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Madri

La sposa promessa
(Lemale Et HàChalal)
di Rama Burshtein
Con: Hadas Yaron (Shira), Irit Sheleg (Rivka), Yiftach Klein (Yohai), Chayim Sharir (Aharon), Hila Feldman, Razia Israeli (la zia Hanna), Renana Raz (Esther)
Israele, 2012
Trailer del film

Una madre muore dando alla luce il suo primogenito. La madre della defunta è disperata alla prospettiva che il genero si risposi portando via con sé il nipotino. Chiede dunque alla propria figlia minore di sposare il cognato, fare da madre al bambino e rimanere tutti vicini. La giovane Shira aveva altri desideri ed è combattuta tra il senso del dovere verso la madre e l’aspirazione a costruirsi una propria esistenza sposando l’uomo che ama. Incerta sino allo spasimo, farà la sua scelta il cui esito rimane tuttavia radicalmente ambiguo, come mostrano gli ultimi belli e drammatici minuti del film.
Questo accade a Tel Aviv, all’interno di alcune famiglie dell’ebraismo ortodosso e chassidico (quelle, per intenderci, i cui maschi indossano ovunque cappelli e cappotti neri e si fanno crescere i peyot, i riccioli laterali). Famiglie molto chiuse, le cui usanze, credenze, valori sono estremamente formalizzate. Vite fatte di formule pronte per ogni circostanza e sempre uguali nel loro ripetersi. La cinepresa indugia a lungo e giustamente sul volto della protagonista, brava a esprimere in ogni gesto l’inquietudine, la speranza, la disperazione. I tagli e le luci sono a volte caravaggeschi.
Strumenti formali al servizio di una storia che mostra con la chiarezza della vita quotidiana come il cuore dell’ebraismo (e quindi anche del cristianesimo da esso figliato) sia la colpa e il non-amore.
Il senso di colpa per la disgrazia che ha colpito la famiglia, interpretata come il frutto evidente di un qualche peccato. Il senso di colpa di Shira verso la madre. L’egoismo totale di quest’ultima che pur di tenersi vicino il figlio della figlia maggiore non esita a sacrificare la figlia minore. Sono religioni, queste, tutte colpa e niente amore. Religioni nelle quali il terrificante paterno e la possessività materna sanciscono un’obbedienza assoluta, trascendente e infelice.

«Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: “Abramo, Abramo!”. Rispose: “Eccomi!”. Riprese: “Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò”.
[…] Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna, legò il figlio Isacco e lo depose sull’altare, sopra la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: “Abramo, Abramo!”. Rispose: “Eccomi!”. L’angelo disse: “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio”. Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio» (Genesi, cap. 22, 1-13).

L’ariete offerto in olocausto a una simile barbarie del timore, a tale fanatismo di obbedienza verso il principio di autorità, è stata l’intera umanità. Le religioni del Libro hanno corrotto alla radice la serenità del vivere.

Davide e Golia

Ieri pomeriggio -19 novembre- davanti a Palazzo Marino, sede del Comune di Milano, un gruppo di manifestanti ha ricordato che cosa sta succedendo nella Striscia di Gaza.
Sta succedendo che:
«1) Gli israeliani sono la potenza occupante, gli aggressori e non gli aggrediti.
2) Netanyahu e Barak, come gli altri loro colleghi, sono in campagna elettorale, e hanno bisogno di incassare il consenso politico dei loro elettori facendo strage di gazawi.
3) Quasi due milioni di gazawi stanno vivendo nel terrore, in queste ore, a causa delle bombe e dei massacri israeliani che finora hanno ucciso 10 persone [ormai più di cento e migliaia di feriti, n.d.r.], tra cui bimbi piccolissimi, carbonizzati.
4) I leader israeliani stanno cercando di convincere il mondo che sono loro le vittime, invece hanno le mani macchiate dal sangue palestinese, e ci sono tribunali, in vari Paesi, pronti ad arrestarli appena dovessero mettere piede sui loro territori.
5) Israele ha violato una tregua mediata dall’Egitto, bombardando Gaza.
6) I palestinesi hanno il diritto, riconosciuto dalle leggi internazionali, di difendersi come ritengono opportuno, dalle aggressioni israeliane.
7) Il popolo palestinese vorrebbe vivere in pace sulla propria terra, nelle proprie case, ma Israele non lo permette.
8)  Israele non può che rimproverare se stesso per l’escalation in corso.
9) La scorsa settimana, Israele ha ucciso 7 civili, e la resistenza ha risposto lanciando razzi. Ora Israele sta raccontando che i bombardamenti in corso contro la Striscia sono una rappresaglia ai razzi della resistenza, quando è vero esattamente l’opposto.
10) Israele continua a imporre da anni l’assedio alla Striscia di Gaza».
(Fonte: Angela Lano, Bombardamenti israeliani e il capovolgimento della ragione)

Poche cose sono infami come la manipolazione dei fatti attuata dai potenti contro le loro vittime. È quello che accade sistematicamente nei rapporti tra lo Stato di Israele e il popolo palestinese.
Milioni di persone sono costrette a vivere dietro un muro altissimo e lungo centinaia di chilometri -rispetto al quale quello di Berlino era un manufatto artigianale- prive di medicine, di risorse produttive, di libertà. Trattate come umanità inferiore. Destinate a un chiaro genocidio, attuato anche tramite «politiche di colonialismo e d’apartheid» ispirate a una concezione razzistica che affonda le sue radici nella Bibbia.
Stavolta Davide-Palestina non ha molte speranze di resistere allo strapotere militare di Golia-Israele.

Il passato che non si vuole fare passare

Il debito
di John Madden
(The Debt)
Con: Helen Mirren (Rachel Singer), Jessica Chastain (Rachel da giovane), Jesper Christensen (Dieter Vogel), Ciarán Hids (David), Sam Worthington (David da giovane), Tom Wilkinson (Stephan), Marton Csokas (Stephan da giovane)
Usa, 2010
Trailer del film

Nel 1966 a Berlino Est tre agenti del Mossad (il servizio segreto israeliano) rapiscono e catturano Dieter Vogel (“il medico di Birkenau”) allo scopo di condurlo a Gerusalemme e sottoporlo a processo. Qualcosa però va storto e i tre rimangono imprigionati insieme al criminale nazionalsocialista in un appartamento berlinese, dove Vogel si mostra assai più abile di quanto avessero immaginato. Decenni dopo, la verità ufficiale che li ha resi eroi si scontra con una verità diversa. E la lotta sembra non finire, intrecciandosi ai rapporti affettivi mai sopiti tra la ragazza e i due uomini, adesso tutti maturi sessantenni.
Si tratta del remake di Ha-Hov di Assaf Bernstein (Israele, 2007), una Spy Story piuttosto improbabile, il cui elemento migliore sono le scene d’azione, appunto. L’andare e venire tra il passato di Berlino e il presente di Tel Aviv rimane meccanico nel rendere il peso della memoria e di una menzogna prolungata nel tempo. E alla fine si ha la sensazione di un’apologia del feroce servizio segreto israeliano. Un libro di Ernst Nolte criticava sin dal titolo il pietrificarsi del passato –Germania: un passato che non passa (Einaudi 1987)- ritenendolo un’assurdità storiografica e metafisica. Nietzsche ha difeso con molti argomenti la necessità del dimenticare per vivere ancora. Due grandi accordi di pace come l’Editto di Nantes (1598) e il Trattato di Vestfalia (1648) prevedevano delle esplicite “clausole d’oblio”. Esattamente l’opposto delle troppe “giornate della memoria”, uno dei cui effetti è mantenere vivo il rancore, la violenza, l’odio. Forse è bene che anche al cinema, che se ne è occupato in una miriade di modi, quel passato ebraico lasci il posto ad altri stermini, più recenti e non meno atroci.

Se questo è un uomo

Da anni i palestinesi della striscia di Gaza vivono in una condizione atroce. Alcune organizzazioni umanitarie cercano periodicamente di portare aiuti a queste popolazioni ma subiscono la continua ostilità dello stato di Israele. Stanotte è successo qualcosa di terribile: delle imbarcazioni dirette a Gaza sono state assalite –in acque internazionali– dalla Marina israeliana. Sono morti decine di volontari e altri hanno corso enormi rischi, compresi donne e bambini. Un massacro attuato per impedire che altre donne e bambini ricevano cibo, vestiti, farmaci. La giustificazione di Gerusalemme è che «Israele considera» tale iniziativa «studiata per minare la sua immagine». L’immagine di uno Stato contro la vita di vecchi, donne, bambini. Considerate se questi sono uomini, costretti a vivere rinchiusi, isolati, affamati, bombardati. Ma nessun film, nessun libro, nessuna giornata della memoria ricorderà le vittime della violenza di questo Stato razzista.
In ogni caso, niente di nuovo sotto il sole: «Marciarono dunque contro Madian come il Signore aveva ordinato a Mosè, e uccisero tutti i maschi. (…) Gli Israeliti fecero prigioniere le donne di Madian e i loro fanciulli e depredarono tutto il loro bestiame, tutti i loro greggi e ogni loro bene; appiccarono il fuoco a tutte le città che quelli abitavano e a tutti i loro attendamenti e presero tutto il bottino e tutta la preda, gente e bestiame. (…) Mosè si adirò contro i comandanti dell’esercito, capi di migliaia e capi di centinaia, che tornavano da quella spedizione di guerra. Mosè disse loro: “Avete lasciato in vita tutte le femmine? Proprio loro, per suggerimento di Balaam, hanno insegnato agli Israeliti l’infedeltà verso il Signore, nella faccenda di Peor, per cui venne il flagello nella comunità del Signore. Ora uccidete ogni maschio tra i fanciulli e uccidete ogni donna che si è unita con un uomo; ma tutte le fanciulle che non si sono unite con uomini, conservatele in vita per voi». (Libro dei Numeri, cap. 31, vv. 7-18)

Lebanon

di Samuel Maoz
Con: Yoav Donat, Itay Tiran, Oshri Cohen, Michael Moshonov
Israele, 2009
Trailer del film

lebanon

«L’uomo è d’acciaio. Il carro è solo ferraglia». Questa la scritta che campeggia sul carro armato con dentro quattro soldati israeliani durante l’invasione del Libano nel 1982. Anche quando la ferraglia non funzionerà quasi più, colpita dal fuoco siriano, i quattro uomini attingeranno non al loro eroismo, del tutto assente, ma alla loro disperata voglia di vivere ancora. Vivere vedendo dal mirino del loro strumento di morte un venditore di polli smembrato, un asino col ventre squarciato ma che ancora respira, una famiglia sterminata e con la madre sopravvissuta che cerca piangendo la figlia, un cristiano falangista che minaccia un prigioniero siriano di cavargli un occhio, di tagliargli il pene, di squartarlo.

Ma non contano i particolari della vicenda. A sorprendere è la capacità espressiva di concepire un film tutto dentro un carro armato e in gran parte filtrato dal mirino attraverso il quale chi vi è rinchiuso vede il mondo, dal movimento a scatti con cui esso perlustra l’ambiente, con i primissimi piani dei protagonisti, con il nero delle pareti e le luci della strumentazione, con i deboli riflessi del mondo esterno. Opera claustrofobica, antimilitarista, ispirata in parte a Full Metal Jacket e soprattutto capace di trasmettere in modo straordinariamente efficace e dall’interno -alla lettera- l’insensatezza e la ferocia assoluta della guerra. Un esperimento formale e uno sguardo sull’orrore che hanno meritato il Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia.

Valzer con Bashir

di Ari Folman
(Waltz with Bashir)
Germania, Francia, Israele, 2008
Disegni e animazioni: Yoni Goodman

valzerbashir

Ari Folman racconta la guerra nel Libano del 1982, vissuta da soldato diciannovenne dell’esercito israeliano. Racconta soprattutto il proprio non ricordare il massacro attuato dai falangisti cristiani con la complicità israeliana nei campi palestinesi di Sabra e Shatila, dove vennero sterminati donne, bambini, vecchi, col motivo di vendicare l’assassinio del leader falangista Bashir Gemayel. Folman ricostruisce i fatti con l’aiuto dei commilitoni e di un giornalista inviato di guerra. Dopo venticinque anni la ferita è ancora aperta in alcuni di loro. C’è chi sogna i 26 cani che ha ucciso perché non rivelassero la presenza dei soldati, chi giustifica tutto in nome del principio gerarchico (la stessa autodifesa di numerosi militari a Norimberga), chi afferma che la guerra è sempre stata questo…

La bellezza del film sta nelle sua tecnica, nei colori cupi e sgargianti coi quali restituisce l’orrore, nell’animazione a volte un po’ meccanica ma più spesso capace di rendere la mescolanza tra la dimensione reale e quella onirica degli eventi, nella profondità dei disegni. Un po’ banale l’insistenza sulla lettura psicoanalitica, necessario appare invece il passaggio conclusivo dall’animazione alla documentazione video di uno degli episodi più orribili del Novecento. È una buona cosa che con questo film, come con Il giardino di limoni di Eran Riklis, una parte della società israeliana cominci a fare i conti con i propri crimini. Meglio ancora sarebbe se non ne perpetrasse altri.

Il giardino di limoni

(Lemon Tree)
di Eran Riklis
Germania/Francia/Israele, 2008
Con: Hiam Abbass (Salma Zidane), Doron Tavory (Il ministro Israel Navon), Rona Lipaz-Michael (Mira Navon),  Ali Suliman (Ziad Daud)

giardino_limoni

 

Il ministro israeliano della difesa prende casa proprio al confine tra Israele e la Cisgiordania. Al di là abita una vedova che coltiva il limoneto lasciatole dal padre. Il destino del luogo è segnato e lo è, ovviamente, per «imprescindibili ragioni di sicurezza» che richiedono lo sradicamento degli  alberi. Aiutata da un giovane avvocato, Salma riesce a portare il caso sino alla Corte suprema di Gerusalemme. Si pone dalla sua parte anche la moglie del ministro, reclusa quasi quanto la sua vicina palestinese…

Gli alberi sono un simbolo. Raffigurano pace, convivenza, dignità. Tutte parole vuote dentro e dietro quel lungo e terribile muro che Israele ha eretto fra sé e la giustizia. Un Paese e degli uomini che hanno paura degli alberi non avranno mai pace. Il film è attento alle relazioni personali oltre che alla situazione politica della Cisgiordania. Ne risulta un’opera forse un po’ edulcorata rispetto alla realtà di un’occupazione brutale di territori altrui. Ma è un buon segno che il film sia di produzione israeliana -come il regista- e la protagonista sia un’attrice palestinese meritatamente nota.
Una piccola prepotenza come sineddoche di un sopruso ormai antico.

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