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Il tempo in un arazzo

Storia di un arazzo
POLLICE VERSO
Arte e industria nella Milano di fine Ottocento
A cura di Fausta Squatriti
Nardini Editore, 2015
Pagine 192

Un libro dedicato a un finto arazzo -esattamente un telo figurato- costruito con telaio Jacquard nel 1898, sulla base di una xilografia pubblicata nel 1874 su un numero dell’Illustrazione universale. Xilografia che riproduceva il dipinto di un artista totalmente avverso alle avanguardie nascenti, Jean-Léon Jérôme (1824-1904), il quale nel 1872 raffigurò La morte del gladiatore, poi universalmente noto con il titolo di >Pollice verso. Un libro quindi ultraspecialistico, per esperti d’arte ottocentesca e cultori della tecnologia applicata? No, per quanto sorprendente possa apparire, questo libro è altra cosa: è un’enciclopedia. In esso, infatti, convergono prospettive, suggestioni, conoscenze che coniugano saperi assai diversi: estetica, sociologia, storia dell’arte, critica letteraria, narrativa, storia politica, storia della tecnologia, filosofia, storia sociale.

Pollice verso è prima di tutto la storia di una famiglia, la vicenda di patrimoni accumulati con tenacia e dilapidati con leggerezza e incoscienza da personaggi che potrebbero ben apparire in una saga romanzesca come I Buddenbrook, il romanzo nel quale Thomas Mann racconta in quegli stessi anni (1901) l’apogeo e il declino (Verfallen) di una famiglia di agiati commercianti di Lubecca. La vicenda della famiglia Angioletti è ricostruita con grande rigore e vivacità nel contributo di Dario Generali; in essa si alternano e si susseguono figure ben consapevoli della durezza della vita e altre assolutamente velleitarie; personalità solidamente borghesi e avventurieri di vario genere; zie religiosissime e cantanti liriche che vanno a cercar fortuna in Sudamerica; rigorosi imprenditori ed ex prostitute molto attente a rubare la fortuna accumulata dagli altri.

Di questa ascesa e declino degli Angioletti fu ed è simbolo un manufatto, il grande arazzo il cui stesso titolo riflette le ambiguità dei segni e delle vicende umane. Non è infatti del tutto accertato, come chiarisce nel suo saggio Sandro Scarrocchia, se il pollice verso significasse una sentenza di condanna o no. «Si continua a discutere ancora oggi se il gesto indichi verdetto di morte» poiché secondo alcune ipotesi è possibile che i romani «si servissero del pollice chiuso nel pugno, come una spada rinfoderata, per indicare la concessione di grazia e il pollice in alto, che indicherebbe la spada sguainata, per il verdetto di morte e, quindi, se non usassero affatto il pollice in giù, tanto meno per decretare verdetto di morte» (p. 98). Il significato fatale del pollice verso il basso si deve proprio al quadro di Gérôme, un gesto ripreso di continuo nell’immaginario artistico e cinematografico sino, ad esempio, al film Il Gladiatore di Ridley Scott (2000). Anche per tale ermeneutica di un gesto decisivo -un atto che può significare vita o può decretare morte- si comprende l’importanza di questo libro.

Ma il dipinto e l’arazzo non si limitano a tale gesto. Il gladiatore mirmillone che ha atterrato il gladiatore reziario preme il proprio piede sul collo dello sconfitto, nell’attesa che imperatore e folla stabiliscano la sentenza. Ebbene, «rimaniamo molto colpiti quando anche membri delle forze dell’ordine fanno ricorso ancora oggi a questa posizione di immobilizzazione a terra, enfatizzando il fatto di avere in mano, anzi nei piedi, cioè sotto gli stivali anfibi, la vita altrui, e simboleggiando così la potenza della repressione» (Scarrocchia, p. 95).

Questo insieme di persone, di eventi e di simboli si incarna e diventa figura nell’opera d’arte che Pollice verso è. Opera nella quale modelli greco-romani, forme neoclassiche, inquietudini romantiche sembrano fondersi in un soggetto nel quale l’immaginario storico declina e si estenua, sino a esprimersi anche come sadismo e culto della morte. Una sensibilità che lungo tutto il Novecento sembrava irrimediabilmente finita, sconfitta, oltrepassata e della quale invece -nella sua splendida e avvincente lettura- Fausta Squatriti mostra la particolare vitalità, oggi.

Già quando furono realizzati, sia il quadro sia l’arazzo, l’arte accademica esalava i suoi ultimi respiri e Cézanne stava lavorando a distruggere quel mondo di deliri romantici, di velleitarie buone intenzioni metaforiche, immagini letterarie non sempre di prima qualità, per dare inizio alle avanguardie del Novecento (40).

E tuttavia il postmoderno -vale a dire la trasformazione dei grandi modelli rivoluzionari delle avanguardie moderne in un corpus di citazioni da rileggere di volta in volta alla luce del presente- ha prodotto il singolare ma del tutto comprensibile risultato che<

a distanza di un secolo e mezzo, l’interesse per quel periodo di passaggio è forte, l’innamoramento per le avanguardie, diluite nel loro lento defluire nel vasto estuario del contemporaneo, appare sfumato e tutto diventa citazione, memoria, cultura, ripensamento. […] L’eccesso di artisticità permea di malinconia il semi-brutto che ci offre, più docilmente del bello, indizi narrativi che lasciano spazio allo spirito conservatore, che non muore mai (49).

Lo spirito conservatore che non muore mai, questa formula con la quale Squatriti conclude il suo saggio può essere spiegata anche alla luce di quanto Scarrocchia afferma a proposito del dipinto di Gérôme in quanto emblema del «segreto del potere imperiale. Giusta la teoria di Elias Canetti, secondo la quale ‘il segreto sta nel nucleo più interno del potere’» (111). Uno dei concetti fondamentali di Massa e potere è la spina. Forse quel pollice -indirizzato che sia verso l’alto o verso il basso- ha in ogni caso la stessa struttura verticale della spina come parte della morte che viene dall’alto, una spina che si conficca in chi la riceve, che non si potrà dimenticare e da cui ci si potrà liberare solo trasmettendo a un altro lo stesso identico comando. Questo dipinto-arazzo è anche un simbolo dell’angoscia del comando, del suo dare la morte e poterla sempre ricevere, al minimo capovolgersi delle sorti e del tempo.

Il tempo è dunque il vero nucleo di questo libro e degli eventi che narra, descrive, mostra, documenta. Che cosa sono le fotografie di cui è intessuto, a partire dalla grande immagine che a p. 21 mostra la famiglia Angioletti in vacanza nel 1895 sul Lago Maggiore? Che cosa sono i testi d’archivio che sin dai primi decenni del XIX secolo narrano la storia degli istituti che accoglievano i bambini ‘esposti’? Che cosa è questo grande arazzo/telo figurato? Tutto questo è il tempo. È negli oggetti e nei corpi che sin dall’inizio e finalmente il tempo diventa visibile, lo diventa in ciò che Marcel Proust nelle pagine conclusive del Tempo ritrovato  descrive come un teatrino di marionette «baignant dans les couleurs immatérielles des années, des poupées extériorisant le Temps, le Temps qui d’habitude n’est pas visible, pour le devenir cherche des corps et, partout, où il les rencontre, s’en empare pour montrer sur eux sa lanterne magique». (À la recherche du temps perdu, Èdition publiée sous la direction de J.-Y. Tadié, Paris, Gallimard, 1999, p. 2307).

Uno dei problemi comuni al moderno e al postmoderno è quello che inevitabilmente e giustamente in questo libro emerge a più riprese: il significato dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Un’epoca la quale, nota giustamente Squatriti, «vede sfumare i confini tra vero e falso, tra originale e riproduzione o copia» (38). Con il Pollice verso della manifattura di Angelo Angioletti siamo davvero «di fronte ad un esempio di riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, non riconducibile alla fotografia, come vuole l’ermeneutica benjaminiana, ma all’arte tessile. Con implicazione di un processo ideativo e realizzativo di grande rilievo» (Scarrocchia, p. 93). E quindi «il concetto di unicità dell’opera d’arte comincia a vacillare a fronte della sua riproducibilità in forma seriale, anche se bisognerà attendere parecchio per avere riproduzioni a colori, più prossime all’originale» (Squatriti, p. 40).

Esattamente. E ciò ha implicazioni estetiche di fondamentale importanza. Ad esempio -per quanto oggi ci sembri singolare- ancora nei primi decenni del Novecento tutte le riproduzioni artistiche erano monocromatiche. Ma è stata anche questa difficoltà nel vedere il colore -nota giustamente Eleonora Marangoni in Proust. I colori del tempo (Electa, 2014)- a rendere possibile il particolarissimo modo in cui Proust parla dei pittori e la continua creazione dei colori di cui la Recherche è fatta. Il bianco e nero aiuta infatti la memoria a ricreare il mondo, gli eventi, gli spazi, gli umani.

Il gesto del gladiatore vincente, il gesto del gladiatore sconfitto, il gesto della folla, il pollice verso, rappresentano il tempo dinamico e insieme immobile della morte, l’istante della fine, l’istante opposto al καιρός. E credo che sia questo a costituire il fascino e la potenza dell’arazzo.

The Managerial Revolution

Managerial-revolution-1941Il totalitarismo nel quale viviamo -naturalmente senza accorgercene- è secondo Günther Anders soft poiché avendoci «già determinati avant la lettre, può sempre permettersi di essere generoso, può sempre restare liberale. […] Ci lascia le mani libere per le nostre opere? Sì. Perché le nostre mani sono opera sua» (L’uomo è antiquato II. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, 2007, p. 171).
Fondamentale in questa struttura è naturalmente l’informazione, la quale descrive un mondo radicalmente virtuale, dove gli eventi sono tutti spiegati e piegati a vantaggio del padrone, vale a dire gli Stati Uniti d’America e le loro emanazioni finanziarie. Così nessuno dice, ad esempio, che la tragedia dei migranti che si ammassano ai confini dell’Europa, spesso con esiti fatali, è frutto non della miseria e della dittatura -che nelle aree di provenienza sono ben presenti da decenni- bensì di una ‘strategia del caos’ «che gli occidentali hanno portato a casa loro», la quale «mira ad abbattere i regimi laici a vantaggio dei movimenti islamisti, onde smantellare alcuni apparati statuali e militari che non potevano controllare e poi a rimodellare l’intera regione sulla base di piani stabiliti ben prima degli attentati dell’11 settembre. Così, lo Stato islamico (‘Daesh’) è stato creato dagli americani nel contesto dell’invasione dell’Iraq, e poi si è rivoltato contro di loro. […] Oggi abbiamo perciò tre guerre in una: una guerra suicida contro la Siria, nella quale gli occidentali sono gli alleati di fatto dei jihadisti, una guerra degli americani contro lo Stato islamico e una guerra delle dittature del Golfo e della Turchia contro l’asse Beirut-Damasco-Teheran, con la Russia sullo sfondo» (Alain de Benoist in Diorama Letterario 325, p. 6).
La stessa grave disinformazione è attiva nelle questioni economiche, nel «trionfo incondizionato ed assoluto della visione capitalista, che resta salda e inscalfibile a governare i disastri che ha prodotto, non solo nei proclami politici ma, prima e soprattutto, nel senso comune della gente», una visione per la quale è necessario sacrificare tutto alla cosiddetta ‘crescita’ del PIL, la quale ci impedisce di «accettare l’idea che, da molti anni, viviamo al di sopra delle nostre possibilità, e quella cosa chiamata Pil, lo vogliamo o meno, decrescerà. Non sarà un gran dramma, se quello che decrescerà con lui saranno solo i suoi frutti più maturi: gadgets, o, per dirla in un’altra lingua, minchiate» (Archimede Callaioli, ivi, p. 27).
Una delle menti e delle scritture più lucide del Novecento, George Orwell, aveva ben compreso radici e sviluppi del totalitarismo linguistico, della neolingua che -dagli slogan dei telegiornali al politicamente corretto- distrugge ogni potenzialità critica delle menti: «In 1984 la ‘neolingua risponde a questa duplice esigenza: impoverire e rendere ogni pensiero non conforme impossibile sin dall’inizio. Insomma, una sorta di contraccezione intellettuale, di profilassi mentale» (Emmanuel Lévy, p. 39). Orwell aveva letto con grande attenzione i libri dello studioso statunitense James Burnham, il quale nel 1946 cominciò a parlare di una Managerial Revolution, dell’ascesa di «una nuova classe transnazionale: quella degli ‘organizzatori’», protagonisti di «un nuovo tipo di società planetaria e centralizzata, che non sarà né capitalista, né socialista, né democratica e in cui emergerà una nuova classe, quella degli ‘organizzatori’ o ‘managers’, i quali saranno ‘dirigenti d’impresa, tecnici, burocrati e militari’» (Id., p. 38).
È esattamente quanto sta accadendo. Ha dunque ragione Martin Heidegger ad accomunare nazionalsocialismo, comunismo e capitalismo nella comune distruzione di ogni stratificazione temporale, di ogni identità spaziale, di ogni libertà e comunità, di ogni vita.

«Lettera aperta agli amici sonnambuli»

Così si intitola il testo che Marino Badiale e Fabrizio Tringali hanno pubblicato sul loro sito lo scorso 18 luglio. Ne condivido contenuti e intenzioni. E dunque lo riporto qui per intero. Spero che questa Lettera contribuisca a svegliare quanti si credono ancora ‘di sinistra’ dal sonno dell’Euro. Sonno che diventa sempre più un incubo per la società europea e per i suoi popoli. L’Europa progettata alla fine della Seconda guerra mondiale si è trasformata in una prigione della quale la troika finanziaria tiene le chiavi, con l’obiettivo di non permettere a nessuno -cittadini, politici, intellettuali- di pensare a un Continente unito dall’identità culturale e non da quella bancaria. Identità nella Differenza che l’Europa è sempre stata.
L’Euro è una moneta-garrota, la quale sta strangolando lentamente e ferocemente le economie. Dall’Euro bisogna uscire -anche a costo di sacrifici- per le ragioni delineate con sobria chiarezza da questo testo.

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È evidente a tutti che la fine drammatica dell’esperienza del governo Syriza è uno spartiacque. Essa infatti rappresenta la verifica concreta, l’experimentum crucis che decide se una strategia politica sia valida oppure no. Non è difficile, se si ha onestà intellettuale, trarne le necessarie conseguenze. Proviamo a farlo in questa lettera aperta. Gli “amici sonnambuli” ai quali è indirizzata sono le tante persone del mondo “antisistemico” che in questi anni hanno protestato contro le politiche autoritarie e di austerità dei ceti dominanti, rifiutando però di porre la questione politica dell’uscita dell’Italia dal sistema euro/UE. La proposta dell’uscita veniva tacciata in questi ambienti di “nazionalismo”, e contro di essa veniva evocata la necessità della lotta unitaria dei ceti popolari europei.
Speriamo che la triste vicenda greca serva almeno a favorire un’ampia presa di coscienza su quali siano i nodi politici reali da affrontare in questo momento storico, se non si vuole soccombere.
Cerchiamo di riassumere i punti fondamentali della questione.

1. Il sistema euro/UE è irriformabile.

La strategia di Tsipras era quella di lottare, all’interno del sistema euro/UE, per strappare un compromesso avanzato, che permettesse al suo governo di porre fine alle politiche di austerità. Questa strategia è stata completamente sconfitta, tanto da essere accantonata dal governo greco ben prima dell’indizione del referendum, il quale è stato convocato solo per ottenere dalle istituzioni europee una qualche disponibilità alla ristrutturazione del debito.

Non ha alcun senso, quindi, pensare di riproporre una simile strategia, perché non è possibile ottenere alcun allentamento dell’austerità all’interno del sistema dell’euro/UE.

Le ragioni sono molte e ne abbiamo scritto molte volte. Ci limitiamo qui a sottolineare il fatto che sarebbe estremamente ingenuo pensare che sia impossibile cambiare le politiche europee solo perché le forze di sinistra non hanno abbastanza potere. E che, quindi, una vittoria delle sinistre in paesi forti come la Germania consentirebbe di rendere possibile ciò che oggi non si riesce a fare. Per smentire questa tesi è sufficiente vedere quale è stato, in queste settimane, l’atteggiamento della SPD tedesca, così come quello di Martin Schultz.

Così come non esiste possibilità che le oligarchie europee cambino le loro politiche, allo stesso modo è impensabile che esse possano essere messe in discussione tramite lotte popolari europee, come continuano a ripetere i sonnambuli, che per continuare a sognare “l’Europa dei popoli” devono necessariamente tenere gli occhi chiusi davanti alla realtà.

Anche su questo, infatti, le recenti vicende greche hanno dato una risposto molto netta. Veniamo così al secondo punto.

2. Non c’è nessuna solidarietà fra i popoli europei.

Nella sua lotta disperata, Atene è rimasta sola. Non c’è stata negli altri paesi europei nessuna iniziativa di solidarietà con la Grecia che sia stata significativa, capace di incidere. Possiamo invece facilmente immaginare cosa sarebbe successo se i popoli dei paesi creditori avessero potuto esprimersi sulle condizioni da imporre alla Grecia.

Aspettarsi che i popoli europei, che nel corso di questa lunghissima crisi non hanno finora mai manifestato una capacità di azione comune, possano camminare insieme nel prossimo futuro, significa fare una irresponsabile scommessa sulla pelle dei popoli stessi.

Al contrario, grazie al sistema euro/UE, i ceti dominanti europei sono più uniti e coordinati di prima (pur nei loro ineliminabili conflitti reciproci). Cosicché essi riescono a concentrare una enorme “potenza di fuoco” (UE, BCE, FMI) contro il popolo del paese che di volta in volta è bersaglio (la Grecia, la Spagna, il Portogallo, l’Italia etc..) mentre quest’ultimo è solo, impotente.

Scegliere, come dicono i sonnambuli, il piano europeo come il piano della lotta, è un vero suicidio, perché su quel piano i popoli sono divisi e resteranno tali, mentre le oligarchie possono facilmente unire le forze. È soprattutto per questo che il progetto di un’Europa federale è da respingere, prima che per la sua difficoltà di realizzazione: perché se anche venisse realizzato, sarebbe non un sogno ma un incubo, l’incubo del dominio pieno delle oligarchie unificate su popoli divisi, deboli, costretti a cedere ai ricatti, come hanno dovuto cedere i greci.

Il piano della lotta deve quindi essere necessariamente quello nazionale. Questo non esclude affatto alleanze con le forze antisistemiche di altri paesi. Ma noi dobbiamo iniziare la nostra lotta in Italia, parlando al popolo italiano. Se e quando negli altri paesi si svilupperanno lotte analoghe, si cercherà di costruire collegamenti con esse.

3. L’inevitabile uscita dall’euro e dalla UE.

Nelle interviste rilasciate dopo il suo abbandono del governo, Varoufakis ha rivelato che una volta compreso che la strategia del governo non avrebbe condotto a nulla, aveva cominciato a progettare l’uscita dall’euro. Questo ci rivela alcune cose fondamentali.

La più importante è che l’uscita dall’euro sta nella logica della cose, se davvero si vuole lottare contro le oligarchie e il sistema euro/UE. Varoufakis aveva sempre dichiarato la sua opposizione al Grexit, ma, alla fine, la forza delle cose lo ha portato a porla come opzione. La realtà vince. Dalla posizione di governo, il ministro delle finanze greco ha visto che se si esclude a priori l’uscita dall’euro, ci si consegna mani e piedi alle oligarchie contro cui si combatte. La posizione di Tsipras, che si può riassumere con la frase “negoziamo, ma sia chiaro che noi non usciremo dall’euro” ha reso facilissimo alle istituzioni imporre qualunque cosa, sotto la minaccia, appunto, della cacciata dall’eurozona.

E’ chiaro quindi che se si vuole seriamente lottare contro le oligarchie e si decide di farlo provando a negoziare con esse, bisogna almeno avere pronto il piano B dell’uscita dall’euro. Ma questa considerazione non è senza conseguenze. Infatti l’uscita dall’euro non può essere un segreto, una specie di inganno: se ci si presenta alle elezioni pensando ad essa come ad una possibilità, gli elettori devono essere informati. Questo non per una astratta “moralità democratica”, di cui peraltro non neghiamo il valore, ma perché l’uscita dall’euro (e dalla UE), come abbiamo detto molte volte, non è la soluzione di tutti i problemi, è “solo” la “condicio sine qua non” per la riapertura della possibilità di una vera alternativa alle politiche attuali.

L’abbandono del mostro europeo comporterà prezzi da pagare. Decidere chi li paga, e come, è politica. Occorrerà decidere cosa fare della riacquistata libertà, verso quali obiettivi indirizzare la politica economica. E su questo si scontreranno le diverse forze politiche.

L’uscita dall’euro e dalla UE significa cioè l’inizio di una nuova fase di lotta politica. Le forze antisistemiche non avranno altra base cui poggiarsi che le masse popolari. Ma tali masse devono essere preparate, devono sapere cosa le aspetta. Devono sapere, se votano per forze antisistemiche, che il loro governo prevede l’uscita dall’euro e dalla UE, almeno come opzione B. Se non c’è questa coscienza, l’eventuale uscita potrebbe rappresentare un disastro, perché potrebbe addirittura essere vissuta come sconfitta o tradimento.

Queste considerazioni, che emergono con chiarezza dalla vicenda greca, ci confermano quello che in questi anni abbiamo sempre ripetuto: l’uscita dall’euro e dalla UE è una componente necessaria nel programma politico di una forza realmente antisistemica.

La stanchezza della sinistra

Mia madre
di Nanni Moretti
Italia-Francia-Germania, 2015
Con: Margherita Buy (Margherita), Giulia Lazzarini (Ada), Nanni Moretti (Giovanni),  John Turturro (Barry Huggins), Beatrice Mancini (Livia), Enrico Ianniello (Vittorio), Renato Scarpa (Luciano)
Trailer del film

mia_madreMargherita sta girando un film dedicato alla chiusura di una fabbrica; Giovanni, suo fratello, è un ingegnere che ha deciso di licenziarsi. Entrambi assistono la madre, prima in ospedale e poi a casa. Il film di Margherita stenta a prendere forma, anche a causa dell’apparente scarsa professionalità dell’attore straniero. L’agonia della madre si intreccia con quella degli operai, del loro lavoro.
Stavolta Moretti si è incarnato in una donna. Rendendola scostante come lui. Come lui un intreccio di rigore e approssimazione. Tenerezza, allegria, struggimento scorrono nei personaggi. La tenerezza creata dal morire. L’allegria dell’esuberanza italo-americana. Lo struggimento verso l’inevitabile. Ma se il morire degli umani è necessario, non lo è invece quello della giustizia. Il film annoda la vicenda privatissima con quella sociale, mostrando attraverso la stanchezza della madre quella di un’intera collettività. Germogliano qua e là delle battute divertenti, l’insieme però delinea il più tragico dei film di Moretti. Che è sempre stato un po’ scettico ma adesso probabilmente ha preso atto che anche la madre-partito è morta. Non fa polemiche esplicite, gli basta chiedersi se quel partito sta con gli operai o con i padroni. La risposta è evidente.

[Per una recensione più interna al film, consiglio la riflessione di Luca Illetterati: Realtà e rappresentazione nel cinema di Nanni Moretti ]

La fame

Cacciatori di cibo – Ivo Saglietti
Haiti, a noi così vicina, così lontana dal Cielo

Galleria San Fedele – Milano
A cura di Andrea Dall’Asta SJ e Stefano Femminis
Sino al 23 maggio 2015

Saglietti_HaitiCi volevano i gesuiti, sempre i più intelligenti tra i papisti, per denunciare alcune delle palesi contraddizioni dell’Expo 2015. È bastato allestire e ospitare nel loro spazio culturale di Milano una mostra del fotografo Ivo Saglietti, il quale nel 1993 fotografò ad Haiti la fame. Sì, la fame che spinge -allora come oggi- gli haitiani ad aspettare lo scarico di tonnellate di immondizia proveniente dagli Stati Uniti d’America e lanciarsi su di essa alla ricerca di qualcosa. Una busta sporchissima di latte in polvere mostrata come un trofeo. Poche gocce d’acqua stillate da bottiglie di plastica schiacciate e luride. In una delle fotografie che ritraggono delle schiene curvate, piegate alla ricerca, in basso a destra si vede una testa un poco alzata, occhi che guardano l’orrore. Ma occhi pacati, rassegnati.
Andrea Dall’Asta, gesuita appunto, presentando la mostra scrive: «In questi ultimi mesi, non si fa che parlare di Expo, di nutrire il pianeta, di cibo, di sapori e di profumi. Tra maggio e ottobre, parteciperemo a un’esilarante festa del gusto e del palato, a un’immensa kermesse, dove tutti saremo invitati ad applaudire prodotti raffinati e sostenibili, sentendoci coinvolti nell’avere contribuito in qualche modo alla salvaguardia del nostro così tormentato pianeta…Riusciremo a garantire cibo sano, sicuro e sufficiente per tutti i popoli, rispettando così la terra e i suoi equilibri?» E risponde: «E le ferite continuano, così come i falsi aiuti che troppo spesso non fanno che arricchire i ‘ricchi’, con stipendi favolosi, ‘fingendo’ di aiutare i poveri…Già, tutto continua, come sempre, anche oggi, con la violenza, le malattie, gli orfani e…gli immondezzai».
Un’immagine di Saglietti mostra tra la spazzatura innumerevoli bicchieri di carta della Coca Cola, sponsor primario dell’Expo milanese, insieme a MacDonalds e Nestlè. «Nutrire il pianeta» con cibo scaduto, avvelenato, sporco. «Energia per la vita», l’energia umana che trasforma l’immondizia in nutrimento. L’Expo è un insulto ai popoli che patiscono la fame.

Contro il crimine

Si fa finta -i giornali fingono, la televisione finge, i cittadini fingono- di non sapere e di non capire che la corruzione pubblica in Italia non è un problema di natura morale, è un problema di carattere economico-politico. Il bene e il male non c’entrano. C’entra invece l’enorme spreco di risorse pubbliche che tiene la società in ginocchio ostacolando e spesso rendendo impossibile l’erogazione di servizi essenziali per le collettività. E questo accade perché coloro che dovrebbero combattere la corruzione con gli strumenti legislativi sono essi stessi i maggiori corrotti e corruttori.
Si può dunque dire che l’Italia è in mano a criminali di diversa natura, funzione, identità. E lo è da tempo. Un caso come quello di Andreotti -esponente governativo di primo piano anche a livello internazionale- affiliato e complice di Cosa Nostra (prescritto non assolto!) è stato presto dimenticato per ovvie ragioni ma è un caso che dice tutto. Di massoni, di soggetti oscuri e sempre menzogneri, di patologici pubblicitari, come recenti presidenti della Repubblica e del Consiglio non è neppure il caso di discutere.
I criminali governano gli enti locali -da Bronte a Roma-; governano le banche; governano la Chiesa papista; governano le ‘forze dell’ordine’; governano il calcio; governano le Grandi Opere; governano numerose associazioni della cosiddetta ‘società civile’; governano molte università e centri di formazione; governano la televisione e la ‘grande stampa’. Governano -senza alcun dubbio- i partiti politici.
Anche per questo quando sento di qualcuno dire «è (o fu) un fedele servitore dello Stato» io penso che si tratti di servitori del crimine. Pur essendo (anche) un pubblico funzionario, spero bene che nessuno si sogni di dire di me una cosa del genere. Non c’è trattativa Stato-mafie. Perché non c’è trattativa tra il braccio destro e quello sinistro dello stesso organismo.
Possiamo fare poco, certo, nei confronti di tutto ciò ma almeno questo dobbiamo capirlo. E non fingere.

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