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«Heil Zelensky!»

Un video satirico tedesco illustra con chiarezza che cosa stia accadendo alla Germania e all’Europa: i risparmi, le risorse finanziarie, gli sforzi economici, lo stato sociale, i servizi (sanità, scuole, università, trasporti), l’intero apparato economico europeo vengono progressivamente erosi dalla decisione di riempire di armi l’Ucraina e di evitare il suo fallimento, che sarebbe completo senza il trasferimento di porzioni sempre più consistenti del Prodotto Interno Lordo tedesco, italiano e di altri Paesi al regime di Zelensky.
L’autentico obiettivo di una simile (e inaudita) politica suicidiaria è l’impoverimento dell’Europa, sempre più alla mercé del suo padrone statunitense, vero e unico vincitore – almeno a breve termine – della guerra in corso. Per leggere qualcosa sulle cause remote e recenti di tale politica e della guerra Nato-Russia, si possono consultare i link qui a destra nella sezione «History» (o qui sotto nella versione per cellulari e tablet).
Il video descrive molto semplicemente la polizia tedesca che entra nella casa di una famiglia e requisisce tutto, mentre l’attuale Cancelliere Olaf Scholz scandisce i suoi discorsi. Al posto dei beni sequestrati viene lasciata una foto di Volodymyr Zelensky alla parete. Lo slogan finale afferma: «La tua casa è nella Nato? Accetta la Nato nella tua casa».

La caduta

La caduta
Gli ultimi giorni di Hitler
(Der Untergang)
di Oliver Hirschbiegel
Germania, 2004
Con: Bruno Ganz (Adolf Hitler), Alexandra Maria Lara (Traudl Junge), Juliane Köhler (Eva Braun), Heino Ferch (Albert Speer), Christian Berkel (Ernst-Günter Schenck), André Hennicke (Wilhelm Mohnke), Matthias Habich (Werner Haase), Ulrich Noethen (Heinrich Himmler), Michael Mendl (Helmuth Weidling), Ulrich Matthes (Joseph Goebbels), Corinna Harfouch (Magda Goebbels)
Trailer del film

Nel 1942 la ventiduenne Traudl Junge venne assunta come segretaria da Adolf Hitler. Nell’aprile del 1945 Traudl è ancora segretaria nel bunker della Cancelleria, mentre l’intera Germania e la città di Berlino vivono il tempo della disfatta, della distruzione, della morte data che ora viene loro restituita.
E la morte è la vera protagonista di questo film, più ancora del Führer. La più parte dei suoi personaggi è infatti pronta a morire insieme a Hitler, e lo fa. Chi non agisce per il capo del Partito Nazionalsocialista resiste in ogni caso per la Germania. Anziani generali e ragazzini da poco arruolati vedono nella morte l’unica soluzione onorevole per se stessi e per il popolo del quale sono parte. Popolo che alla fine Hitler reputa imbelle e quindi indegno di sopravvivere.
La moglie di Goebbels addormenta con un sonnifero e poi avvelena a uno a uno i suoi sei figli, prima di uccidersi insieme al marito. La festa organizzata da Eva Braun per il compleanno di Hitler è intrisa di una angosciosa sensazione della fine. Che si realizza quando il Führer rinuncia al suo delirio strategico -che immagina Divisioni e Generali che non esistono pronti a sferrare un attacco ‘definitivo’ contro le truppe sovietiche- senza però accettare di arrendersi e decidendo quindi di porre fine ai propri giorni, ordinando di bruciare il corpo suo e di Eva Braun, in modo da non essere mai trovati dai nemici. Cosa che accadrà il 30 aprile del 1945.
La caduta racconta tutto questo privilegiando le memorie di Traudl Junge ma assumendo di volta in volta la prospettiva dell’uno o dell’altro dei personaggi coinvolti. Nella plurale e straordinaria interpretazione di Bruno Ganz Hitler appare per quello che probabilmente fu negli ultimi giorni della sua vita: una mescolanza di fantasmi, rimpianti, ira, rancori, rassegnazione, odio, disperazione: «Già da domani milioni di persone mi malediranno, ma è così che ha voluto il destino». Hitler rimase sempre convinto di aver operato al meglio possibile per la Germania. Un Paese, certo, nel quale c’erano le condizioni -l’esito della Prima guerra mondiale, l’umiliazione della Pace di Versailles, la Repubblica di Weimar- per trasformare della gente comune in attivi agenti della distruzione propria e altrui; ma da quella esperienza si dovrebbe anche capire quanto profonda sia la tenebra nel cuore della nostra specie, quanto in ciascun umano e in ogni corpo collettivo sia pronto a esplodere un ancestrale desiderio di sopraffazione, il trasformarsi da un giorno all’altro in attivi complici dell’oppressione, una volontà di dominio e di fanatismo, una metamorfosi del corpo sociale nel latrato della maggioranza contro chi dissente. Ciò che Tomás Ibáñez chiama biototalitarismo.

I Quisling

La scelta del re
(Kongens Nei)
di Erik Poppe
Norvegia, Germania, Danimarca, Svezia, 2016
Con: Jesper Christensen (il re), Anders Baasmo Christiansen (il principe ereditario), Karl Markovics (l’ambasciatore tedesco)
Trailer del film

Nell’aprile del 1940 la Germania attacca la Norvegia, sino ad allora neutrale. Le forze tedesche sono chiaramente preponderanti ma il Paese scandinavo resiste. Il governo tuttavia si dimette. Il re Haakon VII -eletto dopo un referendum popolare nel 1905- respinge le dimissioni, così come rifiuta di avallare il colpo di stato del collaborazionista Vidkun Quisling (nella foto qui sopra con Hitler). L’ambasciatore tedesco Curt Bräuer, pur amico dei norvegesi, comunica al sovrano una proposta di accordo che avrebbe reso la Norvegia uno Stato vassallo della Germania, come era già diventata la Danimarca. Haakon rifiuta la proposta -il titolo originale significa infatti «Il no del re»- e comunica il suo rifiuto a governo e parlamento, i quali concordano con lui. Inizia la guerra, vinta facilmente dalla Germania, alla cui conclusione il re torna sul trono e Quisling viene giustiziato per alto tradimento.
Il film narra i giorni tragici e concitati dell’attacco tedesco e delle trattative. Si incentra soprattutto sulla psiche del sovrano e sulle vicende della famiglia reale. Il buio delle notti e il bianco della neve formano il reciproco controcanto della tenebra che porta a compimento il suicidio dell’Europa, iniziato nel 1914 a Sarajevo. Un re rappresentativo e folcloristico, come gli altri sovrani scandinavi, mostra di aver preso sul serio il fatto di essere stato eletto dal popolo norvegese sulla base di princìpi di partecipazione  e di libertà che soggetti come Quisling disprezzano e negano.
Storia? Certo, anche storia. Le cui strutture permangono nel tempo pur mutando referenti e posizioni. Gli Stati Uniti d’America e i loro più fidi alleati creano infatti di continuo dei governi collaborazionisti in ogni parte del mondo. Non solo nel Vicino Oriente (Amid Karzaj e altri in Afghanistan; Ahmed Chalabio in Irak, ad esempio) o in America Latina (un nome per tutti: Augusto Pinochet) ma anche in Europa e in Italia, con molti governi proni alle volontà del potente ‘alleato’, la cui presenza o ‘ispirazione’ è stata determinante nei momenti più tragici della storia repubblicana: dalla strage di Piazza Fontana all’omicidio di Aldo Moro, dal caso Mattei ai governi presieduti da soggetti mai eletti, come l’attuale Presidente del Consiglio Mario Draghi. Questi Qusling vengono additati come esempi di virtù politica e persino morale, mentre le azioni e le idee di chi si oppone a tali governi fantoccio sono definiti con l’epiteto di terrorista, estremista, comunista, antipatriottico.
Tutto questo conferma come i concetti storici di collaborazionismo e resistenza non solo non rappresentino –come è ovvio- degli assoluti ma siano soggetti a mutare di referente in stretta relazione al punto di vista del vincitore. Ma dato che la storia di cui stiamo parlando è anche quella che stiamo vivendo, sarebbe bene che i collaborazionisti europei del governo statunitense recuperino «l’autonomia di giudizio e di azione alla quale i complessi di inferiorità conseguenti alla seconda guerra mondiale li hanno spinti a rinunciare, sciogliendosi da quell’abbraccio con un alleato di giorno in giorno sempre più simile ad un dispotico padrone che potrebbe di qui a qualche tempo rivelarsi, per loro, mortale» (Marco Tarchi, Diorama Letterario 260, luglio-agosto 2003, p. 5).
Un attempato re norvegese mostrò di possedere maggiore dignità e senso della democrazia rispetto a tanti politici contemporanei, anche italiani, finanziati da un governo straniero, al servizio dei suoi interessi e non di quelli dei popoli che dovrebbero rappresentare.

Hölderlin

Recensione a:
Giorgio Agamben
La follia di Hölderlin
Cronaca di una vita abitante 1806-1843
Einaudi, 2021
Pagine 241

in il Pequod , anno 2, numero 3, giugno 2021, pagine 83-86

La vita di Hölderlin si scandisce in due esatte metà di trentasei anni ciascuna. La prima parte va dal 1770 al 1806, la seconda dal 1807 al 1843. Una vita che abita nella pienezza e quindi nel visionario, nella gioia, nella follia. Una vita tanto singolare quanto pericolosa. Dove il pericolo non è necessariamente l’esplicita critica socratica alle strutture e ai modi della città ma può essere anche la discordanza rispetto all’abituale, al conforme, alla morale e alla legge, ai buoni sentimenti, a ciò che si deve pensare e si deve dire per apparire ed essere persone per bene.
Quella di Hölderlin fu sempre «una sottile, calcolata ironia», un capolavoro linguistico ed esistenziale che esprime e incarna l’estraneità alla quale filosofia e poesia conducono chi le prenda sul serio, poiché  la filosofia è anche e «innanzitutto questo esilio di un uomo fra gli uomini, questo essere straniero nella città in cui il filosofo si trova a vivere e nella quale, tuttavia, continua a dimorare, ostinatamente apostrofando un popolo assente». Abitare questa follia significa anche abitare la distanza.

Rigodon

Con la Trilogia del Nord si conclude il ciclo di quest’anno dedicato a «Filosofia e letteratura».
L’evento è organizzato dall’Associazione Studenti di Filosofia Unict.
L’appuntamento è per venerdì 16 aprile 2021 alle 15.30 nella sede del Centro Studi di via Plebiscito 9, a Catania. L’incontro è a numero chiuso. Le richieste di partecipazione vanno inviate all’indirizzo dell’Associazione: assocstudfilunict@gmail.com.

Nonostante la nostra specie «infila, genera, stronca, squarta, si ferma mai da cinquecento milioni di anni…che ci sono uomini e che pensano…storto e di traverso, vai a capire, ma forza! copulano, popolano, e braoum! tutto esplode! e tutto ricomincia!» come accade a «Hannover…dei fuochi di resti di case…bisogna avere visto…ogni casa giusto nel mezzo…tra ciò che erano i suoi quattro muri, una fiamma che ruota, gialla…viola…turbina…fugge!…alle nuvole!… danza … scompare… riprende… l’anima di ogni casa…una farandola di colori, dalla prime macerie a tutto là in fondo…»,  nonostante la storia e la ferocia degli umani, «c’è del buon cuore dove che sia, non si può dire che tutto è crimine…».
Quel qualcosa di buono che pur esiste va prima visto per poter essere poi anche vissuto. E «non vediamo che quel che guardiamo e non guardiamo se non quello che abbiamo già in mente…».
Tutti, alla fine, andarono in soccorso del vincitore (Flaiano): «ci fosse stato qui per esempio l’Hitler a vincere, c’è mancato un pelo, vedreste ve lo dico io l’ora attuale, che sarebbero tutti per lui…a chi che avrebbe impiccato il più di ebrei, chi che sarebbe stato il più nazi…tirato fuori l’entragna a Churchill, portato in giro il cuore strappato a Roosevelt, fatto il più di tutti l’amore con Goering…».
Céline no. Céline rimase solo, generoso, ironico, libero: «anarchico sono, come ieri domani, e me ne frego proprio delle opinioni!».
Céline ci regala la danza potente, insensata e feroce della vicenda umana: «…il ballo al bersaglio, il rigodon che è tutto! per la madonna che si salta!»

Stupri

Róża
di Wojciech Smarzowski
Polonia, 2011
Con: Marcin Dorocinski (Tadeus), Agata Kulesza (Róża), Malwina Buss (Jadwiga), Kinga Preis (Amelia)
Trailer del film

La Masuria è una regione della Polonia per secoli appartenuta alla Prussia. L’immagine qui sopra mostra uno dei suoi paesaggi. Confinante con regioni russe e, appunto, polacche, aveva sviluppato -come sempre accade in questi casi– dei forti legami con la Germania. Tanto è vero che vi si parlava il tedesco e la più parte degli abitanti erano luterani (la Polonia, come si sa, è invece fortemente cattolica). Fu per questo che nell’estate del 1945, a guerra ormai finita con la vittoria degli angloamericani e dei russi, in Polonia gli orrori continuarono proprio contro i Masuri.
Il film di Wojciech Smarzowski racconta tali orrori senza eufemismi e infingimenti. Verso la relazione che lega il soldato polacco Tadeusz alla masura Róża, vedova di un soldato tedesco, si scatena la violenza dei polacchi e dei militari dell’Armata Rossa. Tadeusz ha un ardimento senza incertezze e protegge come può la donna, che le ripetute violenze conducono però a una malattia mortale.
Il film comincia con uno stupro seguito dall’uccisione della vittima e ha il coraggio, lungo tutta la narrazione, di mostrare la normalità, quasi ‘da prassi’, di questa immonda pratica da parte dei soldati di qualunque esercito contro le donne della popolazione nemica. Basti ricordare La ciociara di Vittorio De Sica (1960), film nel quale una donna italiana e la sua figlia dodicenne vengono violentate dai Goumiers, soldati marocchini dell’esercito francese.
E così continua in tutti i conflitti, oggi. Che si tratti di guerre di religione, economiche, imperialistiche, democratiche, la pratica dello stupro di massa è uno dei segnali più evidenti sia della natura umana sia dell’orrore che è la storia. È una conferma, se ce ne fosse bisogno, della nostra animalità che marca il territorio (come fanno cani, gatti e altri mammiferi con le urine) e cerca di sostituire i propri geni a quelli del clan avversario. La pretesa del sedicente Sapiens di non appartenere a questo mondo è semplicemente patetica, per non dire profondamente sciocca.
Róża narra natura e storia attraverso la densità dei colori che mutano con le stagioni in una regione ricca di foreste e di laghi; mediante la sobrietà dei dialoghi; tramite l’evidenza quasi rassegnata della ferocia.

[Photo by Łukasz Łada on Unsplash]

München

Monaco di Baviera è un’ubriacatura. Di birra, di Grecia, di biciclette, di musicisti, di buonumore, di spazio, di chiese. Nata come snodo mercantile, soprattutto per il commercio del sale, le maggiori strade della Altenstadt conservano il carattere e la vivacità di un luogo di scambi. Nell’Ottocento i sovrani bavaresi, specialmente Ludwig I, ne vollero fare una sorta di Atene teutonica. E ci riuscirono. Lo testimonia la magnifica Königsplatz che raccoglie gli uni accanto agli altri i Propilei al centro e di lato la Glyptothek, (purtroppo in questo periodo e ancora per un bel po’ di tempo chiusa per restauri) e la Staatliche Antikensammlung, vale a dire uno dei più straordinari musei archeologici che abbia visitato. Di queste antichità monacensi parlerò prossimamente più in dettaglio. Cerco intanto di descrivere la ricchezza degli altri musei posti a poca distanza da questi.

Nella Alte Pinakhotek (Pinacoteca d’arte antica) c’è la maggiore concentrazione di capolavori che abbia mai visti raccolti in un sol luogo. Vi è rappresentata tutta la storia della pittura europea da Giotto al Settecento, con i maggiori esponenti di ogni nazione, tradizione, tendenza. Inutile fare dei nomi, ci sono tutti. Solo qualche opera, a mo’ di esempio.
Una versione meno nota dell’Annunciata di Antonello da Messina; una Vanitas di Salvator Rosa (1650); un autoritratto di Rembrandt del 1629; Wallfahrer bei einer Stadt (Pellegrini) di Sebastian Vrancx e Das Schlaraffenland (Terra di latte e miele) di Pieter Bruegel; i Giudizi universali di Rubens che nella spietata caduta dei dannati verso il baratro mostrano la forza di un cristianesimo senza misericordia; la Lesende Frau (Donna che legge, 1665) di Peter Janssens Elinga, nel quale la donna fa splendere un riflesso di luce nella stanza, il raggio della sapienza; una Stilleben mit Porzellankanne  (Natura morta con porcellane, 1653; qui a destra) di Willem Kalf dentro cui la porcellana si confonde con la frutta, l’organico e l’inorganico si fondono nella semplice bellezza della materia; un piccolo, splendido dipinto di Jan Porcellis (Sürmische See, lago di Sürmisch, 1629) incornicia se stesso in una dissoluzione che sente Turner; una Spoliazione del Greco nella quale la geometria vibrante e dissolta del Cristo diventa una macchia rossa dentro il grigio dell’umano; un magnifico Landschaft mit römischer Tempelruine (Paesaggio con rovine di tempio romano, 1773; qui a sinistra) di Hubert Robert; Ein Seehafen bei aufgehender Sonne (Porto al levar del Sole, 1674) di Claude Lorrain, il tramonto della storia, il tempo che imbrunisce, un’opera cosmica; nella Morte di Seneca di Rubens (1612), splende la luce della mente che sino all’ultimo detta al mondo il senso di cui esso è privo poiché di senso bisogno non ha; il Carlo V di Tiziano (1548) non è un guerriero, neppure un mercante o un prete ma un uomo che molto sa del mondo e della sua inevitabile rovina; così come l’Autoritratto di Dürer (1500) è il Cristo-artista che guarda l’esserci con lucida indifferenza, e nel suo sguardo lo condanna. 

La Pinakothek der Moderne (nell’immagine in alto parte della facciata e il giardino visti dal Museo Brandhorst) costituisce un’altra antologia, stavolta dell’arte del Novecento. Anche in questo caso solo qualche nome dei moltissimi che vi sono presenti: le opere di Paul Klee nelle quali la geometria diventa  flusso e pienezza; i ritmi di Lucio Fontana; la carne dissolta della Crucifixion di Bacon; L’ange du foyer di Max Ernst disegna in due creature incomprensibili la disarticolazione stessa del mondo, degno accompagnamento della Große Sterbeszene (Grande scena di morte) di Max Beckmann, nella quale la disperazione assoluta del morire emerge da colori insieme definiti e opachi, vibranti e trapassi; l’Acme Thunderer di John Chamberlain (qui a destra) è acciaio ricreato, ricomposto, ripensato, come fa la filosofia con il dolore, dandogli un ordine che si muove nel Rhein II di Andreas Gursky, fatto del flusso di tre colori.
E poi molto design, automobili, moto, Bauhaus.   

Il Museo Brandhorst è il presente di un’arte a rischio di veloce deperimento. Vi si trovano infatti il solito, seriale, ripetitivo, del tutto integrato Andy Warhol. Con lui Basquiat e il kitsch di Koons; va meglio con Keith Haring, mentre Wolfgang Tillmans è di una banale apparenza trasgressiva; Jacquelin Humphries è espressionismo al neon; David Lachapelle è qui il fotografo non dell’alta moda ma della volgarità statunitense; interessante nel suo simbolismo un’opera di Damien Hirst che raccoglie in una vetrina più di 23.000 pillole, segno esplicito della medicalizzazione del corpo sociale. Il pezzo forte di questo museo è la raccolta delle opere di Cy Twombly, in particolare il ciclo della battaglia di Lepanto (2001: qui sotto) con il mare, i navigli, la guerra, il sangue, in dodici grandi tele ritmate come la storia.

La Residenz dei Wittelsbach è una sorta di Potsdam o Versailles ma posta dentro la città. Centinaia di stanze piene di arazzi, affrescate, intarsiate, solenni. Scrivanie, tavoli, secrétaires, orologi, letti imponenti e fastosi. Dipinti dedicati alle città italiane e siciliane, ai siti archeologici dell’Isola. Stanze ricolme di porcellane cinesi e giapponesi. Migliaia di oggetti che vedono il loro trionfo prezioso e antico nella Schatzkammer, il tesoro di corte di una ricchezza assoluta, nel quale il fasto dei potenti si incarna in simboli fatti d’oro e di gemme. Un San Giorgio a cavallo del 1638-1641 (qui a destra) è tempestato di diamanti come nessun altro oggetto da me sinora visto. Ai miei amici cristiani, in particolare a coloro che ritengono il cristianesimo una speranza per i poveri della Terra, dico che il cristianesimo è stato ed è questo. E per tale ragione esiste ancora; fosse stato ‘povero’, sarebbe scomparso da secoli.

E invece esso esiste ancora nelle centinaia di chiese cattoliche che spuntano ovunque a München, segno orgoglioso e fatto di pietra dell’identità della Baviera rispetto al resto della Germania luterana. Anche perché cattolica, questa è una città evidentemente gaudente e gaudiosa nella quale musicisti di strada suonano ovunque, le risate sono squillanti e la disciplina stradale carente. Si sentono spesso clacson protestare se qualche altro automobilista rallenta e si vede gente che per questo si manda al diavolo in forme colorite, come se fossimo in una Catania qualunque. Da un momento all’altro, infatti, mi aspettavo di essere apostrofato con un siculo-tedesco «‘mparen».

Come tutte le belle città d’Europa, anche München è attraversata da un imponente fiume, l’Isar, dal colore verde turchese e dalla portata che varia nei diversi punti che attraversa. Oltre l’Isar, venendo dalla città antica, si apre il quartiere Haidhausen, che un tempo -quando München aveva ancora le mura– era un centro urbano a sé, poi quartiere operaio e popolare, oggi luogo abbastanza gentrificato ma dove si può osservare la vita quotidiana degli abitanti di Monaco. E lo si può fare anche dal Gasteig, un grande e dinamico centro culturale nel quale è possibile consultare libri, ascoltare concerti, sedersi al bar, vedere film. Insomma leben, vivere.

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