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Giornalisti

Illusioni perdute
(Illusions Perdues)
di Xavier Giannoli
Francia, 2021
Con: Benjamin Voisin (Lucien), Cécile De France (Louise), Xavier Dolan (Nathan), Vincent Lacoste (Etienne Lousteau), Salomé Dewaels (Coralie), Gérard Depardieu (Dauriat), Jeanne Balibar (Marquise d’Espard)
Trailer del film

Per Marcel Proust il miglior romanzo di Balzac è Illusions Perdues. La continuità tra questo libro e la Recherche è evidente nella narrazione dei fasti delle aristocrazie, nell’importanza dei titoli nobiliari, nel rapporto complesso con le borghesie in ascesa. E soprattutto nella profonda consapevolezza che dentro il turbine delle ambizioni, degli amori e delle passioni, tutto è Havèl havalím, vanità delle vanità o -come traduce Guido Ceronetti- «fumo di fumi / dice Qohélet / Polvere di polveri / tutto fumo / polvere» (Qohélet o l’Ecclesiaste, Einaudi 1988, 1,2, p. 3).
Balzac non è soltanto un romanziere ma è anche uno dei più attenti sismografi del suo tempo (e del nostro), un autentico sociologo che ha la piena consapevolezza di come dopo l’Ottantanove e Napoleone, la storia stia rapidamente inclinando verso il dominio di qualcosa che gli umani utilizzano da millenni -ciò che Marx chiama l’«equivalente generale», il denaro- ma che adesso assume le forme nuove dell’informazione, della stampa, dei giornali, dei capitali. E infatti Lucien de Rubempré (nome musicalissimo) arriva a Parigi dalla provincia come protetto e innamorato di una nobildonna delle sue terre. Che però a Parigi non può più frequentarlo. La ferita è profonda. La disperazione si volge in volontà di affermarsi in ciò che Lucien meglio sa fare: scrivere. Ma il ragazzo scrive poesie, un genere che nessuno più compra, che nessuno più vende. La sua intelligenza si pone dunque al servizio dei giornali che esaltano o stroncano spettacoli teatrali, opere musicali, romanzi, attori, carriere, politici, uomini pubblici. Esaltano o stroncano in relazione a chi paga meglio, a chi ricambia con favori di carriera, di potere, di denaro. Agiscono dunque allo stesso modo del personaggio che con la sua claque vende applausi e fischi nei teatri, determinando il trionfo o la rovina di attori e impresari.
Balzac è del tutto consapevole che «necesse est enim ut veniant scandala, ‘è inevitabile che avvengano scandali, ma guai all’uomo a causa del quale lo scandalo accade!’» (Mt, 18,7 e Lc., 17,1). Gli scandali, le ‘polemiche’ sono necessari agli ambiziosi per farsi conoscere, alla stampa per vendere, al pubblico per guardare dal buco della serratura le vite degli altri. Balzac è del tutto consapevole persino del potere della pubblicità, che comincia a riempire i giornali e per la quale le aziende pagano bene, riempiendo di sé la ‘carta stampata’. L’obiettivo dell’informazione è dunque vendere in modo da poter aumentare le tariffe delle ‘inserzioni pubblicitarie’.
Un piano inclinato che conduce le aziende, gli affaristi, le banche, ad acquistare direttamente i giornali, le informazioni, le notizie e i giornalisti. Basti pensare che, in Italia, la Repubblica e La Stampa appartengono entrambi al gruppo Agnelli e Il Corriere della Sera è di proprietà di Urbano Cairo, ottimo sodale degli Agnelli. Gli scandali, le ‘polemiche’ sono necessari agli ambiziosi per farsi conoscere, ai siti e agli influencer per vendere, al pubblico di Internet per guardare dal buco della serratura le vite degli altri.
Ossessiva è in Balzac, e nel bel film che Xavier Giannoli ne ha tratto, la presenza del denaro, della cartamoneta, dei capitali. Il Narratore a un certo punto dice che «può darsi persino che un banchiere diventi un politico». In Italia e in Francia, ma non solo, i banchieri del XXI secolo sono direttamente diventati capi del governo. I quali negli ultimi due anni hanno letteralmente comprato l’informazione relativa all’epidemia Sars-COV-2 elargendo centinaia di milioni a giornali, televisioni, radio in cambio dell’inserimento di pubblicità governativa travestita da notizia dei telegiornali e degli articoli di giornale, come è consuetudine da parte di molte aziende ma come è evidentemente assai grave da parte dei governi su questioni quali la salute.
Le illusions perdues dei cittadini camminano parallele ai conti correnti dei giornalisti. Chi è più sciocco, il bugiardo o colui che al bugiardo crede?

Informazione e linguaggio

Prefazione a:
Cronache di un onore sbagliato
Il femminicidio prima del femminicidio
di Benedetta Intelisano
Villaggio Maori Edizioni, 2020
Pagine 122

Benedetta Intelisano è una giornalista ben consapevole del contesto nel quale il suo lavoro si svolge e proprio per questo non si rassegna a diventare una funzionaria del nulla.
La ricerca che ha dedicato al rapporto tra informazione e violenza sulle donne lo dimostra.
Il perno sul quale tutto ruota è il linguaggio nelle sue dimensioni collettive, diacroniche, cangianti e rivelatrici. Ed è qui che il problema si fa molteplice e complesso. Anche nel senso che – come è suggerito in alcune pagine del libro – non è sufficiente l’adozione del politicamente corretto a mutare le situazioni di fatto. Un linguaggio imposto per ragioni etiche può anzi produrre reazioni di rigetto ancora più gravi. Il libro sottolinea opportunamente che i cambiamenti collettivi, se vogliono essere duraturi, devono essere anche profondi, lenti.
Uno dei meriti di questa ricerca è mostrare tale complessità mediante una metodologia scientifica che in ogni pagina diventa anche passione civile.

«Tout médiatique a toujours un maître»

Lo scorso 30 giugno il Dipartimento di Scienze della Formazione di Unict ha invitato il Prof. Luciano Canfora a presentare il suo La schiavitù del capitale (il Mulino, 2017). È stato un incontro molto interessante, nel quale sono state pronunciate parole che nel discorso pubblico è ormai assai difficile ascoltare. Canfora ha smontato la propaganda occidentalista che pervade i media mostrando la miseria delle politiche dell’Unione Europea, degli Stati Uniti e dei loro servi, «vale a dire noi». Si è soffermato con particolare e pungente ironia sul neoeletto presidente francese Emmanuel Jean-Michel Frédéric Macron, come simbolo del vuoto assoluto della politica quando essa si identifica con il finanziarismo che opprime le economie e i corpi collettivi.
Ho riflettuto sulla ricchezza di questo incontro, a partire dalla consapevolezza che il potere è potentia ed è potestas. Il primo consiste nella capacità che gli esistenti possiedono di influire sull’ambiente, anche con la semplice resistenza e con l’attrito che gli enti minerali oppongono all’attività di tutti gli altri. Nel mondo vegetale e animale, la potentia è la vita stessa, che si sviluppa, cresce, confligge, decade, muore.
Potestas è invece e propriamente il potere politico, la capacità di indurre altri umani a compiere le azioni che auspichiamo o ad astenersi da quelle che vogliamo evitare. I mezzi con i quali ottenere questo scopo sono sostanzialmente tre: «Con la coercizione (il bastone); con i pagamenti (la carota); con l’attrazione o la persuasione. Bastone e carota sono forme di hard power, attrazione e persuasione sono forme di soft power» (Joseph. S. Nye jr, citato da Massimo Virgilio in Diorama letterario n. 336, p. 22).
Se nell’ambito dello scambio economico il denaro è costitutivamente al centro del rapporto di potere, nella società contemporanea -e più precisamente dentro il sistema ultraliberista in cui siamo immersi e che Canfora ha descritto con lucidità- esso pervade ogni forma di relazione. Un momento di svolta in questo processo fu la decisione del presidente statunitense Richard Nixon che nel 1971 «su consiglio di due o tre Gorgoni universitarie, ha deciso di infrangere il legame fra il dollaro e l’oro. Il dollaro ha potuto espandersi nel mondo a profusione e ha permesso ai parassiti di acquistare tutto ciò che loro pareva. Da allora in poi l’Europa ha perso tutto: industria, posti di lavoro, élite, educazione di qualità e via dicendo. La quantità di dollari sparsa ha eliminato chi non si adeguava e promosso i servi più ripugnanti, sia nella commissione di Bruxelles, sia fra i dirigenti dei vari paesi europei» (Auren Derien, ivi, p. 20).
L’effetto di questo dominio finanziario e contabile su scuola, università, cultura è stato assai grave. Il culto verso il denaro, che da indispensabile mezzo di scambio diventa il fine totale delle umane esistenze, ostacola infatti «ogni alta cultura perché i ricchi sanno solo contare. Così si spiega l’incorreggibile volgarità che ormai li contraddistingue. Inoltre, se l’unico criterio di valutazione è la quantità di denaro, allora si ritrovano sullo stesso piano il buzzurro che calcia un pallone, la prostituta che finge di essere un’artista, il trafficante di droga analfabeta, il bankster di Wall Street e il politico cleptomane» (Id., 21).
A tali categorie si possono e devono aggiungere gli impiegati della comunicazione, soprattutto i più famosi e i più pronti al servizio di chi meglio li paga. «Il ne faut pas oublier que tout médiatique, et par salaire et par autre récompenses ou soultes, a toujours un maître, parfois plusieurs; et que tout médiatique se sait remplaçable» (‘Non bisogna dimenticare che ogni impiegato dei media, tramite lo stipendio e altre ricompense, ha sempre un padrone, e spesso più di uno; e che tali impiegati sanno bene di essere sostituibili’. Guy Debord, Commentaires sur la société du spectacle, Gallimard, Paris 1992, § VII, p. 31). Questi giornalisti e presentatori lavorano alacremente in funzione degli interessi dei loro padroni -interessi che cercano di travestire da idee e valori- e sono subito pronti a imporre il politically correct, «una censura delle ‘cattive idee’ in ambito culturale», la quale sta compiendo «passi da gigante: nell’editoria, nell’ambito scientifico, nel cinema, nel teatro, nel mondo delle lettere e delle arti» (Marco Tarchi, Diorama letterario n. 336, p. 3).
Bisogna opporsi a questa sottile e implacabile censura che traveste di libertà l’oppressione finanziaria, le sue guerre, la sua miseria culturale e politica.

L’Oppio

«I sovietici leggevano la Pravda, ma non le credevano. Gli italiani guardano la televisione e le credono». Sta qui una delle spiegazioni della condizione oppiacea dentro la quale noi italiani continuiamo a dormire mentre altrove -come in Grecia, in Spagna o in Turchia, dove sembra sia iniziata la «Rinascita mentale di un popolo consapevole di aver perso molti diritti che vuole riacquistare al più presto, a qualsiasi costo»- c’è almeno un tentativo di ribellione contro la dittatura liberista. In Italia no. Il coro universale che dalla destra e dalla sinistra politico-mediatiche investe ogni giorno e a tutte le ore la vista, l’udito, la mente dei cittadini italiani canta la responsabilità, la serietà, l’onestà del potere democratico-berlusconiano. Canto maligno di sirene che interpreta artatamente ogni parola e comportamento dell’unico movimento che a tale squallore tenta di opporsi.
A me sembra persino moderato il linguaggio di Grillo nei confronti dei giornalisti, categoria -con le dovute e proverbiali eccezioni- di fronte alla quale ogni prostituta conserva un’indefettibile dignità. Costoro, infatti, vendono qualcosa di ancora più personale degli organi genitali: vendono il proprio pensiero. Assunti come praticanti, debbono abituarsi sin dall’inizio a non indagare e a non criticare se non chi e che cosa i loro direttori vogliono che venga indagato e criticato. Servilismo e non pensiero diventano in tal modo un habitus della persona che scrive sotto dettatura del potere. Quando la parola del giornalista si coniuga all’immagine televisiva, il mondo si dissolve nell’ermeneutica del potente, quella che permette ancora a milioni di italiani di credere che Berlusconi non sia un delinquente e che il Partito Democratico sia di sinistra.
La Democrazia è fatta di almeno quattro elementi: divisione dei poteri, eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, elezioni libere e segrete, informazione indipendente da chi governa. In Italia si vota periodicamente e in modo -più o meno- segreto ma gli altri tre elementi sono assenti. L’Italia è quindi un Paese fintamente democratico. La parossistica dipendenza che il nostro popolo nutre verso la televisione è anche il bisogno di un’autorità che dica cosa si deve pensare e come si deve vivere. La televisione è forse la meno percepita ma anche la più dura smentita della democrazia. Di un sistema che necessariamente presuppone il desiderio di vivere liberi e la capacità di esserlo da parte di qualsiasi individuo. Ma non è così: chi è servo cercherà sempre un padrone, ne va della sua stessa identità. Con il progressivo tramonto delle autorità religiose, ideologiche, scientifiche, tale bisogno trova pieno appagamento nello schermo televisivo: nuovo oracolo, divinità all’apparenza poco esigente, la si gratifica con uno dei più antichi segni di sottomissione, l’ipse dixit: “L’ha detto la televisione”.
In questo niente, in questo vuoto colorato e costante, tramonta la capacità di pensare e annega con essa ogni libertà. La miseria del dominio catodico va individuata e distrutta. Si tratta di un passaggio necessario per individuare e distruggere la masnada di banchieri criminali che, con l’aiuto della televisione, governa l’Italia e l’Europa.

Thomas Kuhn e Beppe Grillo

Le verità delle scienze dure -fisica, chimica, geologia ad esempio- sono anch’esse sottoposte al condizionamento dei contesti in cui vengono elaborate. E sono sottoposte alle passioni personali di chi studia, scrive, fa ricerca nei laboratori. Le scienze sono immerse in paradigmi collettivi e -nel loro concreto operare- subiscono i pregiudizi personali, ideologici, politici degli scienziati, uomini in carne e ossa. Di fatto, afferma Thomas Kuhn, «i sostenitori  di paradigmi opposti praticano i loro affari in mondi differenti» (La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, 1978, p. 182); da ciò deriva la concreta impossibilità di una verità oggettiva e metastorica, tanto che -come scrisse Max Planck– una nuova verità scientifica non si afferma attraverso la persuasione degli avversari ma a causa della loro morte e della crescita di nuove generazioni a essa abituate e disponibili.
Se tutto questo vale per le scienze dallo statuto più oggettivo -quelle della natura-, a maggior ragione pervade di sé praticamente ogni affermazione e risultato delle scienze sociali. Un esempio è dato dalla stupefacente incapacità di scienziati della politica, analisti sociali e soprattutto giornalisti di comprendere le ragioni del successo in Italia di un movimento politico come quello fondato da Grillo.
La spocchia filogovernativa di Repubblica, specialmente del suo ex direttore Eugenio Scalfari ma anche dell’attuale Ezio Mauro; le banalità del Corriere della sera; i veri e propri insulti rivolti dai conduttori dei penosi talk show televisivi; gli evidenti pregiudizi del Manifesto, che sul numero di ieri definisce il Movimento 5 stelle «appetibile per chi si era lasciato fin qui sedurre dal populismo berlusconiano e dalle rozze semplificazioni bossiane, malgrado i 5 stelle siano in gran parte giovani secchioni ambientalisti, più bravi a problematizzare che a risolvere» (A. Fabozzi); tutto questo -e molto altro- dimostra una diffusa incapacità da parte dei mezzi di comunicazione di massa di intendere l’evidente novità di un movimento che può avere molti limiti -primo dei quali il populismo- ma che esiste al di là del blog di Grillo e le cui caratteristiche principali mi sembrano le seguenti: limpegno in prima persona di cittadini che non si rassegnano alla totale corruzione della cosa pubblica e si assumono l’incarico di amministrare direttamente le città; il rifiuto della politica come professione; l’attenzione massima posta alla qualità della vita e dell’ambiente; l’innovazione tecnologica (Internet come luogo politico); un programma chiaro, articolato ma anche breve, in grandissima parte “di sinistra”. Un programma che tutti possono leggere facilmente e la cui ignoranza da parte di giornalisti e analisti non è consentita.
Questo Movimento ha un progetto. Continuare a dire che si tratta solo di «protesta antipolitica senza proposte» è del tutto falso. Si può condividere o meno tale progetto ma è con esso che bisognerebbe confrontarsi e non con i propri pregiudizi.

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