auschwitz. Comincia dunque a percorrere gli States per proseguire l’opera del genitore e la conduce a compimento. Può tornare in Irlanda ormai cresciuto, senza trucco e -per la prima volta- sorridendo.

Al di là della vicenda narrata, il film è molto bello per la capacità di Sorrentino di saper coniugare ancora una volta malinconia e grottesco. Cifra che era già esplicita ne Il divo e che qui si incarna perfettamente in un Sean Penn semplicemente straordinario, che non disegna un personaggio ma costruisce una vera scultura fatta di psiche, soma, sguardi, movenze, labbra, silenzi, voce (ho avuto la fortuna di sentire il film in lingua originale). Cheyenne era sempre rimasto un bambino ma attraversa in pochi giorni la vita e diventa un adulto finalmente liberato dal dover portare sempre con sé un trolley per la spesa o per il viaggio, chiaro simbolo di memorie irrisolte. Anche gli altri personaggi, situazioni, dialoghi sono simbolici, compreso l’incontro con il vecchio ufficiale delle SS e il contrappasso. Nonostante il pregiudizio freudiano (Edipo) al quale troppo si ispira, il film risulta miracolosamente lieve, puro cinema, intatto sogno.

La malinconia di Aristotele

Aristotele
La “melanconia” dell’uomo di genio
(Problemata, 30, 1)
a cura di Carlo Angelino ed Enrica Salvaneschi
Il Melangolo, 1981
Pagine 53

In un volumento assai bello, arricchito da riproduzioni di vasi greci e incisioni di Dürer, vengono presentati il testo originale e la traduzione di Problemata 30, 1. Si tratta di un frammento più probabilmente pseudo-aristotelico, che comunque nasce in ambito peripatetico. Il suo principale elemento di novità consiste, come scrivono i curatori, «nello svincolare la tipologia “melanconica” da un’ipoteca patologica che precedentemente gravava su di essa» (p. 36).
L’indagine si muove su un doppio e complementare livello:
l’osservazione fisiologica e la speculazione etico-psicologica. Il termine chiave –melancolicoi– possiede infatti una vasta valenza semantica e qui viene giustamente tradotto sia con «atrabiliare» sia con «melanconico». Fisiologicamente, la distinzione più importante è quella fra caldo e freddo, tra riscaldamento e raffreddamento. I soggetti intellettualmente versati soffrono spesso di una particolare oscillazione fra i due estremi, che li rende a volte depressi, altre volte euforici. Viene anche sottolineata la funzione che un agente esterno come il vino esercita su questi stati mentali. Se la costituzione fisica e il dosaggio fra i vari elementi «raggiunge un proprio equilibrio» i melanconici «sono uomini eccezionali» (954b, p. 23), tanto da risultare i migliori nei campi della cultura, dell’arte, della politica.
In tale concezione vi è una profonda integrazione fra i vari aspetti dell’unica natura umana: un’integrità psicosomatica lontana da ogni dualismo. Per Problemata 30, 1 l’uomo è anche una macchina soggetta a specifiche leggi cinetiche e organiche, indagabili con rigorose metodologie. Per una simile antropologia, la dinamica tra psichico e somatico è scandita in momenti diversi, sì, ma sempre integrati fra di loro. L’etica scaturisce da una fisiologia a-morale e come tale libera da gravami colpevolizzanti e aperta a sempre nuove complessità: «i “melanconici” sono persone eccezionali non per malattia ma per natura» (955a, p. 27).

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