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Gaza 2023

Nel 2014, in occasione di un’altra fase del genocidio palestinese, commentavo un’affermazione del tutto condivisibile di Noam Chomsky e ricordavo che una deputata dell’estrema destra israeliana aveva scritto che «tutti i palestinesi meritano di morire» (Fonte: Televideo, 20/07/2014, 00:05). Aggiungevo che le generazioni future si vergogneranno di un’epoca “democratica” che ha permesso il genocidio giustificando in tutti i modi i carnefici. Si chiederanno come sia potuto accadere. Troveranno le risposte nel razzismo degli eletti da Dio, nel fanatismo, nella geopolitica, negli interessi finanziari, nella menzogna, nell’indifferenza (Non è una guerra; 21 luglio 2014).
A nove anni di distanza la situazione dei palestinesi è peggiorata. Questo popolo vive in un regime di vera e propria segregazione (apartheid) che nella cosiddetta «Striscia di Gaza» diventa miseria, frequente mancanza di acqua, elettricità, cibo, incertezza sulla vita e sulla morte, pervasiva e quotidiana umiliazione rispetto ai padroni israeliani.
Tra le tante ragioni, molte piuttosto oscure, dell’attacco dell’organizzazione Hamas contro Israele credo ci sia anche la disperazione di chi cerca di morire non come un topo in trappola ma almeno combattendo contro chi lo sta portando alla fine. È sufficiente raccogliere alcune notizie da una fonte passabilmente oggettiva come il Televideo RAI per rendersi conto di che cosa stia avvenendo al popolo palestinese in quella che era ed è la sua terra.

Rappresaglia e stragi:

Assedio contro i palestinesi, definiti «animali umani»:

Richiesta da parte dell’attuale ministro italiano dell’istruzione di comminare pene detentive contro gli studenti che «inneggiano a Hamas»:

Bombe israeliane su un mercato palestinese:

Aggiungo una riflessione del tutto ragionevole del collega Andrea Zhok, professore associato di Filosofia morale alla Statale di Milano:

Chiudo con una pagina del numero 54 (anno XXVII, luglio/agosto 2023) della rivista Indipendenza, pagina nella quale Neturei Karta International (una associazione internazionale di ebrei ortodossi) condanna in modo assai chiaro il sionismo dello stato di Israele, giudicandolo incompatibile con la fede e con l’identità ebraiche.

Terre / Popoli / Confini

Australia. Storie dagli antipodi
Padiglione d’Arte Contemporanea – Milano
A cura di Eugenio Viola
Artisti in mostra: Vernon Ah Kee, Tony Albert, Khadim Ali, Brook Andrew, Richard Bell, Daniel Boyd, Maria Fernanda Cardoso, Barbara Cleveland, Destiny Deacon, Hayden Fowler, Marco Fusinato, Agatha Gothe-Snape, Julie Gough, Fiona Hall, Dale Harding, Nicholas Mangan, Angelica Mesiti, Archie Moore, Callum Morton, Tom Nicholson (with Greg Lehman), Jill Orr, Mike Parr, Patricia Piccinini, Stuart Ringholt, Khaled Sabsabi, Yhonnie Scarce, Soda_Jerk, Dr Christian Thompson AO, James Tylor, Judy Watson, Jason Wing and Nyapanyapa Yunupingu.
Sino al 9 febbraio 2020

Nel 1770 il capitano inglese James Cook toccò le coste dell’Australia e ripetè il gesto del suo collega italiano Cristoforo Colombo, prendendo possesso in nome dei propri sovrani di una terra che era di altri ma che venne definita vuota, disabitata. Gli umani che la abitavano non contavano evidentemente nulla. La violenza contro i veri australiani –veri nel senso semplice ma fondamentale che abitavano quella terra da molto tempo prima che arrivassero gli occidentali– appare assai chiara nell’opera forse più politica di questa mostra: Salvado de Que? (2019) di Archie Moore. Si tratta di una grande bandiera verticale di colore blu, lo stesso colore della bandiera australiana, sopra la quale c’è scritto Salvado. Ai piedi della bandiera ci sono tracce di sangue. Il sangue dei popoli aborigeni che dal 1910 al 1970 videro molti dei propri figli sottratti ai genitori per essere educati al modo occidentale e nella fede cristiana. L’immagine qui sopra è invece di Khadim Ali (Untitled 2, dalla serie Fragmented Memories, 2017-2018) e costituisce un complesso tentativo di sintetizzare il passato e il presente dell’Australia, fatti anche di genocidi degli antichi abitatori.
Quando nessuno sarà più così buono e così filantropo da dedicarsi in questo modo alla salvezza degli altri  popoli, ad esempio con guerre democratiche e umanitarie, il rispetto e la libertà saranno meglio garantiti nelle vicende umane.
Quando nessuno sarà più così buono e così globalista da ignorare il fatto che Homo sapiens è un animale tanto nomade quanto fortemente territoriale, allora popoli e comunità eviteranno di farsi massacrare, sottomettere o sostituire come accadde agli accoglienti popoli centro americani con gli spagnoli, agli aborigeni australiani  con i britannici (i Native [2019] dell’immagine-parola di Tony Albert) e come può accadere all’Europa stoltamente ingenua del XXI secolo.
Ask us what we want, still (2019) di Jason Wing denuncia giustamente il furto di terra perpetrato da Cook, perché la terra, le proprietà, i confini, prima di essere delle astrazioni ideologiche costituiscono delle realtà antropiche. Chi non ne tiene conto è -appunto– o un ‘crook’, un criminale, o una vittima dei criminali. Per inciso, le attuali politiche sull’emigrazione della nazione australiana sono tra le più dure e severe al mondo: in pratica la quasi totalità di coloro che cercano di entrare illegalmente in Australia viene respinta e rimandata da dove è venuta. Per usare il linguaggio degli europei accoglienti, si tratta di un Paese dai tratti ‘fascisti’. E tuttavia i nostri bravi democratici non ne fanno parola. Forse perché quando è così lontano il ‘fascismo’ si scolora?
Insieme a quelle di Moore e Wing, il PAC ospita le opere di altri 30 artisti australiani contemporanei, dando la possibilità di conoscere la varietà e la ricchezza della cultura figurativa di quel Paese-Continente. Opere che si possono descrivere come un tentativo di tenere distinti ponendoli in dialogo tra loro concetti come paesaggio/artificio, autoctono/esterno, digitale/materico (ad esempio i power point di Agatha Gothe-Snape e gli scheletri costruiti con il vetro di Fiona Hall), corporeo/astratto (da una parte il corpo di Jill Orr che si mescola letteralmente e profondamente con la terra, gli alberi, gli elementi e dall’altra parte i segni arcaici di James Tylor).

Sullo sfondo, la coppia fondamentale costituita da natura/cultura, la cui esemplificazione più interessante sono i video e le fotografie di Maria Fernanda Cardoso –On the Origins of Art I-II (2016)-che documentano alcuni momenti della vita di un piccolo ragno australiano, Maratus (qui sopra). L’esistenza di questo animale è ragione sufficiente per mettere in discussione una delle tante convinzioni antropocentriche, quella che anche Karl Marx espresse nella sua nota affermazione secondo la quale «il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera» (Il Capitale, libro I, sezione III, primo capitolo ‘Processo lavorativo e processo di valorizzazione’). E invece le immagini di Cardoso mostrano il maschio di questo insetto corteggiare la femmina mediante danze, suoni, colori. Un cromatismo denso ed espressionistico, per il quale si potrebbe capovolgere l’affermazione marxiana e dire che c’è nella testa del ragno un’idea ricca e complessa che lo induce a produrre movimenti e a generare forme in vista di uno scopo che gli è chiaro prima che si metta in azione.
È pensata e agita l’armonia delle forme della quale è capace un qualunque maschio Maratus, la cui femmina deve evidentemente essere a sua volta capace di valutazione critica, potendo accettare o respingere le offerte erotico-artistiche del suo corteggiatore. Forse l’errore sta nella scala assiologica, nell’ossessione umana di costruire gerarchie di valori dove ci sono delle semplici differenze. Quelle per le quali la body art che gli aborigeni d’Australia hanno coltivato per millenni non è peggiore o migliore, ad esempio, dell’arte barocca. Sono entrambe delle coinvolgenti manifestazioni della natura poietica di Homo sapiens, del suo incessante costruire mondi intorno e dentro di sé. Anche Patricia Piccinini costruisce opere -come Kindred (parenti, affini, 2018)– nelle quali risaltano gli elementi di continuità tra la specie umana e gli altri primati, in questo caso gli orangutan.
Questo e molto altro, soprattutto i numerosi video di vari artisti, è detto ed espresso in forme e modalità che confermano come tutta l’arte contemporanea sia arte concettuale.

Cile, bianco sangue

Blanco en Blanco
di Théo Court
Con: Alfredo Castro (Pedro, il fotografo), Lars Rudolph, Danny Huston (L’amico), Lola Rubio, Esther Vega
Spagna, Cile, Francia, Germania, 2019
Trailer del film

Agli inizi del Novecento parte del Cile era ancora terra di conquista di proprietari terrieri simili a quelli che agli inizi del XXI secolo vanno distruggendo l’Amazzonia, allo scopo soprattutto di creare pascoli e rifornire di carne le mense statunitensi ed europee.
Porter è uno di questi ricchi proprietari, le sue terre sono molto a Sud. Pedro è un fotografo che viene incaricato di immortalare il matrimonio di Porter e Sara, la sua giovane sposa. Sara è in realtà poco più che una bambina e Pedro ne viene affascinato. Porter non si presenta nella propria tenuta, il matrimonio viene rinviato, Pedro è coinvolto dagli sgherri di Porter nella strage delle popolazioni che abitano la Terra del Fuoco, i Selknam, che da questa conquista vennero sterminati sino a estinguersi. È uno dei tanti genocidi che sono accaduti e vengono dimenticati, concentrati come siamo a ricordarne incessantemente uno solo.
La prima parte del film narra l’arrivo di Pedro, il suo lavoro sul corpo e sull’immagine della sposa, il gelo che soffia tra le case e sulla terra. La seconda parte descrive il cedimento del fotografo/artista alla violenza perpetrata da coloni che non rispettano nulla, che massacrano e si fanno poi immortalare in queste loro imprese. Pedro organizza le foto della caccia grossa contro altri umani con la stessa meticolosità con la quale ha fotografato la sposa bambina. Due stupri, uno storico e l’altro allegorico, dai quali è nato il Cile moderno, come le altre nazioni frutto dei conquistadores, dei mercanti, dei missionari cristiani. Il luogotenente di Porter, infatti, sostiene che il primo edificio da costruire in un nuovo villaggio deve essere la chiesa.
I ritmi sono analoghi a quelli delle fotografie che emergono a poco a poco dalla camera oscura di Pedro; le inquadrature somigliano a dei dipinti solitari e lontani; non ci sono infatti primi piani in questo film ma immagini che rinviano agli spazi sconfinati e a una altrettanto grande solitudine. La fragilità di Pedro di fronte alla violenza degli umani, all’indifferenza del vento, al bianco della neve, disegna la disperazione della storia.

Viva

Regina José Galindo
ESTOY VIVA

PAC Padiglione d’Arte Contemporanea – Milano
A cura di Diego Sileo ed Eugenio Viola
Sino all’8 giugno 2014

Regina Joseé GalindoDove sta il Guatemala? Che cosa è accaduto in Guatemala? È accaduto che per decenni l’esercito di questo Paese è stato addestrato, sostenuto e finanziato dagli Stati Uniti d’America per farne un esempio/esperimento di repressione. La popolazione guatemalteca, soprattutto quella di origine maya, è stata ferocemente annichilita, un genocidio tra i più brutali perpetrati dalle forze militari latino-statunitensi. Nel profluvio di giornate della memoria rivolte a massacri più o meno lontani, neppure un pomeriggio viene dedicato all’orrore accaduto in Guatemala.
Regina José Galindo proviene da questo Paese e da questa storia. E ha deciso di fare del proprio corpo il luogo della memoria. Il risultato è terribile. Le cinque sezioni nelle quali è divisa la mostra -Politica  Donna Violenza Organico Morte- documentano come l’artista si faccia incatenare, affogare, colpire, seppellire, costringere in camicie di forza, insanguinare.
Immagini di eserciti eleganti -in parata e ben rigidi nella loro paranoia- si alternano a lei che lascia tracce di sangue sulle strade, negli spazi che hanno visto la ferocia. Il suo diventa un corpo sacrificale e politico, intriso di un masochismo dell’abbandono che mi ha ricordato Le onde del destino (1996) di Lars von Trier. Una violenza così estrema e totale va oltre la catarsi e porta a un coinvolgimento che respinge. Alla fine il corpo di Regina scompare, dissolto come elemento organico, natura. Diventa pietra. E la morte si fa evento pubblico, storico, psichico, soggettivo, globale. In una delle numerose installazioni funeree compaiono una serie di lapidi i cui nomi sono due X e la data è Guatemala 2007.

regina(Dedico questa nota, che non può in ogni caso restituire la tragedia della quale la mostra è intrisa, ai cittadini della «più grande potenza democratica del mondo»).

 

 

 

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