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Perduti

Roubaix, una luce
(Roubaix, une lumière)
di Arnaud Desplechin
Francia, 2019
Con: Roschdy Zem (Il commissario Doud), Léa Seydoux (Claude), Sara Forestier (Marie), Antoine Reinartz (Louis)
Trailer del film

Roubaix è un’antica città delle Fiandre francesi, al confine con il Belgio. Città intrisa di storia e di testimonianze architettoniche, che vide l’apogeo durante la prima fase della Rivoluzione industriale e per tutto l’Ottocento come centro di produzione tessile. Oggi è un luogo tra i più desolati della Francia, dove il melting pot etnico mostra il proprio fallimento, dove tutti –a quanto pare– vivono male, che siano antichi francesi o migranti contemporanei.
Arnaud Desplechin è nato in questa città e a essa dedica spesso le proprie storie. Qui lo fa anche nel bel titolo, che accenna a «une lumière» della quale la vicenda è del tutto priva. L’unica luce è infatti quella dell’auto incendiata che appare nella scena iniziale. E forse anche la luce interiore di un commissario di polizia tanto determinato quanto disincantato, calmo e solitario, che forse ha compreso quanto poco valgano i Sapiens rispetto ai cavalli.
La città e il suo presente appaiono infatti nella desolazione di crimini che diventano abitudine; di violenze dentro i cortili, le strade, le famiglie; di un nichilismo che è l’inevitabile risultato di ogni tentativo di forzare le differenze tra gli umani e le etnie nelle quali nascono, costringendole dentro l’identità di un’ «umanità» che non esiste se non come l’imbroglio del quale parlano Proudhon e Schmitt. Una condizione che il film rappresenta e narra con eleganza formale e profonda pietas ma senza alcun sentimentalismo e senza indulgere in caratterizzazioni dei personaggi come ‘buoni’ o ‘cattivi’.
Tutti sono infatti in qualche modo perduti. Al di là del preciso e limitato –per quanto paradigmatico– contesto storico e sociale di un luogo e di un tempo esatti, il senso del film sta nell’universale malinconia che intesse le vite delle persone e dalla quale possono scaturire i comportamenti più diversi. E in ogni caso prima o poi Homo sapiens sarà finito e torneranno gli uccelli, le lucertole, i lupi, gli alberi sacri, la potenza dell’immemoriale, della materia pura. Della luce.

Guerre etniche

Sons of Denmark
(Danmarks sønner)
di Ulaa Salim
Con: Zaki Youssef (Ali), Mohammed Ismail Mohammed (Zakaria), Rasmus Bjerg (Martin Nordahl), Imad Abul-Foul (Hassan)
Danimarca, 2019
Trailer del film

A Copenhagen un attentato di matrice islamica miete decine di vittime. La piccola nazione danese si radicalizza nella violenza delle organizzazioni islamiste da una parte e dei movimenti ultraxenofobi dall’altra. Martin Nordahl guida un partito che ha come programma l’espulsione di tutti coloro che non sono cittadini danesi o che hanno ottenuto la cittadinanza come rifugiati. Diventa quindi l’obiettivo primario di una cellula islamista. Soltanto la presenza di un infiltrato (arabo) all’interno del gruppo islamista fa fallire l’attentato alla sua vita. Le organizzazioni xenofobe diventano sempre più violente e si riconoscono apertamente nel programma di Nordahl, il cui partito vince le elezioni a larga maggioranza. Qualcuno dovrà fermarlo.
La vicenda è ambientata da qui a qualche anno, nel 2025, e descrive il futuro prossimo e probabile dell’Europa: una condizione di endemica guerra civile tra etnie. È da irresponsabili (oltre che da ignoranti) pensare e agire come se gli esseri umani fossero soltanto individui irrelati tra loro, senza radici, senza legami, senza costumi, lingue e tradizioni condivise, senza identità. E invece Homo sapiens si è sempre organizzato, e sempre lo farà in quanto specie biologicamente sociale, in gruppi caratterizzati da differenze più o meno marcate, che nessun irenismo volontaristico può cancellare.
Non tener conto di questa struttura antropologica sta comportando lo sviluppo di sentimenti e idee di esclusione e rifiuto, come contrappeso a politiche di accoglienza universale. Gli elementi ospitati si sentono esclusi e non intendono, giustamente, rinunciare alle loro tradizioni, costumi, valori, in ogni campo della vita collettiva –familiare, alimentare, religioso, linguistico, sessuale. Gli elementi autoctoni si sentono esclusi dai propri spazi, minacciati nel reddito, nella sicurezza, nell’identità. L’insieme di queste tensioni fa sì che le società multirazziali diventino delle società multirazziste, come l’evidente fallimento del melting pot statunitense e il fallimento in atto di quello francese vanno ampiamente dimostrando.
Sons of Denmark racconta analoghe dinamiche che toccano la ormai non più tranquilla società danese e in generale scandinava. A Stoccolma, ad esempio, un intero quartiere, Rinkeby, è precluso agli svedesi di etnia bianca e anche questo ha indotto il più che accogliente parlamento di quella nazione a rivedere le proprie politiche sui migranti.
Grave e significativo è che le cause fondamentali dei flussi migratori –l’imperialismo statunitense che scatena guerre nell’Africa del Nord e nel Vicino Oriente, destabilizzando senza posa quei territori; le guerre israeliane contro gli arabi– producano conseguenze che non toccano né gli USA né Israele ma l’Europa, l’anello debole del colonialismo occidentale.
Nonostante tutto questo, l’intellighenzia e i decisori politici del nostro continente non sembrano rendersi conto di che cosa va preparandosi e continuano a difendere e a imporre pratiche di accoglienza universale. Le quali condurranno a un conflitto interetnico le cui conseguenze sono abbastanza facilmente prevedibili. Una comunità (e l’Europa, per quanto plurale sia al proprio interno, è una comunità rispetto a culture diverse dalla sua) la quale non si accorge per tempo dei pericoli di dissoluzione che la sovrastano è infatti destinata a spegnersi ed è giusto che si spenga. Anche per questo sono contento di non avere dei figli.
La fabula di questo film è dunque una lezione di sociologia dei fenomeni di conflitto e di assimilazione, che Ulaa Salim –regista di origini irachene nato in Danimarca– ben conosce.

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