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Genocidio

Nel Vicino Oriente, dall’altra parte del Mediterraneo, è in corso la guerra di Israele contro i bambini palestinesi. Ne sono stati uccisi già 4.000.
I cittadini europei sembrano impotenti di fronte a questo massacro. Trascrivo dunque qui il testo di due documenti che ho firmato. Si tratta di una goccia rispetto all’oceano di sangue che il governo sionista ed escatologico-apocalittico di Israele sta producendo in Palestina. Ma è una goccia doverosa.
Il primo è di più ampia diffusione e sono contento che stia ricevendo l’adesione anche di numerosi docenti dell’Università di Catania e del mio Dipartimento. Le cifre tra parentesi indicano le 22 note che si riferiscono ai documenti citati nel testo (per la loro lettura rinvio al sito dedicato, dove appaiono anche le firme).
Il secondo documento è anch’esso assai chiaro nel descrivere ciò che sta accadendo.

Aggiungo il pdf di una dichiarazione della Società per gli studi sul Medio Oriente (SeSaMO):
Dichiarazione pubblica della Società per gli studi sul Medio Oriente (SeSaMO) e del suo Comitato per la libertà accademica sulle crescenti violazioni della libera espressione di opinioni e di ricerca

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Richiesta di un’urgente azione per un cessate il fuoco immediato e il rispetto del diritto umanitario internazionale

Come membri della comunità accademica italiana, da molti anni assistiamo con dolore e denunciamo ciò che accade in Palestina e Israele, dove vige, secondo Amnesty International, un illegale regime di oppressione militare e Apartheid [1]. Ancora una volta, ci sentiamo atterriti e angosciati dal genocidio che sta accadendo a Gaza, definito a ragione dalla scrittrice Dominque Eddé come ‘un abominio che bene esemplifica la sconfitta senza nome della nostra storia moderna’ [2].

Da tre settimane, a seguito delle brutali azioni perpetrate da Hamas il 7 ottobre che hanno causato la morte di oltre 1.400 persone (la maggior parte dei quali civili) e portato al rapimento di circa 200 ostaggi  [3], assistiamo a massicci e indiscriminati bombardamenti condotti dall’esercito di Israele contro la popolazione della Striscia di Gaza, che si configura come una punizione collettiva contro la popolazione inerme e imprigionata in un territorio di poco più di 360 km2 [4]. Mentre scriviamo, a Gaza il bilancio delle persone uccise supera i 9.000 morti, di cui 3.760 bambini, circa 22.900 feriti e 1.400.000 sfollati [5]. Secondo le Nazioni Unite, allo stato attuale sono circa 2.000 le persone disperse, presumibilmente intrappolate o uccise sotto le macerie [5,6]. Interi quartieri abitati, ospedali, scuole, moschee, chiese e intere università (Islamic e Al-Azhar University tra le più grandi e rinomate) sono state completamente rase al suolo [5,7].  Il governo israeliano ha intimato ad oltre un milione di abitanti nella striscia di lasciare le loro case in vista di un attacco da terra, sapendo che non vi sono via di fuga e via di uscita dalla Striscia di Gaza. Molti di questi sfollati sono stati poi bombardati nelle “zone sicure” del sud della Striscia di Gaza, rivelando un chiaro intento di pulizia etnica da parte del governo israeliano.

Questa situazione ha reso ancora più grave e urgente la crisi sanitaria e umanitaria all’interno della Striscia di Gaza, già al collasso ben prima del 7 ottobre 2023 per via dei 16 anni di quasi totale embargo e assedio illegale imposto dall’esercito israeliano su Gaza [8]. Assedio ed embargo che il governo israeliano ha inasprito dal 7 ottobre, imponendo un blocco totale di beni essenziali per la sopravvivenza quali acqua, carburante, cibo e elettricità [9,10,11,12]. All’interno di questa catastrofe umanitaria e sanitaria senza precedenti, anche per le Nazioni Unite e per le organizzazioni internazionali risulta pressoché impossibile operare a supporto della popolazione civile. L’Association Jewish for Peace ha chiamato tutte “le persone di coscienza a fermare l’imminente genocidio dei palestinesi” (https://www.jewishvoiceforpeace.org/2023/10/11/statement23-10-11/). Già il 25 ottobre l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato di non essere in grado di distribuire carburante e forniture sanitarie essenziali e salvavita agli ospedali nel Nord di Gaza per via dei continui bombardamenti israeliani [9,10]. La quantità di beni di prima necessità e soccorso che Israele ha permesso di far transitare a Gaza il 21 ottobre è stata dichiarata sufficiente a mantenere in funzione solo alcuni ospedali e ambulanze per poco più di 24 ore [13, 14] . Secondo l’UNICEF “Gaza è diventata un cimitero per migliaia di bambini” [15]

Inoltre, l’escalation di violenza si è estesa anche in Cisgiordania, con violenze e aggressioni quotidiane, numerose vittime ed espulsioni di intere famiglie dalle loro case e terre. Diversi sono i report delle Nazioni Unite che denunciano come dal 7 ottobre l’esercito israeliano abbia attaccato diverse aree della West Bank, causando la morte di almeno 96 palestinesi, e ferendone circa 1.800. Di questi, due sono bambini, e molti altri giovani adolescenti [16, 17]. Inoltre, 74 famiglie (circa 600 persone) sono state espulse da 13 comunità di pastori e beduini nei territori palestinesi, sei scuole e 1875 studenti sono stati colpiti durante gli attacchi [16, 17].

Tutto questo costituisce una evidente violazione del Diritto Internazionale e della Convenzione di Ginevra.

In tutti i report messi a disposizione dalle Nazioni Unite e dalle numerose organizzazioni umanitarie (ad esempio Amnesty International e Human Rights Watch), è segnalata l’importanza di considerare e comprendere le determinanti e antecedenti a questa violenza, da ricercarsi nella illegale occupazione che Israele impone alla popolazione palestinese da oltre 75 anni, attraverso una forma di segregazione raziale ed etnica [1, 18, 19, 20]. Comprendere e analizzare queste determinanti è l’unica possibilità per poterne riconoscere le radici, contrastare l’escalation e sperare e reclamare  pace  e sicurezza per tutti.

È fondamentale ricordare come riconoscere il contesto da cui nasce quest’ultima ondata di violenza non significa sminuire il dolore e la sofferenza delle vittime israeliane e palestinesi, ma costituisce il cruciale impegno per sostenere la dignità, la salute ed i diritti umani di tutte le parti coinvolte. È possibile e necessario condannare le azioni di Hamas e, al contempo, riconoscere l’oppressione storica, disumana e coloniale che i palestinesi stanno vivendo da 75 anni. Come affermato dall’organizzazione pacifista Jewish Voice for Peace [21, 22], l’escalation a cui assistiamo rappresenta l’ennesimo esempio di come gli attacchi coloniali e illegali perpetrati da Israele contro la polazione palestinese costituiscano un rischio per la vita di tutti coloro che vivono nella regione, siano essi israeliani o plaestinesi.

In qualità di accademici e accademiche italiane riteniamo che sia nostro dovere e responsabilità attivarci e contribuire a contrastare queste escalation di violenza e sostenere i diritti umani, la salute, la dignità e il benessere. Crediamo fortemente che l’unico modo per promuovere una coesistenza pacifica sia lavorare insieme per denunciare e porre fine al prolungato assedio di Gaza e all’occupazione illegale (in ottemperanza con la legge internazionale) dei territori palestinesi.

Pertanto,

  • chiediamo urgentemente al Ministro Antonio Tajani di adoperarsi diplomaticamente e pubblicamente per l’urgente rispetto del diritto umanitario internazionale da parte di tutte le parti e la condanna dei crimini di  guerra e l’immediato cessate il fuoco, la fornitura di aiuti umanitari e la protezione delle Nazioni Unite per l’intera popolazione palestinese.
  • chiediamo alla Ministra dell’Università e della Ricerca Anna Maria Bernini di farsi pubblicamente portatrice delle nostre rivendicazioni nelle apposite sedi istituzionali
  • Ci rivolgiamo infine anche alla CRUI e ai singoli Atenei, chiedendo loro di non limitarsi a sostare in una dolorosa impotenza ma di agire con tutte le azioni necessarie e possibili nei rispettivi contesti. Come studiosi, studiose e membri del mondo universitario italiano guardiamo con preoccupazione alla diffusione di misure di limitazione della libertà di dibattito e di delegittimazione delle richieste di cessazione della violenza. Chiediamo quindi di ribadire l’impegno per la libertà di parola, di garantire il diritto degli e delle studenti delle università italiane al dibattito, e di favorire momenti di dibattito e discussione all’interno degli atenei. Chiediamo inoltre di pronunciarsi con chiarezza sulla necessità da parte dei singoli atenei italiani di procedere con l’interruzione immediata delle collaborazioni con istituzioni universitarie e di ricerca israeliane fino a quando non sarà ripristinato il rispetto del diritto internazionale e umanitario, cessati i crimini contro la popolazione civile palestinese da parte dell’esercito israeliano e quindi fino a quando non saranno attivate azioni volte a porre fine all’occupazione coloniale illegale dei territori palestinesi e all’assedio di Gaza.

Crediamo che queste azioni siano irrimandabili sia per contribuire a ripristinare i diritti umani e la giustizia globale sia per non continuare ad essere spettatori conniventi e silenziosi  di una tragedia umanitaria e della cancellazione del popolo palestinese.

Con profonda preoccupazione,

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Fermiamo il genocidio. L’appello degli intellettuali

«Immagina che tocchi a te innalzare l’edificio del destino umano allo scopo finale di rendere gli uomini felici e di dare loro pace e tranquillità, ma immagina pure che per far questo sia necessario e inevitabile torturare almeno un piccolo esserino, ecco, proprio quella bambina che si batteva il petto con il pugno, immagina che l’edificio debba fondarsi sulle lacrime invendicate di quella bambina – accetteresti di essere l’architetto a queste condizioni? […] potresti accettare l’idea che gli uomini, per i quali stai innalzando l’edificio, acconsentano essi stessi a ricevere una tale felicità sulla base del sangue irriscattato di una piccola vittima e, una volta accettato questo, vivano felici per sempre?»
Fëdor Michajlovič Dostoevskij, I Fratelli Karamazov

Le efferatezze compiute da gruppi di seguaci del movimento Hamas il 7 ottobre, assolutamente spietate, ingiustificate e da condannare, hanno innescato, come era facile da prevedere, una cascata di altre non meno orrende e immense atrocità.
Siamo (razionalmente ed emotivamente) sconvolti dal genocidio che si sta perpetrando davanti ai nostri occhi inerti e impotenti di un popolo calpestato e umiliato da più di 70 anni con la complicità totale delle grandi potenze e dei loro sudditi; il pensiero unico e asservito (volontario o non volontario) è il primo colpevole e movente di questo crimine immane.
Siamo sconvolti dall’indifferenza e dall’egoismo delle moltitudini, dall’ignobile e vergognoso appoggio che da tutte le parti viene a un genocidio voluto e programmato, e le poche voci diverse che si levano per tentare di restituire una realtà storicamente e culturalmente più differenziata e complessa sono messe a tacere o additate come folli e pertanto pericolose.
Per ogni bambino e anziano innocente morto sotto le bombe di una delle armate (tecnologicamente e ideologicamente) fra le più potenti e addestrate al mondo ci vorrebbero non una singola reazione di sdegno e di condanna ma un’infinità di prese di posizione, non un solo atto di resistenza ma una resistenza civile senza fine.

Chi pagherà per quei bambini e quegli anziani ammazzati perché appartenenti a un popolo “inferiore”, esseri umani per sembianza fisica ma in fondo “animali” (così si è espresso un ministro israeliano), e perciò considerati indegni di vivere? Nessuno pagherà quei morti, come nessuno ha pagato quelli che ci sono stati in Iraq e in molti altri Paesi, colpevoli soprattutto di non essersi conformati al modello unico del capitalismo statunitense e occidentale della Nato e della UE (ma l’Occidente è tutt’altra cosa, le sue radici e i suoi valori sono ben altri! E l’Europa è stata nei secoli un’altra realtà del tutto diversa da quella che vediamo oggi, e il progetto europeo aveva altri contenuti e obiettivi!), perché la coscienza non esiste più come forza critica e vitale, espressione nobile e universale di libertà-e-giustizia. Anzi molti autori di quei crimini anche recenti si sono arricchiti e hanno ricevuto premi in più passando alla storia come uomini di pace ed esempi di saggezza!

Neanche le campane suonano più (avrebbe detto Saramago) per chiamare uomini e donne ad essere consapevoli della realtà e a ribellarsi contro i soprusi più assurdi e le ingiustizie più disumane.
Siamo sconvolti dallo smarrimento dell’uomo che oramai non sa più distinguere, capire, cooperare, che è incapace di provare dolore e vicinanza, che trasforma la più immensa delle tragedie in un avvilente e indegno spettacolo mediatico. Si sta (ri)affermando la parte dell’uomo più bassa e vile che sta comandando sulle masse e guidando il destino del mondo portandolo verso il baratro. Molti, troppi uomini, in particolare fra quelli che detengono nello loro mani il destino di milioni di persone, stanno degenerando in esseri inferiori privi di ragione (…in inferiore, quae sunt bruta, degenerare…, Pico della Mirandola). “L’incivilimento smisurato” e lo “snaturamento senza limiti” (di cui parlava Leopardi nel suo Zibaldone), che trovano la loro più truce espressione nella soppressione degli altri esseri umani e di quanto rende possibile biologicamente e culturalmente la loro vita, oramai caratterizzano la nostra realtà quotidiana.
È un tormento vedere quei bambini e anziani morire nelle loro case o negli ospedali dove cercano disperatamente l’ultima àncora di salvezza, l’ultimo rifugio, l’ultima speranza di vita. La sofferenza degli innocenti (bambini, anziani, malati) e la loro eliminazione è il male supremo. Il pensiero di Dostoevskij (ne “I fratelli Karamazov”) sui bambini innocenti che soffrono e muoiono (spesso nel nome di un dio in cui si dice di credere e al quale ci si affida) ci tocca nell’animo più profondo, ci parla e incita a ribellarci a uno stato di cose inaccettabile, che ha le sue molteplici cause non sempre facili da comprendere, ma che non è tuttavia affatto ineluttabile.

In questi giorni molte maschere stanno cadendo, di governi, organizzazioni nazionali e mondiali e singoli individui (in primis di politici, giornalisti e intellettuali) e la loro totale ipocrisia e il loro becero cinismo traspaiono pienamente. È terribile constatare come ci sia una maggioranza di uomini (nell’Occidente in decadenza) che si mostrano indifferenti o approvano e addirittura appoggiano il genocidio in corso, questo massacro di un popolo inerte e indifeso (ripetiamo, soprattutto bambini, anziani e malati). È una cosa orrenda, rivoltante, inaccettabile, culturalmente, politicamente, moralmente, semplicemente umanamente.
Viviamo una crisi profondissima e abissale di un modello di civiltà, dell’intera umanità, dell’uomo, dello spirito. Ma non c’è consapevolezza di ciò o ce n’è troppo poca, non abbastanza per costituire una forza critica e costruire un altro modello e progetto di società e di cultura. Come non capire ormai, anche di fronte ai recenti terribili fatti, che non solo non viviamo nel migliore dei mondi possibili, ma che un altro mondo è possibile, fondato su modelli culturali e valori morali radicalmente diversi?
Dobbiamo agire in un orizzonte culturale in cui dominano incontrastate l’indifferenza, la viltà e l’ipocrisia. Da qui la difficoltà ad incidere anche minimamente sullo stato delle cose. Ci vuole un nuovo inizio, occorre un altro modo di pensare, un altro linguaggio, una diversa concezione della natura e una diversa visione dell’uomo.
Dalla noche oscura del alma si uscirà forse solo quando avremo avuto il coraggio di recidere le “catene” del nostro asservimento fisico e mentale e ritrovato il cammino del pensiero autonomo e critico (della consapevolezza e della coscienza) e della dignità umana (che altri chiamano spirito o anima).

Stati Uniti d’America

Soltanto i ciechi e gli accecati non vedono e non vogliono vedere che quanto accade a Gaza è un genocidio, un lucido e voluto genocidio. La domanda è dunque: i palestinesi e un loro Stato hanno diritto a esistere oppure devono essere spazzati via dalla faccia della Terra?
La risposta è chiara: il problema palestinese sarà risolto quando neppure uno di loro abiterà più la Palestina, diventata definitivamente «il grande Israele».
Questo genocidio è in corso da molto tempo, è attuato da Israele ed è sostenuto in tutti i modi dagli Stati Uniti d’America, un Paese che mostra ormai senza infingimenti la propria natura guerrafondaia e terroristica, un Paese che è diventato il più pericoloso per la pace su questo martoriato pianeta.
E allora pongo di nuovo le domande che rivolsi qualche mese fa:
Che cosa autorizza un Paese come gli Stati Uniti d’America a intromettersi nelle decisioni, nella vita, nelle libertà di altri Paesi?
In nome di che che cosa gli USA sono giudici dei destini di ciò che avviene nel continente asiatico, in America Latina, nel Vicino Oriente, in Europa, ovunque?
Da dove proviene questo privilegio assoluto di stabilire per tutti che cosa sia il bene e che cosa il male?
Che cosa legittima la pretesa che gli altri popoli, stati, nazioni debbano obbedire ai giudizi, alle decisioni, alle azioni e alle armi degli Stati Uniti d’America?
Sono davvero interessato a delle plausibili risposte, che non siano l’unica possibile e realistica: «Perché gli Stati Uniti d’America sono attualmente il Paese più forte e militarizzato del mondo e i più forti fanno ciò che vogliono dei più deboli».

[La fotografia di apertura è stata scattata da Davide Amato in occasione di un evento organizzato lo scorso maggio dall’ASFU e dedicato alla guerra]

Sionismo

«Forze oscure»; «asse malvagio»; «lotta tra umanità e animalismo».
Così parla Benjamin Netanyahu, così parla il distruttivo fanatismo sionista, per il quale – afferma un generale noto per aver teorizzato contro i palestinesi la legittimità della «quarta dimensione, quella dell’incertezza, dell’illegalità e del disordine, al di fuori di modelli concettuali accettati e prevedibili»  – «i bimbi massacrati e rapiti a Gaza» sono solo quelli israeliani. I bambini palestinesi possono invece morire senza che nessuno riconosca la loro infanzia e la loro umanità.

Vedi anche:

Non è una guerra

 

Gaza 2023

 

 

Schizofrenie imperialiste

 

Stati Uniti d’America

Schizofrenie imperialiste

Che Israele abbia intenzione di accelerare il genocidio del popolo palestinese credo sia evidente a chiunque guardi con un minimo di oggettività quello che da più di settanta anni accade in Palestina. La deportazione di milioni di persone dalle loro case; il trasferimento forzato di migliaia di malati; il radere al suolo intere città della Striscia di Gaza; il massacro di vecchi, donne, bambini attraverso bombardamenti indiscriminati…se non risulta chiaro tutto questo, non c’è proprio niente da fare.
Vorrei invece osservare l’ennesima schizofrenia della soggettività che definisce se stessa «progressista» e che da un lato reclama l’accoglienza più o meno universale di «migranti» che sono per la più parte di religione e identità islamica e tuttavia sostiene l’entità sionista dello Stato di Israele che vede nell’Islam sia arabo (per la più parte sunnita) sia iraniano (sciita) un pericolo mortale. Israele è anche l’ennesimo strumento dell’imperialismo anglosassone; chi conosce un poco la storia sa che il movimento sionista fu ai suoi albori sostenuto appunto dallo Stato britannico come ulteriore strumento di controllo del Vicino Oriente.
L’incoerenza logica e politica costituisce una tendenza inevitabile dei «progressisti», che nel loro paradigma universalista, globalista e dunque imperialista si trovano sempre davanti a contraddizioni che o cercano di ignorare o non comprendono proprio o verso le quali nutrono sovrana indifferenza, essendo loro i «buoni e giusti» per definizione. Sostenere il più implacabile colonialismo e suprematismo anche culturale, basato sui «valori» dell’Occidente, contro tutti gli altri popoli e civiltà del pianeta (ritenuti autoritari, gerarchici, antidemocratici, maschilisti, patriarcali, superstiziosi, arretrati e così via) e insieme credersi «accoglienti» mi sembra che sia frutto appunto di una schizofrenia politica.
Nel caso di Israele, poi, dovrebbe mettere almeno un poco sull’avviso la modalità di impronta nazista con la quale il sionismo afferma questo:

«‘Abitanti di Gaza, negli ultimi giorni vi abbiamo esortato a lasciare Gaza City e il nord della Striscia e a spostarvi a sud del Wadi Gaza per la vostra sicurezza. Oggi vi informiamo che fra le ore 10 e le 13 Israele non colpirà l’itinerario indicato dalla nostra cartina per raggiungere quella zona’. Così il portavoce militare israeliano. ‘Sfruttate questo breve lasso di tempo per andare a sud. State certi che i dirigenti di Hamas hanno già pensato alla loro sicurezza’».
(Fonte: Televideo RAI, Gaza, Israele: corridoio 10-13, andate via, 15/10/2023, ore 09:00)

Si noti infatti la tragica ironia e il tono conciliante e burocratico con il quale si intima a milioni di persone (compresi migliaia di malati ricoverati negli ospedali) di spostarsi di decine di chilometri tutti insieme «fra le ore 10 e le 13». E questo mentre «il ministero della Sanità dell’Autorità nazionale palestinese ha aggiornato il numero delle vittime dei raid israeliani a Gaza e Cisgiordania. I morti sono 2.384 e i feriti 10.250 dal 7 ottobre, data dell’attacco di Hamas. In particolare nella Striscia le vittime sono 2.329, la maggior parte delle quali bambini e donne, e i feriti 9.042» (Fonte: Televideo RAI, Anp: 2.384 morti tra Gaza e Cisgiordania, 15/10/2023 15:00).
Una carneficina delle persone che si coniuga a quella dei pensieri delle persone. La Fiera del Libro di Francoforte ha annullato la cerimonia di premiazione della scrittrice palestinese Adania Shibli, con la motivazione della «guerra in Israele» ma contemporaneamente la stessa Fiera ha ampliato lo spazio degli autori israeliani. Tutto questo era prevedibile ed è stato previsto da me e per fortuna da molti altri: la reazione tirannica e irrazionale sulla questione vaccini ha dato il via a un piano inclinato che è continuato con la guerra Nato-Russia e ora con l’ostracismo verso gli intellettuali palestinesi. L’Europa è tornata a tempi assai bui, i tempi della censura, dell’inquisizione, dell’intolleranza.

Gaza 2023

Nel 2014, in occasione di un’altra fase del genocidio palestinese, commentavo un’affermazione del tutto condivisibile di Noam Chomsky e ricordavo che una deputata dell’estrema destra israeliana aveva scritto che «tutti i palestinesi meritano di morire» (Fonte: Televideo, 20/07/2014, 00:05). Aggiungevo che le generazioni future si vergogneranno di un’epoca “democratica” che ha permesso il genocidio giustificando in tutti i modi i carnefici. Si chiederanno come sia potuto accadere. Troveranno le risposte nel razzismo degli eletti da Dio, nel fanatismo, nella geopolitica, negli interessi finanziari, nella menzogna, nell’indifferenza (Non è una guerra; 21 luglio 2014).
A nove anni di distanza la situazione dei palestinesi è peggiorata. Questo popolo vive in un regime di vera e propria segregazione (apartheid) che nella cosiddetta «Striscia di Gaza» diventa miseria, frequente mancanza di acqua, elettricità, cibo, incertezza sulla vita e sulla morte, pervasiva e quotidiana umiliazione rispetto ai padroni israeliani.
Tra le tante ragioni, molte piuttosto oscure, dell’attacco dell’organizzazione Hamas contro Israele credo ci sia anche la disperazione di chi cerca di morire non come un topo in trappola ma almeno combattendo contro chi lo sta portando alla fine. È sufficiente raccogliere alcune notizie da una fonte passabilmente oggettiva come il Televideo RAI per rendersi conto di che cosa stia avvenendo al popolo palestinese in quella che era ed è la sua terra.

Rappresaglia e stragi:

Assedio contro i palestinesi, definiti «animali umani»:

Richiesta da parte dell’attuale ministro italiano dell’istruzione di comminare pene detentive contro gli studenti che «inneggiano a Hamas»:

Bombe israeliane su un mercato palestinese:

Aggiungo una riflessione del tutto ragionevole del collega Andrea Zhok, professore associato di Filosofia morale alla Statale di Milano:

Chiudo con una pagina del numero 54 (anno XXVII, luglio/agosto 2023) della rivista Indipendenza, pagina nella quale Neturei Karta International (una associazione internazionale di ebrei ortodossi) condanna in modo assai chiaro il sionismo dello stato di Israele, giudicandolo incompatibile con la fede e con l’identità ebraiche.

Terre / Popoli / Confini

Australia. Storie dagli antipodi
Padiglione d’Arte Contemporanea – Milano
A cura di Eugenio Viola
Artisti in mostra: Vernon Ah Kee, Tony Albert, Khadim Ali, Brook Andrew, Richard Bell, Daniel Boyd, Maria Fernanda Cardoso, Barbara Cleveland, Destiny Deacon, Hayden Fowler, Marco Fusinato, Agatha Gothe-Snape, Julie Gough, Fiona Hall, Dale Harding, Nicholas Mangan, Angelica Mesiti, Archie Moore, Callum Morton, Tom Nicholson (with Greg Lehman), Jill Orr, Mike Parr, Patricia Piccinini, Stuart Ringholt, Khaled Sabsabi, Yhonnie Scarce, Soda_Jerk, Dr Christian Thompson AO, James Tylor, Judy Watson, Jason Wing and Nyapanyapa Yunupingu.
Sino al 9 febbraio 2020

Nel 1770 il capitano inglese James Cook toccò le coste dell’Australia e ripetè il gesto del suo collega italiano Cristoforo Colombo, prendendo possesso in nome dei propri sovrani di una terra che era di altri ma che venne definita vuota, disabitata. Gli umani che la abitavano non contavano evidentemente nulla. La violenza contro i veri australiani –veri nel senso semplice ma fondamentale che abitavano quella terra da molto tempo prima che arrivassero gli occidentali– appare assai chiara nell’opera forse più politica di questa mostra: Salvado de Que? (2019) di Archie Moore. Si tratta di una grande bandiera verticale di colore blu, lo stesso colore della bandiera australiana, sopra la quale c’è scritto Salvado. Ai piedi della bandiera ci sono tracce di sangue. Il sangue dei popoli aborigeni che dal 1910 al 1970 videro molti dei propri figli sottratti ai genitori per essere educati al modo occidentale e nella fede cristiana. L’immagine qui sopra è invece di Khadim Ali (Untitled 2, dalla serie Fragmented Memories, 2017-2018) e costituisce un complesso tentativo di sintetizzare il passato e il presente dell’Australia, fatti anche di genocidi degli antichi abitatori.
Quando nessuno sarà più così buono e così filantropo da dedicarsi in questo modo alla salvezza degli altri  popoli, ad esempio con guerre democratiche e umanitarie, il rispetto e la libertà saranno meglio garantiti nelle vicende umane.
Quando nessuno sarà più così buono e così globalista da ignorare il fatto che Homo sapiens è un animale tanto nomade quanto fortemente territoriale, allora popoli e comunità eviteranno di farsi massacrare, sottomettere o sostituire come accadde agli accoglienti popoli centro americani con gli spagnoli, agli aborigeni australiani  con i britannici (i Native [2019] dell’immagine-parola di Tony Albert) e come può accadere all’Europa stoltamente ingenua del XXI secolo.
Ask us what we want, still (2019) di Jason Wing denuncia giustamente il furto di terra perpetrato da Cook, perché la terra, le proprietà, i confini, prima di essere delle astrazioni ideologiche costituiscono delle realtà antropiche. Chi non ne tiene conto è -appunto– o un ‘crook’, un criminale, o una vittima dei criminali. Per inciso, le attuali politiche sull’emigrazione della nazione australiana sono tra le più dure e severe al mondo: in pratica la quasi totalità di coloro che cercano di entrare illegalmente in Australia viene respinta e rimandata da dove è venuta. Per usare il linguaggio degli europei accoglienti, si tratta di un Paese dai tratti ‘fascisti’. E tuttavia i nostri bravi democratici non ne fanno parola. Forse perché quando è così lontano il ‘fascismo’ si scolora?
Insieme a quelle di Moore e Wing, il PAC ospita le opere di altri 30 artisti australiani contemporanei, dando la possibilità di conoscere la varietà e la ricchezza della cultura figurativa di quel Paese-Continente. Opere che si possono descrivere come un tentativo di tenere distinti ponendoli in dialogo tra loro concetti come paesaggio/artificio, autoctono/esterno, digitale/materico (ad esempio i power point di Agatha Gothe-Snape e gli scheletri costruiti con il vetro di Fiona Hall), corporeo/astratto (da una parte il corpo di Jill Orr che si mescola letteralmente e profondamente con la terra, gli alberi, gli elementi e dall’altra parte i segni arcaici di James Tylor).

Sullo sfondo, la coppia fondamentale costituita da natura/cultura, la cui esemplificazione più interessante sono i video e le fotografie di Maria Fernanda Cardoso –On the Origins of Art I-II (2016)-che documentano alcuni momenti della vita di un piccolo ragno australiano, Maratus (qui sopra). L’esistenza di questo animale è ragione sufficiente per mettere in discussione una delle tante convinzioni antropocentriche, quella che anche Karl Marx espresse nella sua nota affermazione secondo la quale «il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera» (Il Capitale, libro I, sezione III, primo capitolo ‘Processo lavorativo e processo di valorizzazione’). E invece le immagini di Cardoso mostrano il maschio di questo insetto corteggiare la femmina mediante danze, suoni, colori. Un cromatismo denso ed espressionistico, per il quale si potrebbe capovolgere l’affermazione marxiana e dire che c’è nella testa del ragno un’idea ricca e complessa che lo induce a produrre movimenti e a generare forme in vista di uno scopo che gli è chiaro prima che si metta in azione.
È pensata e agita l’armonia delle forme della quale è capace un qualunque maschio Maratus, la cui femmina deve evidentemente essere a sua volta capace di valutazione critica, potendo accettare o respingere le offerte erotico-artistiche del suo corteggiatore. Forse l’errore sta nella scala assiologica, nell’ossessione umana di costruire gerarchie di valori dove ci sono delle semplici differenze. Quelle per le quali la body art che gli aborigeni d’Australia hanno coltivato per millenni non è peggiore o migliore, ad esempio, dell’arte barocca. Sono entrambe delle coinvolgenti manifestazioni della natura poietica di Homo sapiens, del suo incessante costruire mondi intorno e dentro di sé. Anche Patricia Piccinini costruisce opere -come Kindred (parenti, affini, 2018)– nelle quali risaltano gli elementi di continuità tra la specie umana e gli altri primati, in questo caso gli orangutan.
Questo e molto altro, soprattutto i numerosi video di vari artisti, è detto ed espresso in forme e modalità che confermano come tutta l’arte contemporanea sia arte concettuale.

Cile, bianco sangue

Blanco en Blanco
di Théo Court
Con: Alfredo Castro (Pedro, il fotografo), Lars Rudolph, Danny Huston (L’amico), Lola Rubio, Esther Vega
Spagna, Cile, Francia, Germania, 2019
Trailer del film

Agli inizi del Novecento parte del Cile era ancora terra di conquista di proprietari terrieri simili a quelli che agli inizi del XXI secolo vanno distruggendo l’Amazzonia, allo scopo soprattutto di creare pascoli e rifornire di carne le mense statunitensi ed europee.
Porter è uno di questi ricchi proprietari, le sue terre sono molto a Sud. Pedro è un fotografo che viene incaricato di immortalare il matrimonio di Porter e Sara, la sua giovane sposa. Sara è in realtà poco più che una bambina e Pedro ne viene affascinato. Porter non si presenta nella propria tenuta, il matrimonio viene rinviato, Pedro è coinvolto dagli sgherri di Porter nella strage delle popolazioni che abitano la Terra del Fuoco, i Selknam, che da questa conquista vennero sterminati sino a estinguersi. È uno dei tanti genocidi che sono accaduti e vengono dimenticati, concentrati come siamo a ricordarne incessantemente uno solo.
La prima parte del film narra l’arrivo di Pedro, il suo lavoro sul corpo e sull’immagine della sposa, il gelo che soffia tra le case e sulla terra. La seconda parte descrive il cedimento del fotografo/artista alla violenza perpetrata da coloni che non rispettano nulla, che massacrano e si fanno poi immortalare in queste loro imprese. Pedro organizza le foto della caccia grossa contro altri umani con la stessa meticolosità con la quale ha fotografato la sposa bambina. Due stupri, uno storico e l’altro allegorico, dai quali è nato il Cile moderno, come le altre nazioni frutto dei conquistadores, dei mercanti, dei missionari cristiani. Il luogotenente di Porter, infatti, sostiene che il primo edificio da costruire in un nuovo villaggio deve essere la chiesa.
I ritmi sono analoghi a quelli delle fotografie che emergono a poco a poco dalla camera oscura di Pedro; le inquadrature somigliano a dei dipinti solitari e lontani; non ci sono infatti primi piani in questo film ma immagini che rinviano agli spazi sconfinati e a una altrettanto grande solitudine. La fragilità di Pedro di fronte alla violenza degli umani, all’indifferenza del vento, al bianco della neve, disegna la disperazione della storia.

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