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Мастер и Маргарита

Il Maestro e Margherita
(Мастер и Маргарита)
di Michael Lockshin
Russia, 2024
Con: Evgeniy Tsyganov (Il Maestro), August Diehl (Woland), Yuliya Snigir (Margherita), Claes Bang (Ponzio Pilato)
Trailer del film

Una di quelle opere impossibili da trasformare in immagini cinematografiche, perché sono esse stesse una visione. Anche questo è Il Maestro e Margherita (1940, I edizione 1966), opera cosmo, opera colma di libertà, satira, ironia e metafisica. Per questa sua natura è opera appunto impossibile da trasporre in immagini, come la Commedia di Dante, come la Recherche.
E infatti il film seleziona alcuni aspetti della trama e solo quelli: il conflitto tra il potere sovietico, nella forma del Sindacato Scrittori, e un drammaturgo e narratore, la cui opera dedicata a Ponzio Pilato viene cancellata dalla programmazione teatrale di Mosca; il rapporto tra questo scrittore e la sua Musa, una bellissima donna incontrata per caso e con la quale la consonanza è immediata; alcune delle azioni che, negli anni Trenta del Novecento, vengono attuate nella capitale sovietica da un consulente in magia nera, il tedesco Prof. Woland e dal suo bizzarro sèguito composto dal fedele Korov’ev-Fagotto, dall’enorme gatto nero Behemoth, da Azazello, dalla strega Hella sempre nuda e da Abadonna, la nuda morte.
Per esplicita ammissione del regista la vicenda viene declinata in una chiave fantasy che in realtà indebolisce il film poiché bastava anche in questo caso attenersi all’immaginazione di Bulgakov, che è assai più che fantasy, è inventrice di mondi e della loro verità . Chi conosce il libro può certamente gustare alcuni episodi del film che mettono in scena alcune sue parti. Chi non lo ha letto, però, difficilmente può farsi un’idea dell’abisso di pensiero che Мастер и Маргарита rappresenta.

Soprattutto due sono i limiti di questa messa in immagini.
Il primo è l’assenza della dimensione metafisica (sostituita appunto da quella fantasy), che pure lo stesso regista dice di essersi esplicitamente proposto di rappresentare.
Il secondo è lo spazio relativamente scarso dato al cuore del romanzo di Bulgakov, che non è la storia d’amore, non è il potere sovietico, non è neppure la potenza del Diavolo ben superiore a tutte le umane istituzioni. Il cuore del Maestro e Margherita è il rapporto tra il procuratore della Giudea Ponzio Pilato e l’imputato Gesù, portatogli davanti dal Sinedrio ebraico. «Se parleranno di me, parleranno subito anche di te!» dice Gesù a Pilato. E infatti ogni domenica in tutte le chiese cattoliche del mondo si ascoltano le seguenti parole: «Crucifixus etiam pro nobis sub Pontio Pilato; passus et sepultus est».
E invece nel film l’affermazione di Gesù scompare, insieme a molte altre. Il dialogo tra i due è scandito in latino (è sempre bello ascoltare questa lingua al cinema) e alla domanda di Pilato «Quid est veritas?» Gesù risponde, contrariamente al silenzio testimoniato dai Vangeli. Risponde penetrando nel cuore di Pilato, il quale sente che «tremendo si mostrava ora il dio ai suoi occhi», come ha aggiunto un altro grande narratore, Dürrenmatt.
Il romanzo si chiude certo sul Maestro e Margherita finalmente uniti ma l’ultima sua parola è per «il figlio del re astrologo, il crudele quinto procuratore della Giudea, il cavaliere Ponzio Pilato», che nel film di Lockshin non c’è più.

Vi appaiono invece esigenze di propaganda temporanea che danneggiano sempre un’opera d’arte. Per fortuna esse non toccano il film, che può essere tranquillamente visto e gustato prescindendo del tutto dalla Russia contemporanea. Esse toccano piuttosto il modo nel quale l’opera di Lockshin viene presentata nelle sale italiane. Ho visto infatti il film al cinema Anteo di Milano, in russo e in un’anteprima alla quale ha partecipato anche il regista, in collegamento da Londra.
A porgli le domande è stata una giornalista, della quale per fortuna non ricordo il nome, che lavora per un’agenzia di stampa italiana. Le domande tendevano tutte a proporre e a sottolineare il legame tra il film e l’opposizione al governo di Vladimir Putin. Ma Il Maestro e Margherita non è un romanzo – né lo è il film – contro Putin o contro Trump o contro questo o quell’uomo politico pro tempore al potere. Il romanzo è anche un disvelamento del potere in quanto tale, poiché «ogni potere è violenza sull’uomo» come Gesù dice a Pilato sia nel libro sia nel film.
Il regista è certamente critico verso l’attuale governo russo (per quello che si poteva capire da una traduzione in tempo reale fatta malissimo, come mi hanno confermato degli spettatori russi presenti in sala) ma rispondendo alle domande ha sottolineato (come era naturale che facesse) il significato «universale» sia del romanzo sia del suo tentativo di trasformarlo in immagini. E invece la propaganda filoatlantica non perde proprio occasione per mostrare la propria natura rachitica, capace solo di ricondurre ogni evento alla propria piccola e trascurabile dimensione provinciale.
La giornalista parlava di ‘pericoli di censura’. E però il film è stato all’inizio finanziato dal governo russo ed è liberamente uscito nelle sale di quel Paese. I pericoli di censura ci sono sì, sono grandi e riguardano ogni tesi, prospettiva, interpretazione e lettura che si discostino dall’occidentalismo e dal politicamente corretto che ammorbano le nazioni europee.
Ma per fortuna possiamo ancora guardare il mondo anche attraverso gli occhi di Woland, occhi che sono «una scintilla dorata, che avrebbe penetrato fin nell’intimo qualsiasi anima, il sinistro vuoto e nero, una specie di stretta cruna angolare, un orifizio nel pozzo senza fondo di tutte le tenebre e di tutte le ombre». Attraversare queste ombre è forse inevitabile per cogliere, sempre rinnovata e sempre necessaria, la luce delle libertà.

Aldous

Aldous è una rivista, «blog di difesa concettuale», che da alcuni anni svolge un lavoro di analisi critica dei dogmi e dei luoghi comuni che intramano le società contemporanee, in particolare di quelli che riguardano il mondo della scuola, dell’università e della cultura, ma non soltanto di essi.
Da alcuni giorni è stato diffuso sul sito della rivista/blog un Vademecum per i collaboratori che è molto più di una guida tecnica, è un vero e proprio manifesto politico.
La prima sezione ha come titolo Aspetti pratici: brevi e sparse avvertenze; l’incipit recita «Da buoni ammiratori di Illich poche regole e meramente pratiche».
La seconda sezione concerne gli Aspetti di genere letterario ovvero tassonomia della rivista culturale. In essa si dice con chiarezza quali tipi di testi sono adatti alla rivista e quali non lo sono, spiegando perché. Un utilissimo esercizio di discernimento anche a proposito dei diversi generi letterari nei quali la conoscenza e la comunicazione si esprimono, al di là dunque della omologante melassa dei social network.
Il vademecum è stato redatto dal fondatore della rivista, Davide Miccione, ed è stato discusso con la redazione. Invito a leggere le due prime sezioni sul sito di Aldous, del quale qui sopra ho inserito il link, o nel pdf che chiude questo testo. Riporto invece per intero il nucleo politico del Vademecum, il cui titolo è: Aspetti di contenuto ovvero Aldous non è ‘la Repubblica’.

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Anche qualora le avvertenze precedenti siano state rispettate, il grosso non è stato ancora detto. Si consideri che la più gran parte degli articoli che trovate pubblicati nelle pagine culturali dei quotidiani e degli editoriali dei quotidiani e delle riviste e infine nelle rubriche dei settimanali rispetta le avvertenze dei due precedenti capitoletti di questo prontuario, ma molti non li pubblicheremmo neanche morti. Anzi, un buon sistema euristico per capire se quello che scrivete è adatto ad Aldous è proprio quello di chiedervi: “questo articolo sarebbe, per contenuti, gradito a La Stampa, la Repubblica, Il Corriere?”. Se la risposta è sì (a meno che non vi stiate riferendo al Corriere degli anni Settanta dei Crespi dove pubblicava Pasolini) al 99,9 per cento il vostro pezzo non è adatto ad Aldous.

Aldous non nasce per far soldi (non ha pubblicità né abbonamento), anzi costa qualcosina a chi lo fa, e non nasce per fare successo (è volutamente assente dai principali social, da X a Instagram). Aldous nasce a inizio 2021, in pandemia, di fronte all’incredibile restringimento dei pensieri della maggioranza degli italiani e prende questo nome per segnalare la natura distopica di questi tempi in cui viviamo. Vede gli anni a partire dal 2020 come gli anni del disvelamento (Cfr. A. G. Biuso, Disvelamento, Algra 2022), della natura disumanizzante del potere in cui ci siamo trovati a vivere.

Oltre al bruto esercizio della forza, il Potere (se lo trovate troppo reificato scritto così, sostituitelo nella vostra testa con La classe dominante) si mantiene e si rafforza attraverso una stenosi del pensiero e della lettura degli eventi che vengono, a scelta, ignorati, inventati e/o deformati. Così l’integrato di destra penserà di salvare la morale pubblica perseguendo chi si fa uno spinello e l’integrato di sinistra perseguendo chi fa il saluto romano anche se né chi lo fa né chi lo persegue saprebbero spiegare nulla del complesso fenomeno storico del fascismo. Gli integrati (di destra, di sinistra e della palude) subiscono la stenosi del pensiero attraverso la frequentazione di alcuni deliranti topics:

  • Costruzione della finta contrapposizione tra sinistra e destra. Una subspeciazione artificiale per dare alla gente l’idea che possa scegliere. Per chi rimane irrimediabilmente ingenuo, consiglio di osservare le maggioranze quando si fa veramente sul serio e si toccano gli interessi del potere e si capirà che la divisione è un miraggio (Ursula, Draghi, eccetera).
  • Costruzione della destra come luogo del nazionalismo (il governo Meloni è uno dei governi più atlantisti del dopoguerra. Serve altro?).
  • Costruzione della sinistra come luogo della difesa della libertà (green pass, proposta dei verdi del reato di negazionismo climatico; censura sotto la finzione del hate speech; politicamente corretto, eccetera).
  • Costruzione dell’olocausto come assoluta singolarità della storia e come riferibile solo agli ebrei (con buona pace di curdi, armeni, rom, palestinesi, aztechi, nativi americani, schiavi africani, briganti calabresi e persino Neanderthal e tutti i poveri massacrati dell’orribile storia umana) impedendo che diventi exemplum per ogni malvagità e totalitarismo alimentando così una morale strabica.
  • Costruzione dei due fantocci del Fascismo eterno e del Comunismo eterno per impedire di studiarli, criticarli (abbiamo il dovere, sembrerebbe, solo di esecrarli, atto ben poco intellettuale) e ridurre l’intervallo di pensabilità al solo mero capitalismo. Il comunismo eterno è stato teorizzato e agito da Berlusconi e il fascismo eterno da Eco (qui simili nella astoricità barbarica).
  • Rifiuto di pensare i totalitarismi prossimi venturi (persi a baloccarci con gli avvistamenti di manganelli e fasci littori) o perlomeno i loro candidati più promettenti: i robber barons al silicio (da Musk a Gates, senza distinzione di momentanea allocazione finto-politica); l’ecologismo come sistema di sottomissione dell’uomo come agente inquinante (soprattutto se è povero: il jet del ricco è infatti sempre fuori fuoco e non lo vediamo bene); il programma di salvezza tramite sanità (pubblica nelle perdite e privata nei guadagni) del neoleviatano OMS eccetera.
  • Rifiuto di cogliere il carattere di sperimentazione autoritaria e addestramento all’obbedienza del triennio pandemico.
  • Rifiuto di cogliere la spinta disumanizzante della attuale situazione tecnologica che si prepara a un salto eteronomo forse definitivo con l’IA, baloccandoci invece con “gli strumenti dipende da come li usi” e simili amenità.
  • Trasformazione della lotta tra male e male, tra democrature finto ideologiche e postdemocrazie a trazione finanziaria in lotta tra il bene (casualmente sempre noi) e il male (casualmente sempre loro).
  • Messa in scena di fantasiose divisioni sociali (tra genderisti e antigenderisti; patriarcali e antipatriarcali eccetera) che possano coprire quelle vere, a occhio e croce poveri e ricchi o inclusi ed esclusi.

Cosa in costruens questo significhi non lo sappiamo e vorremmo scoprirlo con il contributo dei redattori e dei collaboratori ma restare all’interno del trompe l’oeil che abbiamo cercato sommariamente di descrivere sarebbe un’attività inutile, fosse solo perché è già il luogo dove ci troviamo e dove già ci raggiungono le immagini della tivù, le parole delle radio, i testi dei giornali e i documenti delle istituzioni.
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Vademecum per i collaboratori di Aldous (pdf)

Eurofollie

Una conferma della natura criminale dell’Unione Europea è che ciò che non si poteva fare per salvare la sanità, i bambini, gli anziani, la formazione scolastica e universitaria, i trasporti, il lavoro (in Grecia e in tutta Europa) è ora legittimo, richiesto e voluto per continuare una guerra e incrementare il militarismo, per distruggere in tal modo le risorse e le vite dei cittadini europei.
Cittadini che sembrano per la più parte passivi, rinchiusi nella loro bolla televisiva, tanto che a volte ho il cattivo pensiero che non mi dispiacerebbe vedere andare a morire in Ucraina i figli degli italiani, dei tedeschi, dei francesi, dei danesi e degli altri che hanno affidato le loro esistenze a un ceto politico così sciocco e così folle come quello che pensa seriamente che la Russia voglia invadere l’Europa e che ha fiducia nel governo di Ursula von der Leyen, personaggio che sta al di là di ogni giudizio, di ogni razionalità, di ogni decenza.
Il fatto è che i decisori politici liberali che governano l’Europa e la UE sono ormai affetti da una dissonanza cognitiva, da un distacco così inaudito dal reale, che se non verranno fermati condurranno il Continente all’autodistruzione.
Questi decisori politici pensano e agiscono secondo l’antico principio colonialista, con la convinzione di essere gli unici detentori della Civiltà, del Bene e della Verità. Una convinzione che ha condotto l’Europa al suo trionfo ma che ora la instrada verso la dissoluzione. Contro tale colonialismo va ribadito che gli altri popoli e le altre culture non hanno nessun dovere di conformarsi ai principi liberali e capitalistici, gli altri hanno le loro culture e i loro sistemi.
E invece siamo ormai alla psicopolitica. L’Europa tramonta nella follia. Una patologia che in Italia è stata di recente testimoniata da quanti hanno scoperto il patriottismo per continuare a danneggiare i cittadini, per ridurli alla miseria e alla morte. E che sono scesi in piazza per chiedere più armi, il che vuol dire meno servizi, meno sanità, meno scuola e formazione, meno trasporti. Si tratta di un evidente caso di masochismo collettivo. Un masochismo ben stimolato e guidato dai giornalisti in generale e in particolare da quelli del gruppo GEDI, come la Repubblica che è proprietà degli Elkann-Agnelli produttori di armi che intendono convertire le loro fabbriche di automobili in fabbriche appunto di armi.
A 110 anni dalle piazze che nel 1915 reclamarono e ottennero la sciagurata partecipazione dell’Italia alla Prima guerra mondiale tornano le piazze interventiste guidate da bolsi e ormai grotteschi personaggi del giornalismo, del cinema, della canzone (tutti con redditi consistenti). Piazze incoraggiate dal Partito Democratico e dai suoi satelliti politici e sindacali. Questo è il progressismo del PD, delle piazze asservite ai padroni «europeisti», dei buoni.
Dell’Unione Europea si può dire ciò che afferma Francesco Berni nel suo rifacimento dell’Orlando Innamorato di Matteo Maria Boiardo (canto LIII, ottava 60): «Così colui, del colpo non accorto, / andava combattendo, ed era morto».
La condizione affinché l’Europa continui a vivere è che l’Unione Europea e la NATO si dissolvano.

Scorrono

Oh, Canada
di Paul Schrader
USA, 2024
Con: Richard Gere (Leo Fife), Jacob Elordi (Leo Fife giovane), Uma Thurman (Emma/Gloria), Michael Imperioli (Malcom)
Trailer del film

Scorrono scorrono le immagini della vita, le sue memorie, mentre un tumore divora il corpo e ogni giorno, ogni ora potrebbero essere gli ultimi.
Scorrono scorrono le parole, il fiume di parole che Leonard Fife rivolge tramite una telecamera a sua moglie e ai vecchi allievi che lo stanno intervistando, convinti di documentare il testamento di un grande regista e fotografo, che ha filmato le tragedie e i crimini degli Stati Uniti d’America, la violenza contro gli altri animali, la pedofilia nelle Chiese. E che si rifugiò in Canada per non andare a massacrare i vietcong nella guerra scatenata dagli USA contro il Vietnam.
Scorrono scorrono le bugie che si trasformano in verità, poiché Leonard non vuole più fingere e dalle sue parole lucide e insieme scomposte, dai gesti decisi e affaticati, dallo sguardo determinato e perduto, emerge la vita di un uomo che nulla ha avuto di eroico, come ha sinora invece fatto credere. Un’esistenza affastellata di silenzi, inganni, doppiezze, amori non amori e soprattutto fughe, a cominciare da quella che lo portò in Canada non per ragioni politiche ma per semplice, pur se comprensibilissima, codardia.
Scorrono scorrono gli sguardi increduli dei suoi amici, le lacrime della moglie, l’urina nella sacca. Prima che la fatica di respirare sbarri l’ultima e sempre fallita fuga.
Scorre scorre sugli eventi lo sguardo calvinista che diventa in Paul Schrader uno scavo sempre più affranto dentro la miseria umana.
Il contatore di carte (2021) disegnava una cupa atmosfera di colpa e di infamia. Il maestro giardiniere (2022) abitava Gracewood, luogo di inquietudine ma anche di una paradossale grazia. Il Canada di questo film è il tempo che scorre, redime, condanna, rende vecchi e fa morire. Il luterano Søren Kierkegaard e il cattolico Eugenio Mazzarella sostengono entrambi che «il corpo e la sua morte restano i più grandi pensatori». Scorrono in questo film il senso e la luce di tale affermazione.

Giornalisti

Illusioni perdute
(Illusions Perdues)
di Xavier Giannoli
Francia, 2021
Con: Benjamin Voisin (Lucien), Cécile De France (Louise), Xavier Dolan (Nathan), Vincent Lacoste (Etienne Lousteau), Salomé Dewaels (Coralie), Gérard Depardieu (Dauriat), Jeanne Balibar (Marquise d’Espard)
Trailer del film

Per Marcel Proust il miglior romanzo di Balzac è Illusions Perdues. La continuità tra questo libro e la Recherche è evidente nella narrazione dei fasti delle aristocrazie, nell’importanza dei titoli nobiliari, nel rapporto complesso con le borghesie in ascesa. E soprattutto nella profonda consapevolezza che dentro il turbine delle ambizioni, degli amori e delle passioni, tutto è Havèl havalím, vanità delle vanità o -come traduce Guido Ceronetti- «fumo di fumi / dice Qohélet / Polvere di polveri / tutto fumo / polvere» (Qohélet o l’Ecclesiaste, Einaudi 1988, 1,2, p. 3).
Balzac non è soltanto un romanziere ma è anche uno dei più attenti sismografi del suo tempo (e del nostro), un autentico sociologo che ha la piena consapevolezza di come dopo l’Ottantanove e Napoleone, la storia stia rapidamente inclinando verso il dominio di qualcosa che gli umani utilizzano da millenni -ciò che Marx chiama l’«equivalente generale», il denaro- ma che adesso assume le forme nuove dell’informazione, della stampa, dei giornali, dei capitali. E infatti Lucien de Rubempré (nome musicalissimo) arriva a Parigi dalla provincia come protetto e innamorato di una nobildonna delle sue terre. Che però a Parigi non può più frequentarlo. La ferita è profonda. La disperazione si volge in volontà di affermarsi in ciò che Lucien meglio sa fare: scrivere. Ma il ragazzo scrive poesie, un genere che nessuno più compra, che nessuno più vende. La sua intelligenza si pone dunque al servizio dei giornali che esaltano o stroncano spettacoli teatrali, opere musicali, romanzi, attori, carriere, politici, uomini pubblici. Esaltano o stroncano in relazione a chi paga meglio, a chi ricambia con favori di carriera, di potere, di denaro. Agiscono dunque allo stesso modo del personaggio che con la sua claque vende applausi e fischi nei teatri, determinando il trionfo o la rovina di attori e impresari.
Balzac è del tutto consapevole che «necesse est enim ut veniant scandala, ‘è inevitabile che avvengano scandali, ma guai all’uomo a causa del quale lo scandalo accade!’» (Mt, 18,7 e Lc., 17,1). Gli scandali, le ‘polemiche’ sono necessari agli ambiziosi per farsi conoscere, alla stampa per vendere, al pubblico per guardare dal buco della serratura le vite degli altri. Balzac è del tutto consapevole persino del potere della pubblicità, che comincia a riempire i giornali e per la quale le aziende pagano bene, riempiendo di sé la ‘carta stampata’. L’obiettivo dell’informazione è dunque vendere in modo da poter aumentare le tariffe delle ‘inserzioni pubblicitarie’.
Un piano inclinato che conduce le aziende, gli affaristi, le banche, ad acquistare direttamente i giornali, le informazioni, le notizie e i giornalisti. Basti pensare che, in Italia, la Repubblica e La Stampa appartengono entrambi al gruppo Agnelli e Il Corriere della Sera è di proprietà di Urbano Cairo, ottimo sodale degli Agnelli. Gli scandali, le ‘polemiche’ sono necessari agli ambiziosi per farsi conoscere, ai siti e agli influencer per vendere, al pubblico di Internet per guardare dal buco della serratura le vite degli altri.
Ossessiva è in Balzac, e nel bel film che Xavier Giannoli ne ha tratto, la presenza del denaro, della cartamoneta, dei capitali. Il Narratore a un certo punto dice che «può darsi persino che un banchiere diventi un politico». In Italia e in Francia, ma non solo, i banchieri del XXI secolo sono direttamente diventati capi del governo. I quali negli ultimi due anni hanno letteralmente comprato l’informazione relativa all’epidemia Sars-COV-2 elargendo centinaia di milioni a giornali, televisioni, radio in cambio dell’inserimento di pubblicità governativa travestita da notizia dei telegiornali e degli articoli di giornale, come è consuetudine da parte di molte aziende ma come è evidentemente assai grave da parte dei governi su questioni quali la salute.
Le illusions perdues dei cittadini camminano parallele ai conti correnti dei giornalisti. Chi è più sciocco, il bugiardo o colui che al bugiardo crede?

Informazione e linguaggio

Prefazione a:
Cronache di un onore sbagliato
Il femminicidio prima del femminicidio
di Benedetta Intelisano
Villaggio Maori Edizioni, 2020
Pagine 122

Benedetta Intelisano è una giornalista ben consapevole del contesto nel quale il suo lavoro si svolge e proprio per questo non si rassegna a diventare una funzionaria del nulla.
La ricerca che ha dedicato al rapporto tra informazione e violenza sulle donne lo dimostra.
Il perno sul quale tutto ruota è il linguaggio nelle sue dimensioni collettive, diacroniche, cangianti e rivelatrici. Ed è qui che il problema si fa molteplice e complesso. Anche nel senso che – come è suggerito in alcune pagine del libro – non è sufficiente l’adozione del politicamente corretto a mutare le situazioni di fatto. Un linguaggio imposto per ragioni etiche può anzi produrre reazioni di rigetto ancora più gravi. Il libro sottolinea opportunamente che i cambiamenti collettivi, se vogliono essere duraturi, devono essere anche profondi, lenti.
Uno dei meriti di questa ricerca è mostrare tale complessità mediante una metodologia scientifica che in ogni pagina diventa anche passione civile.

«Tout médiatique a toujours un maître»

Lo scorso 30 giugno il Dipartimento di Scienze della Formazione di Unict ha invitato il Prof. Luciano Canfora a presentare il suo La schiavitù del capitale (il Mulino, 2017). È stato un incontro molto interessante, nel quale sono state pronunciate parole che nel discorso pubblico è ormai assai difficile ascoltare. Canfora ha smontato la propaganda occidentalista che pervade i media mostrando la miseria delle politiche dell’Unione Europea, degli Stati Uniti e dei loro servi, «vale a dire noi». Si è soffermato con particolare e pungente ironia sul neoeletto presidente francese Emmanuel Jean-Michel Frédéric Macron, come simbolo del vuoto assoluto della politica quando essa si identifica con il finanziarismo che opprime le economie e i corpi collettivi.
Ho riflettuto sulla ricchezza di questo incontro, a partire dalla consapevolezza che il potere è potentia ed è potestas. Il primo consiste nella capacità che gli esistenti possiedono di influire sull’ambiente, anche con la semplice resistenza e con l’attrito che gli enti minerali oppongono all’attività di tutti gli altri. Nel mondo vegetale e animale, la potentia è la vita stessa, che si sviluppa, cresce, confligge, decade, muore.
Potestas è invece e propriamente il potere politico, la capacità di indurre altri umani a compiere le azioni che auspichiamo o ad astenersi da quelle che vogliamo evitare. I mezzi con i quali ottenere questo scopo sono sostanzialmente tre: «Con la coercizione (il bastone); con i pagamenti (la carota); con l’attrazione o la persuasione. Bastone e carota sono forme di hard power, attrazione e persuasione sono forme di soft power» (Joseph. S. Nye jr, citato da Massimo Virgilio in Diorama letterario n. 336, p. 22).
Se nell’ambito dello scambio economico il denaro è costitutivamente al centro del rapporto di potere, nella società contemporanea -e più precisamente dentro il sistema ultraliberista in cui siamo immersi e che Canfora ha descritto con lucidità- esso pervade ogni forma di relazione. Un momento di svolta in questo processo fu la decisione del presidente statunitense Richard Nixon che nel 1971 «su consiglio di due o tre Gorgoni universitarie, ha deciso di infrangere il legame fra il dollaro e l’oro. Il dollaro ha potuto espandersi nel mondo a profusione e ha permesso ai parassiti di acquistare tutto ciò che loro pareva. Da allora in poi l’Europa ha perso tutto: industria, posti di lavoro, élite, educazione di qualità e via dicendo. La quantità di dollari sparsa ha eliminato chi non si adeguava e promosso i servi più ripugnanti, sia nella commissione di Bruxelles, sia fra i dirigenti dei vari paesi europei» (Auren Derien, ivi, p. 20).
L’effetto di questo dominio finanziario e contabile su scuola, università, cultura è stato assai grave. Il culto verso il denaro, che da indispensabile mezzo di scambio diventa il fine totale delle umane esistenze, ostacola infatti «ogni alta cultura perché i ricchi sanno solo contare. Così si spiega l’incorreggibile volgarità che ormai li contraddistingue. Inoltre, se l’unico criterio di valutazione è la quantità di denaro, allora si ritrovano sullo stesso piano il buzzurro che calcia un pallone, la prostituta che finge di essere un’artista, il trafficante di droga analfabeta, il bankster di Wall Street e il politico cleptomane» (Id., 21).
A tali categorie si possono e devono aggiungere gli impiegati della comunicazione, soprattutto i più famosi e i più pronti al servizio di chi meglio li paga. «Il ne faut pas oublier que tout médiatique, et par salaire et par autre récompenses ou soultes, a toujours un maître, parfois plusieurs; et que tout médiatique se sait remplaçable» (‘Non bisogna dimenticare che ogni impiegato dei media, tramite lo stipendio e altre ricompense, ha sempre un padrone, e spesso più di uno; e che tali impiegati sanno bene di essere sostituibili’. Guy Debord, Commentaires sur la société du spectacle, Gallimard, Paris 1992, § VII, p. 31). Questi giornalisti e presentatori lavorano alacremente in funzione degli interessi dei loro padroni -interessi che cercano di travestire da idee e valori- e sono subito pronti a imporre il politically correct, «una censura delle ‘cattive idee’ in ambito culturale», la quale sta compiendo «passi da gigante: nell’editoria, nell’ambito scientifico, nel cinema, nel teatro, nel mondo delle lettere e delle arti» (Marco Tarchi, Diorama letterario n. 336, p. 3).
Bisogna opporsi a questa sottile e implacabile censura che traveste di libertà l’oppressione finanziaria, le sue guerre, la sua miseria culturale e politica.

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