Skip to content


Cosmologia e Metafisica

Vorrei indicare brevemente qual è il fondamento fisico della prospettiva metafisica che in vari libri e saggi cerco di formulare. Si tratta di un fondamento cosmologico che rende assai evidente la completa insignificanza del nostro pianeta nell’universo e quindi l’inessenzialità della nostra e delle altre specie viventi.
Tale realtà è descritta in modo semplice e chiaro in un articolo del numero 60 (aprile 2025) del mensile Cosmo2050. L’articolo si intitola Il respiro dell’universo, l’autore è Marco Sergio Erculiani. Ne riporto qui l’incipit (p. 28), particolarmente efficace. Invito a porre attenzione al significato dei numeri che si utilizzano in questo testo e ricordo che la luce viaggia alla velocità di quasi 300.000 km al secondo; già immaginare quindi che cosa sia un solo anno luce è per la nostra mente un’impresa improba:

Se ci limitiamo alla materia ordinaria, l’universo è un insieme di centinaia (o migliaia) di miliardi di galassie, tutte connesse fra di loro dalla forza di gravità. Come una immensa rete neurale che respira e si espande alla velocità che aumenta all’aumentare della distanza a cui si osserva: circa 73,2 km al secondo per ogni megaparsec (Mpc), dove 1 Mpc equivale a 3,26 milioni di anni luce.
Non è semplice comprendere l’Universo. Sia dal lato fisico che dal lato esperienziale. Basti pensare alla unità di misura delle distanze che si usa in astronomia: l’anno luce, la distanza che la luce può percorrere in un anno. Stiamo parlando di 9460 miliardi di chilometri, equivalenti al percorso che compie la Terra intorno al Sole in 10.000 anni. Nonostante le grandi dimensioni di questa unità, le misure dell’Universo richiedono dei numeri giganteschi. La nostra Galassia ha un diametro di 100mila anni luce, la galassia di Andromeda, la più vicina a noi, dista 2,45 milioni di anni luce. Il raggio dell’Universo osservabile è stimato in circa 46,5 miliardi di anni luce…
Queste cifre sono utili come strumenti matematici ma sono inafferrabili dalla nostra coscienza.

L’articolo prosegue inserendo il nostro sistema solare all’interno della Via Lattea, la quale è soltanto una delle miliardi di galassie che compongono il Superammasso della Vergine, che fa parte a sua volta di una immensa e impensabile struttura chiamata Laniakea (in hawaiano: ‘Paradiso infinito’). Ma anche Laniakea è parte di una realtà più ampia denominata Superammasso di Shapley.

Per capire ancora meglio, consiglio anche la lettura di un breve testo pubblicato sul sito della rivista: Dalla Terra ai confini dell’Universo.
Di fronte a tali dati e all’impensabile (alla lettera) vastità dell’Universo, ritengo che l’unico atteggiamento metafisico e scientifico sensato sia l’antropodecentrismo.
Prospettiva che era già assai chiara nei Dialoghi di Giordano Bruno, in particolare nella Cena de le Ceneri, nel De la causa, principio e uno, nel De l’infinito, universo e mondi. Prospettiva che fonda anche una filosofia assai diversa da quello di Bruno, la Teodicea di Leibniz, il quale pensa correttamente che la Terra

n’est qu’une planète, c’est-à-dire un des six satellites principaux de notre soleil ; et comme toutes les fixes sont des soleils aussi, l’on voit combien notre terre est peu de chose par rapport aux choses visibles, puisqu’elle n’est qu’un appendice de l’un d’entre eux. […] Que ce soit le ciel empyrée ou non, toujours cet espace immense qui environne toute cette région pourra être rempli de bonheur et de gloire. […] Que deviendra la considération de notre globe et de ses habitants ? Ne sera-ce pas quelque chose d’incomparablement moindre qu’un point physique, puisque notre terre est comme un point au prix de la distance de quelques fixes ?

 

La Terra è soltanto un pianeta, vale a dire uno dei sei principali satelliti del nostro Sole; e come tutte le stelle fisse sono anch’esse dei soli, si vede come la nostra Terra sia poca cosa in confronto all’insieme delle cose visibili, poiché non è altro che un’appendice di una di tali stelle. […] Che si tratti o meno dell’Empireo, questo immenso spazio che circonda l’intera regione [visibile] potrebbe essere colmo di felicità e di gloria. […] Che cosa diventerà la considerazione del nostro globo e di chi lo abita? Non sarà qualcosa di incomparabilmente inferiore a un punto fisico, poiché la nostra Terra è come un punto rispetto alla distanza delle [stelle] fisse? (Théodicée, I, § 19).

Di fronte alla potenza e alla densità del cosmo appaiono inoltre veramente bizzarri la pretesa di negare la realtà fisica del tempo (che invece con l’universo coincide) e di attribuire alla nostra specie una qualche funzione produttiva del reale (il Geist, lo Spirito), come fanno le diverse forme di idealismo e di trascendentalismo.
La critica marxiana all’idealismo della Heilige Familie, della sacra famiglia degli idealisti, per essere completa deve diventare una critica anche e specialmente dell’antropocentrica famiglia, della quale fanno parte, insieme agli idealisti, anche e soprattutto i monoteismi religiosi e le filosofie del soggetto umano sovrano.
La misura, il senso e la funzione di Homo sapiens sono ciò che la cosmologia indica con implacabile chiarezza: un nulla.

La perfezione, la pura energia senza dolore, la luce, il divino.
Essere questo, non un umano, essere il Sole, essere stella.

Il Sole in una foto di Salvo Lauricella

Su Lenin

Due commenti a Lenin
in Il Covile
anno XVI, numero 711
8 dicembre 2024
Pagine 1-8

Ringrazio la rivista il Covile per aver voluto ripubblicare un mio breve testo dedicato a Materialismo ed empiriocriticismo, uscito lo scorso febbraio su Il Pensiero Storico. Tanto più per averlo voluto affiancare alla analisi critica che nel 1933 Simone Weil rivolse allo stesso libro.

In realtà, l’articolo di Weil è dedicato a questioni più generali di epistemologia, che emergono in modo limpido ed efficace nella seconda parte del suo scritto. Una epistemologia con la quale concordo pienamente quando rileva che «si dovrà riconoscere l’esistenza, e di un mondo che è oltre il pensiero, e di un pensiero che, lungi dal riflettere passivamente il mondo, si esercita su di lui per conoscerlo e trasformarlo», come ho anch’io ribadito nel mio testo. Concordo poi sulla critica a una pratica scientifica, in particolare della fisica, diventata di fatto esoterica e pericolosamente vicina alle pratiche di fede, «al punto che l’oscurità, e finanche l’assurdità, appaiono oggi, in una teoria scientifica, come segni di profondità. […] In questo senso, la bella espressione di Marx a proposito della critica della religione come condizione primaria di ogni critica deve essere estesa anche alla scienza moderna».

Assai meno condivisibile è la breve prima parte dell’articolo, incentrata su Lenin, e questo per varie ragioni.
La prima è che in essa Weil ribadisce di fatto una posizione intramata di cartesianesimo e di idealismo, la quale a proposito della ovvia struttura materica del corpomente umano, compreso il cervello, parla ironicamente di «inesplicabile caso» e di «Provvidenza» per le teorie epistemologiche realistiche che affermano la continuità (che non è certo identità e non è opposizione) tra come è fatto il mondo e come la mente umana (o di qualsiasi altro animale) lo apprende.
Ma il limite più grave è di natura polemico-politica. La filosofa pubblicò infatti questo scritto su una rivista militante, come La Critique Sociale, e si nota subito che l’obiettivo non è soltanto e neppure principalmente epistemologico ma tende a sminuire Lenin filosofo allo scopo di accusarlo, come in modo nettissimo fa, di dogmatismo anche politico, scrivendo ad esempio che «un tale metodo di pensiero non è quello di un uomo libero. Come tuttavia avrebbe potuto ragionare altrimenti? […] Molto tempo prima di strappare la libertà di pensiero alla Russia tutta intera, il partito bolscevico l’aveva già tolta al proprio capo».
Weil scriveva nel pieno dello stalinismo e delle polemiche interne al movimento comunista. Possiamo dunque comprendere la riduzione allo stalinismo che Weil opera di un libro militante (l’ho rilevato con chiarezza nella mia analisi) ma certamente anche del tutto filosofico qual è Materialismo ed empiriocriticismo.
Sulle ragioni specifiche – epistemologiche e teoretiche – per le quali non condivido in nessun modo la lettura che Weil fa del libro di Lenin non aggiungo nulla poiché esse sono indicate e discusse nel mio articolo.

Idealismo e transumanesimo

Materia e transumanesimo in Giovanni Gentile
in Dialoghi Mediterranei
n. 70, novembre-dicembre 2024
pagine 540-545

Indice
-Attualismo e idealismo
-Gentile, l’estetica
-Gentile, il realismo, la materia
-Idealismo e transumanesimo

La struttura storica dell’umano e di ogni suo prodotto costituisce una conferma dei limiti della nostra specie, del non poter mai tale animale aspirare a un Assoluto posto fuori dallo spaziotempo. La filosofia di Gentile è probabilmente l’ultima espressione tradizionale di tale pretesa, che però nel presente sembra riapparire nelle forme certo ben mascherate ma sempre visibili del cosiddetto transumano.
Il transumanesimo è un’evidente forma di ὕβρις, fondata sulla volontà di espansione della soggettività umana. Anche per questo alcuni dei concetti centrali di ogni idealismo, compreso quello di Gentile, quali l’‘assoluto’, sono in realtà poco più che intuizioni e metafore con le quali una parte della materia dotata di coscienza coglie il tempo come un tutto ora, come il tutto che era prima, come il tutto che sarà poi.
Perché il sempre non è una forma statica ma è proprio questo eventuarsi senza posa della materia, ora e in ogni istante del suo accadere.
Uno dei paradossali meriti dell’attualismo gentiliano è la chiarezza con la quale la pretesa antropocentrica si esprime e dunque precipita e fallisce. Anche da Gentile scaturisce pertanto la necessità di abbandonare ogni antropocentrismo e ogni dualismo/contrapposizione tra l’umano e il cosmo nel quale l’umano è posto nei modi più diversi come signore.
Signore di che cosa? Non decidiamo di nascere, né come e dove nasciamo né siamo padroni delle nostre vite e del morire, perché in questo caso saremmo tutti dei felici signori del tempo. E invece del tempo siamo soltanto una necessaria espressione e ciò che chiamiamo morire è la formula del limite umano incapace di cogliere la permanenza della materia al di là delle sue contingenti espressioni.
La radice e l’espressione immanentistica dell’attualismo gentiliano costituiscono alla fine una distanza da ogni transumanesimo, nonostante il contributo che l’idealismo possa offrire e abbia offerto alle tesi transumane.

Hegel, l ‘Enciclopedia

Georg W.F. Hegel
Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio
(Enzyclopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, 1817-1830)
Traduzione, prefazione e note di Benedetto Croce
Prefazioni di Hegel tradotte da Angelica Nuzzo
Introduzione di Claudio Cesa
Mondadori, 2008
Pagine CVII-651

[Data l’ampiezza un poco inconsueta del testo che segue, ne metto a disposizione una versione in pdf]

Al di là dell’astrazione illuministica e intellettualistica che vorrebbe imporre alla realtà i pensamenti e i desideri degli umani.
Al di là del moralismo «che tiene i sogni delle sue astrazioni  per alcunché di verace, ed è tanto gonfio del suo dover essere, che anche nel campo politico va predicando assai volentieri; quasi che il mondo aspettasse quei dettami per apprendere come deve essere ma non è» (§ 6, pp. 10-11).
Al di là del sentimentalismo che «si adopra a indagare le particolarità, passioni e debolezze degli altri uomini, le cosiddette pieghe del cuore umano» (§ 377, p. 371) e che mostra tutta la sua micidiale forza di incomprensione, equivoco e miseria nel discorso pubblico – i Social Network ad esempio – che fa costantemente appello alle esperienze di vita, ai casi concreti, al sapere che cosa si prova (al ‘vieni in un ospedale se vuoi capire il covid’), psicologismo sentimentalistico che merita parole assai chiare come queste: 

Quando un uomo, discutendo di una cosa, non si appella alla natura e al concetto della cosa, o almeno a ragioni, all’universalità dell’intelletto, ma al suo sentimento, non c’è altro da fare che lasciarlo stare; perché egli per tal modo si rifiuta di accettare la comunanza della ragione, e si richiude nella sua oggettività isolata, nella sua particolarità (§ 447, p. 439). 

Al di là della presunzione che si lega alla parola filosofia, che molti pensano di poter praticare soltanto perché sono dotati di un encefalo e vivono le loro esperienze; che vuol dire presunzione di fare filosofia senza averla mai studiata: 

A questa scienza tocca spesso lo spregio che anche coloro che non si sono affaticati in essa, s’immaginano e dicono di  comprendere naturalmente di che cosa tratti, e d’esser capaci, col solo fondamento di un’ordinaria coltura e in particolare dei sentimenti religiosi, di filosofare e giudicar di filosofia. Si ammette che le altre scienze occorra averle studiate per conoscerle, e che solo in forza di siffatta conoscenza si sia facoltati ad avere un giudizio in proposito. Si ammette che, per fare una scarpa, bisogna avere appreso ed esercitato il mestiere del calzolaio, quantunque ciascuno abbia la misura della scarpa nel proprio piede, e abbia le mani e con esse la naturale abilità per la predetta faccenda. Solo per filosofare non sarebbero richiesti né studio, né apprendimento, né fatica (§ 5, p. 8).

A queste piccole e grandi miserie, ai tanti equivoci, ai pregiudizi e all’incomprensione, alla superficialità e alla banalità, Hegel oppone la filosofia intesa come «la considerazione pensante degli oggetti» (§ 2, p. 4); la filosofia come storia del proprio inverarsi e divenire, la filosofia come storia della filosofia ma anche e soprattutto la filosofia come sistema poiché «un contenuto ha la sua giustificazione solo nel momento del tutto, e fuori di questo è un presupposto infondato o una certezza meramente soggettiva; molti scritti filosofici si restringono in tal modo ad esprimere soltanto pareri e opinioni» (§ 14, pp. 22-23).

Con questo approccio sistematico e oggettivo, Hegel coglie alcuni elementi fondamentali e fondanti dell’umano e del tempo. Dell’umano come vita animale coglie il «sentimento d’insicurezza, di angoscia, d’infelicità» (§ 368, p. 362), l’essere l’individuo un epifenomeno della specie che ne fa uno strumento della propria sopravvivenza, riproduzione, moltiplicazione, la sua destinazione mortale: «Il genere si mantiene solo mediante la rovina degli individui; i quali nel processo dell’accoppiamento adempiono alla loro destinazione e, in quanto non ne hanno un’altra più elevata, vanno così incontro alla morte» (§ 370, p. 363), morire che è la vera attività dell’individuo, il significato della parte, il destino del singolo, le cui passioni effimere non vanno giudicate, condannate, respinte ma ancora una volta comprese, poiché «la passione non è né buona né cattiva: questa forma esprime soltanto che un soggetto ha posto in un unico contenuto tutto l’interesse vivente del suo spirito, dell’impegno, del carattere, del godimento. Niente di grande è stato compiuto, né può esser compiuto, senza passione. È soltanto una moralità morta, e troppo spesso ipocrita, quella che inveisce contro la forma della passione in quanto tale» (§ 474, p. 468).
La comprensione della natura parziale dei singoli, degli enti, degli eventi, permette a Hegel di dar conto del tempo come sinonimo della stessa realtà e come sinonimo del nulla nel quale la realtà costantemente si riversa. Non è nel tempo che tutto nasce, muore, accade ma «il tempo stesso è questo divenire, nascere e morire; è l’astrarre che insieme è; è Kronos, produttore di tutto e divoratore dei suoi prodotti. – Il reale è diverso dal tempo, ma gli è altresì essenzialmente identico» (§ 258, p. 234) in quanto la struttura finita e diveniente delle cose rende ogni elemento finito – e ogni cosa è finita – del tutto «passeggiero e temporale», come si vede dal fatto che il finito si comporta di fronte alla negatività come «alla potenza che lo domina [zu seiner Macht]» (Ibidem). Il tempo è l’incontro tra la realtà e il nulla, dove l’una non sarebbe possibile senza l’altra. Un convergere che chiamiamo divenire:

Le dimensioni del tempo, il presente, il futuro e il passato, sono il divenire come tale dell’esteriorità, e la risoluzione di quel divenire nelle differenze dell’essere, da un lato, che è trapasso in nulla, e del nulla, dall’altro, ch’è trapasso in essere. Lo sparire immediato di queste differenze nella individualità è il presente, come ora [questo istante, als Jetzt], il quale ora, essendo, come l’individualità, insieme esclusivo e affatto continuo negli altri momenti, non è altro che questo trapasso del suo essere in niente e del niente nel suo essere (§ 259, 235).

Il presente è l’istante che non è pronto a dileguare nel nulla ma che consiste proprio in tale dileguare. L’insieme dei dileguanti nello spaziotempo è l’assoluto e da ciò segue «la seconda definizione dell’assoluto: che esso è il niente» (§ 87, p. 102), il quale è quindi l’altro nome dell’essere. La verità dell’essere e del niente nella loro unità è appunto il divenire, che «è la vera espressione del risultato di essere e niente come l’unità di essi: e non è soltanto l’unità dell’essere e del niente, ma è l’irrequietezza in sé» (§ 88, p. 107).

Questi contenuti ed esiti teoretici costituiscono il nucleo sempre fecondo della metafisica hegeliana, che però li coniuga a qualcosa che nella sua essenza è l’opposto di una comprensione oggettiva della finitudine della parte nella perfezione dell’intero. Tale opposto consiste nell’essere quella hegeliana anche una filosofia radicalmente religiosa, cristiana e dunque antropocentrica.
In una delle Prefazioni, quella alla seconda edizione del 1827, Hegel scrive con chiarezza che «la religione può sì sussistere senza la filosofia, ma la filosofia non può sussistere senza la religione, ché anzi la include in sé» (p. XCIII), una tesi che attraversa tutta l’Enzyclopädie sino alla fine, sino alla identificazione di eticità, religione e Stato (§ 552). Questa religione è una ben precisa religione, è il cristianesimo nella sua forma luterana. Una fede che si presenta come razionale, che crede nella teleologia della storia, nella storia come Provvidenza, «in fondo» alla quale sta «uno scopo finale in sé e per sé, (§ 549, p. 520) e che in questo fine accomuna «il principio della coscienza religiosa e della coscienza etica» in «una e medesima cosa nella coscienza protestante» (§ 552, p.  536).
Data la natura radicalmente antropocentrica del cristianesimo, una filosofia apologetica di tale religione non può che cadere in una forma di antropocentrismo assoluto, come quello che innerva questa pagina:

Allorché gli individui e i popoli hanno accolto una volta nella loro mente il concetto astratto della libertà per sé stante, nient’altro ha una forza così indomabile; appunto perché la libertà è l’essenza propria dello spirito, e cioè la realtà stessa. Intere parti del mondo, l’Africa e l’Oriente, non hanno mai avuto questa idea, e non l’hanno ancora: i Greci e i Romani, Platone e Aristotele, ed anche gli stoici non l’hanno avuta: essi sapevano, per contrario, soltanto che l’uomo è realmente libero mercé la nascita (come cittadino ateniese, spartano ecc.) o mercé la forza del carattere e la coltura, mercé la filosofia (lo schiavo, anche come schiavo e in catene, è libero). Quest’idea è venuta nel mondo per opera del cristianesimo; pel quale l’individuo come tale ha valore infinito, ed essendo oggetto e scopo dell’amore di Dio, è destinato ad avere relazione assoluta con Dio come spirito, e far che questo spirito dimori in lui, cioè l’uomo è in sé destinato alla somma libertà  (§ 482 , pp. 473-474).

La sintesi e il culmine di un antropocentrismo che disprezza profondamente la materia, il cosmo, gli astri, la luce, è un’annotazione di filosofia della natura che si legge a conclusione del paragrafo 248: «E, anche quando l’accidentalità spirituale, l’arbitrio, giunge fino al male, perfino il male è qualcosa d’infinitamente più alto che non i moti regolari degli astri e l’innocenza delle piante; perché colui, che così erra, è pur sempre spirito» (p.  223).
Il paragrafo 392 ribadisce la patetica sensazione/convinzione di superiorità dell’umano sul cosmo, individuando nello spirito una separazione e differenza dalla materia cosmica, separazione che negli altri animali non si dà e che anche per questo li renderebbe inferiori: «La storia del genere umano non è in dipendenza dalle rivoluzioni nel sistema solare; né le vicende degli individui dalle posizioni dei pianeti. […] Con la libertà dello spirito che comprende sé stessa in modo più profondo, spariscono anche codeste poche e meschine disposizioni, che si fondano sul convivere dell’uomo con la natura. L’animale, invece, come la pianta, vi rimane sottoposto» (p. 384).
Una filosofia così radicalmente umanistica rappresenta un momento assai chiaro dello smarrimento dell’umano rispetto all’intero, della dimenticanza dell’ontologia, della incomprensione dell’essere, pensato come il più generico e vuoto dei concetti, «l’elemento immediato semplice e indeterminato» (§ 85, p. 101). Anche a proposito della prova ontologica dell’esistenza di Dio, Hegel ribadisce che «pel pensiero, nel riguardo del contenuto, non si può dar nulla di più povero che l’essere» (§ 51, p. 66).
E invece sta proprio nella centralità dell’essere rispetto agli enti, dell’intero rispetto alle sue parti, della materia cosmica rispetto alla materia cerebrale che elabora idee sul mondo, sta nella struttura del mondo la ragione che rende possibile la redenzione filosofica, il fatto che la filosofia sia «appunto quella dottrina, che libera l’uomo da un’infinita moltitudine di scopi e mire finite, e lo fa verso di esse indifferente, in modo che per lui è il medesimo che quelle cose sieno o non sieno» (§ 88, p. 104).
L’Enzyclopädie si chiude con una citazione aristotelica, dal libro λ della Metafisica (1072b). Se davvero il divino è ζωὴ ἀρίστη καὶ ἀΐδιος, vita perfetta ed eterna, è perché esso è diverso dall’umano e dai suoi limiti, che sono certamente anche limiti psicologici e somatici ma prima di tutto e fondamentalmente sono limiti ontologici.

Hegel

Luca Illetterati – Paolo Giuspoli – Gianluca Mendola
Hegel
Carocci Editore, 2017
Pagine 355

Il lavoro del concetto è volto anche a superare «la scissione e la lacerazione che attraversano tutti i livelli della vita» (p. 18). Superamento dal quale possa emergere «la struttura razionale del mondo» (11), elaborando una prospettiva e un sapere che cerchino di intendere razionalmente la molteplicità, varietà, negatività e incomprensibilità dell’esperienza umana. «La filosofia costituisce per Hegel anche la risposta al problema avanzato da Aristotele sulla possibilità umana di partecipare a una dimensione di pura scienza, libera dalle strutture spazio-temporali che vincolano il pensiero agli oggetti finiti e instabili dell’esperienza ordinaria» (298). Prima ancora che aristotelico, questo è un gesto eleatico, fiducioso nella identità del pensare con l’essere, della logica con la metafisica. Una logica metafisica il cui motore teoretico consiste in «un incessante e mai concluso processo di autorealizzazione e di autocomprensione» (325).
Per questo è necessario comprendere la necessità del negativo, il suo costituire una dimensione intrinseca alla razionalità dell’intero. Se omnis determinatio est negatio, è anche perché il presentarsi di un ente rende impossibile il presentarsi di ogni altro ente nello stesso luogotempo; perché l’evento che sta accadendo esclude una quantità innumerevole di altri eventi, perché ogni processo è sempre e solo l’attualizzazione di una determinata potenzialità a esclusione di molte altre che pure sarebbero state possibili. Il non, la negazione, il nulla sono quindi impliciti nell’essere non come suo residuo, non come sua accidentalità, non come suo ostacolo ma come la condizione stessa nella quale e attraverso la quale enti, eventi e processi sono resi possibili, si danno, ci sono. Questo nulla intrinseco alle strutture dell’essere è la differenza, è «die Zauberkraft, die es in das Sein umkehrt», la magica forza che volge il negativo nell’essere, una forza posta a coerente conclusione di una delle più chiare affermazioni del negativo che siano state pensate:

«Aber nicht das Leben, das sich vor dem Tode scheut und von der Verwüstung rein bewahrt, sondern das ihn erträgt und in ihm sich erhält, ist das Leben des Geistes, Er gewinnt seine Wahrheit nur, indem er in der absoluten Zerrissenheit sich selbst findet. Diese Macht ist er nicht als das Positive, welches von dem Negativen wegsieht, wie wenn wir von etwas sagen, dies ist nichts oder falsch, und nun, damit fertig, davon weg zu irgend etwas anderem übergehen; sondern er ist diese Macht nur, indem er dem Negativen ins Angesicht schaut, bei ihm verweilt. Dieses Verweilen ist die Zauberkraft, die es in das Sein umkehrt»

(Die Phänomenologie der Geistes, «Gesammelte Werke», IX, p. 27)

«Ma non quella vita che inorridisce dinanzi alla morte, schiva della distruzione; anzi quella che sopporta la morte e in essa si mantiene, è la vita dello spirito. Esso guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare sé nell’assoluta devastazione. Esso è questa potenza, ma non alla maniera stessa del positivo che non si dà cura del negativo: come quando di alcunché noi diciamo che non è niente o che è falso, per passare molto sbrigativamente a qualcos’altro; anzi lo spirito è questa forza sol perché sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui. Questo soffermarsi è la magica forza che volge il negativo nell’essere»

(Fenomenologia dello Spirito, trad. di E. De Negri, La Nuova Italia 1985, vol. I, p. 26)

Negativo significa anche che ciò che era si è dissolto e ciò che sarà ancora non è. Per questo il tempo è una delle più chiare forme, forse la più chiara, della necessità, vastità e potenza del negativo. Il cui nome necessario e fecondo è il divenire che non mira ad alcun risultato definitivo ma costituisce il processo in cui l’essere accade, è la struttura dentro la quale l’essere si rende visibile. La verità, qualunque elemento si intenda con tale parola, è la concretezza e dunque il limite del divenire. Per questo la verità non potrà mai darsi in forma definitiva ma sempre come processo. Per questo rispetto alla quieta e apparente stabilità dello spazio il tempo «è l’assoluta inquietudine di ciò che, mentre è, non è, e mentre non è, è» (213). Per questo la finitudine è intrinseca alla condizione ontologica del cosmo fatta di enti che sono eventi e la cui natura è quindi il dileguare.
Pertanto non è solo alla del tutto trascurabile componente biologica dell’essere che è intrinseca la finitudine. Ciò che per il vivente – vegetale o animale che sia – si chiama morire, è in realtà l’esperienza universale del trapassare in altro, del metabolismo, della metamorfosi, dell’entropia. La struttura biologica aggiunge piuttosto all’universale potenza del dileguare la particolarità di farlo in quel «tentativo essenzialmente ‘disperato’» (230) che è la riproduzione di una copia somigliante a sé, nella quale due entità entrambe del tutto finite presumono di differire il loro dileguarsi. Questo tentativo è una delle espressioni più chiare, drammatiche e banali della schlechte Unendlichkeit, della cattiva infinità che non smette mai di aggiungere vite a vite e dunque morte a morte:

«Dieser Prozeß der Fortpflanzung geht hiermit in die schlechte Unendlichkeit des Progresses aus. Die Gattung erhält sich nur durch den Untergang der Individuen, die im Prozesse der Begattung ihre Bestimmung erfüllt [haben] und, insofern sie keine höhere haben, damit dem Tode zugehen»

(Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, in «Gesammelte Werke», XIX, § 370)

«Questo processo della propagazione riesce alla mala infinità del progresso. Il genere si mantiene solo mediante la rovina degli individui; i quali nel processo dell’accoppiamento adempiono alla loro destinazione e, in quanto non ne hanno altra più elevata, vanno così incontro alla morte»,

(Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, trad. di B. Croce, Mondadori, 2008, § 370, p. 363).

Porsi a questo livello di comprensione del mondo non può che lasciare dietro di sé ogni etica in quanto effetto e manifestazione dello sguardo parziale sull’intero. Qui sta certamente uno dei gesti più spinoziani, e quindi radicali, di Hegel, il quale «è fermamente convinto che una considerazione filosofico-scientifica della storia sia incompatibile con una sua valutazione etica sulla base dei principi astratti e che la considerazione scientifica della storia consiste invece nel comprendere le ragioni per cui la situazione mondiale è così com’è» (292).
Questa radicalità salva la dialettica hegeliana dal rischio intrinseco a ogni idealismo e ben presente, nonostante il suo mirare all’oggettività, a chi ritiene in modo inevitabilmente cartesiano («mit Cartesius […]  können wir sagen, sind wir zu Hause», ‘con Cartesio possiamo dire d’essere a casa’, Lezioni sulla storia della filosofia, Laterza 2009, p. 469) che il pensare preceda cronologicamente e soprattutto logicamente l’essere e che dunque il pensare non debba né possa presupporre nulla prima di sé: «Questo carattere di ‘autofondatività’ – carattere che costituisce l’elemento insieme più specifico e più problematico del discorso filosofico hegeliano – è quello che consente alla scienza di essere a differenza del sistema delle conoscenze, un sapere della totalità» (104).
L’antropocentrismo idealistico hegeliano rimane comunque sempre un tentativo di pensare l’oggettività dell’essere, del nulla e del divenire; tentativo nel quale la filosofia è certamente «scienza in un senso più radicale rispetto a quanto non lo siano le scienze positive» (104), è certamente scienza del mondo nel senso che essa pensa il mondo ed è il mondo che nella filosofia pensa se stesso.

Gentile

Giovanni Gentile
in Vita pensata, numero 22, maggio 2020
pagine 70-79

Le parole di modestia che Giovanni Gentile formula nella prefazione del 1920 al suo capolavoro non costituiscono un’affermazione di circostanza ma sono già parte coerente del sistema: «Ogni libro è via, e non mèta; vuol essere vita, non morte. E finché si vive, convien continuare a pensare» (Teoria generale dello spirito come atto puro, p. 75). L’attualismo è anche e specialmente questo già e non ancora, è una tensione verso un assoluto fuori dal tempo e fondante il reale che però si dispiega tutto nell’atto temporale del suo farsi. È, questa, una delle più feconde contraddizioni non di Gentile soltanto ma dell’intera storia della metafisica. Perché non è una semplice contraddizione ma costituisce il tentativo di intendere, cogliere e spiegare l’unità molteplice del mondo, la differente identità del reale
In questo saggio ho tentato una sintesi di una filosofia complessa, molto lontana dalle mie prospettive e dunque feconda del confronto. Gentile rappresenta il culmine di ogni possibile idealismo e anche per questo lo capovolge in un immanentismo radicale. Ben se ne accorse la Chiesa cattolica che inserì le sue opere nell’Indice dei libri proibiti.
Nel testo non si trova nessun riferimento alla pedagogia gentiliana, che merita un’analisi a parte, fondata com’è sulla struttura socratica del fatto educativo, il quale non è frutto né del maestro né dell’allievo ma della loro relazione.
Il saggio è diviso nei seguenti paragrafi:

  • Un trionfo della soggettività?
  • Estetica, linguaggio, ermeneutica
  • Gnoseologia, fisica, antirealismo
  • Filosofia pratica
  • Ontologia e logica
  • Gentile antimetafisico
  • Essere e verità
  • Immanentismo
  • Divenire e processo

Metafisica

Giovedì 5 aprile 2018 alle 16,00 nell’aula 252 del Dipartimento di Scienze Umanistiche di Catania terrò un seminario dal titolo «Metaphysics is now respectable again». Si  tratta della prima lezione di un laboratorio organizzato da alcuni docenti e studenti del Disum, dedicato a Filosofia analitica e continentale.
La linea teoretica sulla quale mi muoverò parte dall’assunto che la filosofia consista  anche nel comprendere ciò che siamo dentro l’intero che noi non siamo. Per questo il  metodo e la natura del lavoro filosofico sono fenomenologici e consistono anche nell’autocorrezione della tendenza idealistica, la quale subordina gli enti alla loro conoscenza da parte di un corpomente,  e nell’autocorrezione della tendenza realistica di un corpomente che ritiene di poter conoscere il mondo prescindendo da sé.
In realtà, ogni pensiero che si esprime sul mondo, ogni parola che dice il reale, ogni sentire estetico, concetto logico, legge fisica, hanno come fondamento una metafisica, esplicita  o implicita che sia. E questo va detto anche al di là di Nietzsche, al di là di Heidegger. E certamente al di là di ogni riduzionismo.

Vai alla barra degli strumenti