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Marta Mancini su Ždanov

Marta Mancini
Ždanov o della superiorità (im)morale
Aldous
3 luglio 2024
pagine 1-4

«La chiave per comprendere la sottocultura che va sotto il nome di politically correct, con gli annessi dispositivi della cancel culture e del wokismo, è senz’altro la sudditanza all’egemonia culturale d’oltreoceano, sostenuta da una forte matrice identitaria radicata nel puritanesimo protestante e nel più profondo calvinismo. Nonostante la crisi in cui versa il progetto economico-finanziario della globalizzazione, gli effetti che ha generato nelle mode culturali sono ancora tangibili e più stringenti che in passato, anche se il compito di conservare la supremazia statunitense ha passato la mano allo sforzo bellicista, naturalmente a spese di altri paesi e lontano dalla geografia fisica della democraticissima nazione che ha sempre molto da insegnare, specialmente in superiorità etica.
Da una simile prospettiva prende avvio l’ultimo libro di Alberto Giovanni Biuso, da poco uscito per Algra Editore, Ždanov. Sul politicamente corretto nel quale l’autore percorre i tratti di tale contesto culturale mostrandone con critica passione i sintomi, i presupposti impliciti, la pervasività, le sostanziali contraddizioni ma anche la possibilità di uscirne attraverso un atto coraggioso di libertà che è prima di tutto libertà di pensiero e di parola. Con la scelta della globalizzazione come sfondo naturale del politicamente corretto, Biuso ne esplicita anche la connotazione ideologicamente trasversale, rappresentata da “un bizzarro miscuglio di alcune espressioni della cultura ‘di destra’ nelle sue componenti individualistiche e liberiste e della ‘cultura di sinistra’ nelle sue componenti altrettanto individualistiche che tendono a trasformare semanticamente e giuridicamente alcuni legittimi ‘desideri’ individuali, figli di ben precisi contesti storici, in dei ‘diritti naturali’»

Al di là dell’etica

Recensione a:
Chiara Agnello
Una ontologia della tecnica al tempo dell’Antropocene
Saggi su Heidegger
InSchibboleth, 2023
Pagine 179
in Discipline Filosofiche, 29 aprile 2024

L’interesse e la fecondità degli studi di Chiara Agnello consistono in gran parte nell’applicare quanto emerge dalla disamina del pensiero heideggeriano a due temi tra di loro legati: l’Antropocene e l’etica. E questo a partire ancora una volta da un esito ermeneutico più generale. Per Heidegger, infatti, «sembra non bastare la semplice cura e consapevolezza umana del limite invocata da Heisenberg, l’unica strada da percorrere appare piuttosto la deposizione della soggettività in favore di un decentramento che lascia spazio alla capacità degli uomini di porsi in ascolto dell’essere, consapevoli che persino l’impiego provocante è l’illusione di dominare ciò che invece concede all’uomo la possibilità di disvelare» (pp. 128-129), posizione che a sua volta deriva dalla ben nota tesi heideggeriana per la quale «la questione della tecnica va posta su basi ontologiche e non antropologiche, così come la questione dell’essere. […] L’affermazione della tecnica su scala planetaria è intesa come l’esito naturale della metafisica del soggetto caratterizzante la filosofia e la scienza d’età moderna» (p. 119).
Sta qui la spiegazione più profonda di quell’apparente paradosso per il quale la diffusione nel nostro tempo del concetto di «Antropocene» è parallela e si accompagna a mature e argomentate esigenze antropodecentriche, anche e proprio perché la consapevolezza di quanto e come la presenza umana possa costituire un rischio esiziale per la sopravvivenza della Terra rende sempre più giustificato l’invito anche heideggeriano a sostituire la tracotanza di una parte, la parte umana, con la consapevolezza dell’intero del quale l’umano è appunto soltanto una parte.

La Valle del Caos

Friedrich Dürrenmatt
La Valle del Caos
(Durcheinandertal, 1989)
In «Romanzi e racconti», a cura di Eugenio Bernardi
Traduzione di Giovanna Agabio
Einaudi-Gallimard, 1993
Pagine 587-681

Sfrenata, imprevedibile, feconda, allucinata, implacabile è la fantasia che in questo libro si scatena. Credo di non aver mai letto un testo nel quale a ogni pagina, in qualunque momento, a ogni riga può succedere di tutto come in questo romanzo dove accade veramente qualsiasi cosa. Ne vengono coinvolti, descritti e travolti i contadini di una irraggiungibile vallata svizzera, la Valle del Caos appunto il cui titolo originale potrebbe essere più letteralmente tradotto come valle del guazzabuglio, del disordine, della confusione.
E la confusione regna infatti dappertutto. Confusione tra gli ambienti, che passano dalla costa atlantica degli Stati Uniti d’America – con i suoi gangster più famosi, più gelidi e più rozzi – alle crociere sul Nilo; dalle sedi senza patria delle grandi multinazionali alla Svizzera, «il paese più impenetrabile della terra. Nessuno sa chi è padrone di qualcosa, chi gioca con chi, chi ha le carte in tavola e chi le ha mescolate» (p. 635).
Confusione tra i personaggi, che cambiano volto, alla lettera, attraverso la chirurgia estetica ma anche e specialmente nella sostanza delle loro identità, del loro numero, della loro funzione.
Confusione tra quadri perfettamente falsi venduti come autentici e dipinti autentici spacciati per falsi.
Confusione tra le forze dell’ordine – vigili urbani, polizia, esercito – che dispiegano un enorme apparato di repressione con il solo intento di giustiziare un cane.
Confusione tra la morale e il crimine che appaiono quali sono, vale a dire due aspetti della stessa ferocia, com’è evidente nella Boston Society for Morality che dà vita alla Swiss Society for Morality, entrambe «qualcosa di vago, esattamente come la maggior parte delle associazioni con nobili scopi» (603). Associazioni che edificano in uno sperduto villaggio svizzero una casa di riposo stagionale chiamata Casa della povertà, riservata a gente ricchissima che per alcuni mesi vive in estrema povertà, salvo poi tornare al proprio lusso: «Una vera e propria fissazione di vivere poveramente colse i milionari e le vedove dei milionari, c’erano direttori generali che facevano i letti, banchieri privati che passavano l’aspirapolvere, grossi industriali che apparecchiavano i tavoli in sala da pranzo, manager di prim’ordine che pelavano patate, vedove di multimilionari che cucinavano e si occupavano della lavanderia, sceicchi e magnati del petrolio che falciavano l’erba, sarchiavano, vangavano, segavano, martellavano, piallavano, verniciavano e per questo pagavano prezzi favolosi» (618).

A dare redenzione e conforto a tali milionari è un pastore di nome Moses Melker, uomo di rara bruttezza, «uno schiavo negro fuggiasco grasso e di pelle bianca, con un abito da cresimando e una valigetta in mano»  (664), una specie di parente dei neandertaliani e anche assassino seriale delle sue mogli, ma ora dedito alla missione di convertire i ricchi e che per questo elabora una teologia il cui testo fondatore (in fieri) ha per titolo Prezzo della grazia (Preis der Gnade). Melker costruisce una teologia per la quale i poveri sono di per sé meritevoli della salvezza mentre i ricchi devono tutto alla misericordia del «Grande Vecchio» e per questo i ricchi sono i veri destinatari del perdono e della Grazia. E non soltanto i ricchi ma anche gli umani più crudeli, i delinquenti più accaniti, i farabutti, i sadici, i criminali. In loro e soltanto in loro splende la potenza del Signore.

Infatti, se la grazia fosse meritata non sarebbe più grazia bensì ricompensa. La grazia era la cruna dell’ago attraverso la quale non soltanto un cammello, bensì tutti loro potevano passare, loro che erano riuniti lì a lamentarsi della maledizione della ricchezza. Davanti al Grande Vecchio gli ultimi erano i primi e i poveri erano i ricchi, i poveri erano in possesso della grazia e i ricchi maledetti. Ma chi possedeva la grazia non ne aveva bisogno poiché la grazia era già in lui, e quindi la grazia era riservata a loro, i ricchi, i maledetti, i sazi, la grazia con cui venivano incoronati come la sola feccia dell’umanità che ne aveva bisogno (617).

La Grazia essendo del tutto arbitraria, il cuore della teologia di Melker consiste pertanto «nel riconoscimento che nulla potesse giustificare la grazia» (595-596).
Come si vede, si tratta di una teologia anch’essa sfrenata; insieme evangelica e machiavellica, gesuitica e luterana. Teologia di un Dio talmente onnipotente e universale da includere nella propria stessa identità la miseria e il male, un Dio del tutto volontaristico (al modo di Ockham e oltre Ockham), che «avrebbe saputo creare una pietra che non riusciva a sollevare, oppure ritrasformare le cose accadute in non accadute» (590), che poteva fabbricare orologi «con quindici ore, in cui ogni ora durava trecento minuti e ogni minuto quarantacinque secondi, ma anche i secondi non erano uguali; alcuni secondi duravano tre quarti di secondo, altri sette minuti» (608). Un Dio il quale riusciva dunque certamente anche a conciliare la propria essenza di Grazia con quella di «Dio senza barba» vale a dire del più infame tra i malviventi.
Se chiediamo infatti «perché il buon Dio è così ingiusto, se appunto è un buon Dio […] se tutto è così ingiusto con gli uomini e con la natura» (656) è perché «il Grande Vecchio è pensabile solo come criminale» (676), il quale nella sua versione cristiana è «ancora più astratto del padre, ma anche qualcosa di lezioso, un redentore di marzapane sulla croce. […] Un Dio che si lascia crocifiggere fa la commedia» (679).
Un romanzo teologico e grottesco, un romanzo dunque barocco e gaddiano nei contenuti anche se non nella lingua, che è sempre classica e ironicamente perfetta. Il finale è epico; davvero ‘una risata vi estinguerà’ sembra dire il Grande Vecchio alla nostra specie.

Enrico Palma su Ždanov

Enrico Palma
Tra identità e differenza si giocano libertà e pluralità
Recensione a:
Ždanov. Sul politicamente corretto
in Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee
11 giugno 2024
pagine 1-6

«È un libro coraggioso, come dovrebbe esserlo ogni tentativo di pensiero che si rispetti e non asservito a ideologie dominanti, a potentati finanziari e all’etica dei valori, la quale è anzi oggetto di una dura contestazione non in quanto modo sensato e meditato di stare al mondo, per dirla con l’Aristotele della Nicomachea, ma come fiera di valori impoverenti, putridi e segno di una stanchezza fisica e intellettuale che alla fine risulta tutt’altro che salutare, bensì altamente nociva e perniciosa. Valori di cui Biuso coglie tutte le pericolose propaggini nel vivere collettivo, ovvero quando diventano fanatiche estremizzazioni che violano il principio metafisico di fondo che intride l’essere. Il pregio di questo libro, e della prospettiva che propone, risiede dunque nel fondarsi non nell’etica, che semmai è successiva al pensiero, ma nella metafisica, che diviene allora il vero discrimine delle cose, la lente attraverso cui osservare con giustezza le cose umane, per assicurare il meglio e prevenire la barbarie»

Kiefer

Anselm
di Wim Wenders
Germania, 2023
Con: Anselm Kiefer
Trailer del film

Da molti anni lo Hangar Bicocca di Milano ospita in modo permanente I sette palazzi celesti di Anselm Kiefer. «Una verticalità immobile  e cangiante» l’ho definita. E tutta la poetica di Kiefer è anche questa verticalità. Il film di Wim Wenders lo dimostra intessendo l’apparire delle opere – poiché di una epifania si tratta  – con la vicenda biografica che ha condotto questo artista visionario dalla collaborazione con Joseph Beuys a un ampliamento sempre più imponente delle immagini, delle costruzioni, degli spazi. Sino a occupare intere ex fabbriche o ettari di terreno per trasformarli in luoghi poietici, dentro i quali sorgono le spose/Lilith; sorgono gli enormi pannelli fatti di ferro, cemento, ondate di colore; sorgono le torri disseminate nello spazio; sorgono le fotografie raccolte in volumi di piombo.
Kiefer appare dunque come un alchimista e un fabbro, la cui fiamma ossidrica vorrebbe illuminare anche la storia recente della Germania, accompagnato dalla lettura costante ed empatica delle poesie di Paul Celan.
Introducendo Celan, leggendo le sue poesie, Kiefer e Wenders parlano anche di Martin Heidegger. Lo fanno con immagini e video che raffigurano il filosofo mentre cammina, con il suo sguardo sempre ironico e magnetico.  Kiefer e Wenders ricordano l’incontro tra Celan e Heidegger a Todtnauberg, nella baita. Celan scrisse in quell’occasione nel libro degli ospiti una frase che accenna all’attesa di una parola. Wenders/Kiefer rilevano che quella parola non è stata pronunciata.
Evidentemente l’ossessione nei confronti di Heidegger è pervasiva e sotterranea anche in un artista così disincantato come Kiefer. Quale parola si attendeva da Heidegger? Una parola di pentimento? Pentimento collettivo o individuale? Una parola di sottomissione ai vincitori? In realtà il punto non è questo, mai. Che ne siano o no consapevoli, i detrattori biografici di Heidegger – da distinguere dai critici teoretici più rigorosi – esercitano la loro moralità non sui «silenzi» e neppure sul «rettorato» ma su altro: sul fatto che per un filosofo di questa grandezza l’etica sia succedanea, secondaria, non necessaria. E invece io credo che anche qui, forse soprattutto qui, sta la grandezza di Heidegger: nell’aver tolto autonomia all’etica e nell’averne fatto la conseguenza dell’ontologia. Ci si comporta per come si è e non si cambia se non nei particolari; «operari sequitur esse», come ricorda anche Schopenhauer riprendendo Pomponazzi.
Secondariatà dell’etica rispetto all’ontologia che con altro linguaggio anche Carlo Emilio Gadda esprime con chiarezza: «Dopo rotto il déclic della molla organica interna, non c’è diti di Vescovo né virtù ed unzione di Sacramento che valga a rimontarne il tic-tac. Il gioco multiplo e avaro degli infinitesimi, delle minime elezioni accumulatrici, della dura disciplina selettrice, s’è scombinato in un blando desiderio di requie, s’è rilassato in un abbandono (alla lubido), o ne’ pisoli della vanità soddisfatta, s’è sdraiato in una eutanasia: l’essere è, da dentro, un morente: per cui la tromba la può suonare a perdifiato, ma suona invano» (L’Adalgisa, Garzanti,  2007, p. 280).
Heidegger ha rifiutato il primato etico della modernità e questo sembra ossessionare e nello stesso tempo affascinare molti interpreti. Ossessiona e affascina anche due artisti come Wenders e Kiefer capaci di cogliere, plasmare ed esprimere il male del mondo. Ancora un passo e capiranno che non c’è niente da chiedere a Heidegger ma c’è soltanto da capire, da conoscere, da sapere. 

Ždanov

Ždanov
Sul politicamente corretto
Algra Editore, 2024
«Contemporanea, 9»
Pagine 160
€ 14,00

In una libera Repubblica è lecito a chiunque di pensare quello che vuole
e di dire quello che pensa.
(Spinoza, Tratctatus Theologico-Politicus, titolo del cap. XX)

 

 

Questa la quarta di copertina, firmata da Davide Miccione, Direttore della collana nella quale il libro esce:
«Il politicamente corretto, l’oblio del corpo e della biologia, il crollo di ogni tentativo di trasmettere un’attitudine alla comprensione del reale, l’odio per la propria storia culturale e le sue feconde contraddizioni, il tentativo di operare ortopedicamente sul linguaggio. Questi sono alcuni degli argomenti di Ždanov. Evocando sin nel titolo i guardiani delle più ottuse ortodossie novecentesche Biuso compie una difesa solenne e dolente e a volte dura e beffarda della necessità di serbare il pensiero, la libertà e la nostra natura cercante di fronte a chi ha deciso di maneggiare la bontà e i valori come fossero un randello o un sudario» .

E questa è la pagina introduttiva:
«Andrej Aleksandrovič Ždanov (1896-1948) fu, tra l’altro, capo del Dipartimento per l’agitazione e la propaganda dello Stato Sovietico. In questa veste elaborò una Dottrina per la quale ciò che viene chiamato scienza, cultura e conoscenza deve essere sempre subordinato agli scopi supremi della pubblica autorità, a ciò che tale autorità ritiene essere un Valore, costituire il Bene. Questo libro intende mostrare che lo spirito di Ždanov, lo ždanovismo, pervade di sé molti fenomeni collettivi e molta elaborazione culturale del XXI secolo e soprattutto intrama la tendenza omologatrice, uniformante e politicamente corretta dei media, della rete Internet, delle università e dei governi. In questo senso, Ždanov non è un testo dedicato soltanto al politicamente corretto ma costituisce un tentativo di ragionare sulla difficoltà o persino sulla impossibilità di buona parte della cultura dominante di pensare il mondo. Di questo inciampo il politicamente corretto è spesso l’aspetto più grottesco e in ogni caso emblematico e assai grave.
Naturalmente, il libro avrebbe potuto intitolarsi anche Goebbels. Sul politicamente corretto» (p. 9)

Il libro si compone di una premessa, sei capitoli e l’indice dei nomi:

Un titolo
1. Un sintomo
2. Umanitarismo
3. Contro l’etica
4. La dissoluzione della scuola e delle università
5. Femmine e maschi
6. In difesa delle libertà
Indice dei nomi

Il volume è disponibile in varie librerie e sul sito dell’editore, che ringrazio ancora una volta per l’apertura e il coraggio che mostra nel pubblicare libri così critici nei confronti delle idee dominanti.

 

Recensioni

Marta Mancini su Aldous, 3 luglio 2024

Enrico Palma su Il Pensiero Storico. Rivista internazionale di storia delle idee, 11 giugno 2024

Sergej su girodivite.it, 23 maggio 2024

Sarah Dierna su Discipline Filosofiche, 29 aprile 2024

 

Organon

Aristotele
Organon
Categorie, Dell’espressione, Primi Analitici, Secondi Analitici
in «Opere», a cura di Gabriele Giannantoni, volume I
Traduzione e note di Giorgio Colli
Laterza 1982
Pagine LXIV-373

Logica, Metafisica, Etica nel pensiero aristotelico appaiono sempre strettamente legate. Quanto viene acquisito in un ambito contribuisce a chiarire e ad approfondire altre discipline, settori, domande. È anche questo movimento interno della verità – quasi come il sangue che circola in un corpo – a fare dell’opera aristotelica una struttura di pensiero sempre viva, pulsante, attuale, come se fosse stata scritta oggi. Ciò che è stato chiamato Organon, lo strumento della ricerca, non è limitabile al campo della logica pur fondando la logica.
Nelle prime quattro delle sei opere che compongono l’Organon viene, infatti, chiarita la distinzione che è anche metafisica tra le sostanze prime – l’ente singolo nel qui e ora della sua esistenza irriducibile – e le sostanze seconde, i concetti, i generi, gli universali. Non ha quindi senso affermare che una sostanza prima sia più sostanza di un’altra, dato che il semplice esserci qualifica e caratterizza gli enti che sono. La logica mostra qui la sua natura profonda di scienza non antropomorfica, pur costituendo proprio essa una tipica caratteristica umana.

La ragione per cui le sostanze prime si dicono sostanze in massimo grado consiste nel fatto che esse stanno alla base di tutti gli altri oggetti, e che tutti gli altri oggetti si predicano di esse, oppure sussistono in esse […]. Allo stesso modo, del resto, tra le sostanze prime nessuna è sostanza in misura maggiore di un’altra; un determinato uomo è infatti sostanza in misura per nulla maggiore di un determinato bue.
(Cat. 5, 2b 15-30)

Se i concetti altro non sono che la generalizzazione degli enti operata dalla mente umana, è chiaro che ogni conoscenza non può nascere che dal contatto con la dimensione concreta degli oggetti singoli, della pluralità infinita e determinata delle cose individuali. La contrapposizione alla gnoseologia del Menone è quindi esplicita: «in effetti, non ci accadrà mai che dell’oggetto singolo sussista una prescienza; si deve dire piuttosto che mentre si sviluppa l’induzione noi assumiamo la conoscenza degli oggetti particolari, come se li riconoscessimo» (An. post. B 21, 67a 22-25; cfr. anche An. post. A 1, 71b 6-10). Non solo: nessuna conoscenza è possibile se si prescinde dalla sensazione «dal momento che noi impariamo o per induzione, o mediante dimostrazione […] non è tuttavia possibile cogliere le proposizioni universali se non attraverso l’induzione, poiché anche le nozioni ottenute per astrazione saranno rese note mediante l’induzione» (An. Post. A 18, 81a 39-40, 81b 1-5).
Dal particolare all’universale, dal singolo al concetto, questo è secondo Aristotele il cammino della conoscenza. Dalla sensazione nasce il ricordo, dal ricordo ripetuto si genera l’esperienza. Le forme più alte del sapere, l’intuizione e – a essa subordinata – la dimostrazione, hanno quindi a fondamento la sensazione diventata esperienza. Ma lo Stagirita non è un semplice empirista. Prima di Galilei e della Rivoluzione scientifica, nata più contro gli aristotelici che contro Aristotele, egli aveva chiara la differenza fondamentale tra la semplice osservazione dei fenomeni e la loro comprensione razionale. La percezione da sola non è, infatti, spiegazione: «la conoscenza dimostrativa non si può raggiungere attraverso la sensazione […] La sensazione si rivolge, infatti, necessariamente all’oggetto singolo, mentre la scienza consiste nel render noto l’oggetto universale» (An. post. A 31, 87b 28-35; cfr. anche An. post. A 13, 79a 10-12).

Le Categorie accennano anche alle tesi sviluppate nella Fisica a proposito delle diverse forme del mutamento, qui individuate in sei ma sintetizzabili in quattro: «generazione e corruzione, accrescimento, diminuzione, modificazione qualitativa, movimento» (14, 15a 13-14); elencano poi le dieci categorie: «i termini che si dicono senza alcuna connessione esprimono, caso per caso, o una sostanza, o una quantità, o una qualità, o una relazione, o un luogo, o un tempo, o l’essere in una situazione, o un avere, o un agire, o un patire» (4, 1b 25); enunciano infine una vera e propria filosofia del linguaggio che ha a fondamento la distinzione tra il nome, il verbo e la proposizione: un nome può diventare vero/falso solo se viene unito a una predicazione-determinazione, la funzione di verità dipende quindi dalla connessione fra i nomi, ciascuno dei quali può essere sensato o meno ma mai da solo può essere vero o falso.
La filosofia del linguaggio viene ulteriormente sviluppata nel De interpretatione. Qui Aristotele afferma con molta chiarezza che «i suoni della voce sono simboli delle affezioni che hanno luogo nell’anima, e le lettere scritte sono simboli dei suoni della voce» (1, 16 a 5). Anche per questo, «nessun nome è tale per natura» e il linguaggio è una delle espressioni peculiari dell’identità umana, intessuta sin dall’inizio di artificio, convenzione, tecnica (2, 16 a 25-30).
Anche qui, come in molti dei suoi scritti, Aristotele ribadisce il principio di fondo – ancora una volta insieme logico, gnoseologico e metafisico – secondo cui «noi pensiamo di conoscere un singolo oggetto assolutamente -non già in modo sofistico, cioè accidentale- quando riteniamo di conoscere la causa, in virtù della quale l’oggetto è» e la necessità che lo fa esistere e agire (An. post. A 2, 71b 9-10; cfr. anche An. post. B 8, 93a 4-5).

I risultati più specificatamente logici delle ricerche contenute nell’Organon sono riassumibili nel principio di non contraddizione: «Orbene, non è possibile che delle determinazioni contrarie appartengano simultaneamente allo stesso oggetto» (De interpr., 24b 10); nella delineazione di ciò che gli scolastici chiameranno «quadrato logico» (Ivi, 24b 1-5; An. pr. B, 62a 15-19); nella lucida, approfondita e finanche appassionata discussione dei sillogismi, delle dimostrazioni, dei ragionamenti capziosi come il “circolo vizioso”: «la dimostrazione è infatti un particolare sillogismo, mentre non tutti i sillogismi sono dimostrazioni. Orbene, quando tre termini stanno tra di essi in rapporti tali, che il minore sia contenuto nella totalità del medio, ed il medio sia contenuto, o non sia contenuto, nella totalità del primo, è necessario che tra gli estremi sussista un sillogismo perfetto» (An. pr. A 4, 25b 30-35). Cfr. anche An. pr. B 16, 64b 25-30, 65a 1-5; An. post. A 2, 71b 19-21; «colui che possiede la dimostrazione universale conosce pure l’oggetto particolare, mentre colui che possiede la dimostrazione particolare non conosce l’oggetto universale» (An. pr. A 4, 24, 86a 12).
Certo, molte pagine dell’Organon sono assai tecniche, a volte oscure e non prive di contraddizioni. Non a caso, la filologia aristotelica trova in esse un campo assai vasto di indagine. E tuttavia, il pensiero dello Stagirita è alla fine sempre lucido, coerente e sistematico; una vera e propria machine à penser. L’aristotelismo è tuttavia un dispositivo sempre consapevole dei limiti che ineriscono al ragionare umano, tanto più grandi quanto più esso si autocostruisce nella formalizzazione logica. Infatti, «su argomenti di questa natura è forse difficile, senza aver condotto ripetute indagini, formulare delle dichiarazioni nette; non è tuttavia inutile l’aver agitato delle difficoltà su questi vari punti» (Cat. 7, 8b 20-25). Ed è proprio tale agitazione uno degli specifici elementi della filosofia.

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