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Follie sotto la pelle

Crooked House
di Gilles Paquet-Brenner
Gran Bretagna, 2017
Con: Max Irons (Charles Hayward), Stefanie Martini (Sophia de Haviland), Glenn Close (Edith), Terence Stamp (L’ispettore capo Taverner), Julian Sands (Philip Leonides), Christina Hendricks (Brenda), Gillian Anderson (Magda), Honor Kneafsey (Josephine)
Trailer del film

Muore il patriarca. Un greco emigrato in Inghilterra, arrivato senza un soldo e diventato ricchissimo mediante affari non del tutto legali, come è ovvio. Il suo patrimonio è conteso tra figli, nuore, nipoti che Aristides Leonides ha costretto a vivere tutti insieme in una grande dimora un po’ kitsch, sotto il suo occhiuto controllo. Persone che tra loro si sbranano e ognuna delle quali avrebbe avuto qualche ragione per uccidere il vecchio. Prima che arrivi Scotland Yard, Sophia -nipote prediletta- chiede allo squattrinato detective Charles di scoprire l’assassino. Porte si aprono e si chiudono, parole affilate feriscono e disvelano, scritture imprudenti ed esatte conducono dritto dritto alla soluzione e a nuove morti.
Tratto da un romanzo di Agatha Christie, Crooked House rispetta in modo persino pedante tutte le regole del giallo tinto di un aplombico noir, sorpresa finale compresa. Un film che si guarda al modo in cui si può ascoltare una storia che ha un inizio, un retroterra, uno svolgimento e una conclusione. Letteratura tradizionale, insomma. Come tradizionale è l’umana follia che pervade questa casa storta e contorta. 

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Under the Skin
di Jonhatan Glazer
USA-Gran Bretagna, 2013
Con: Scarlett Johansson (Laura)
Trailer del film

Una desolata e piovosa metafora della donna, della sua alterità, dei sentimenti che è meglio non nutrire, della solitudine. Come se la donna e i sentimenti fossero degli alieni piovuti in mezzo alla materia, ad assumere sembianze gentili che però non riescono a nascondere sino in fondo la struttura gelida, levigata e moribonda delle cose vive che sanno di esserlo. Peccato che tutto questo stia dentro un film troppo allusivo, insieme fantascientifico e patetico, ecologico e macchinico, finto e che di tale finzione si compiace. Un film brutto.

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[Ho scelto come immagine per questo testo uno dei capolavori dell’architettura di ogni tempo, la Fallingwater o Casa sulla cascata (1935) di Frank Lloyd Wright. I due film parlano infatti di una casa il primo e dell’acqua il secondo. Ma l’opera dell’architetto volge in armonia e splendore ciò che nei film è follia e dissoluzione]

 

Elemosina / Destino

Il filo nascosto
(Phantom Thread)
di Paul Thomas Anderson
USA, 2017
Con: Daniel Day-Lewis (Reynolds Woodcock), Vicky Krieps (Alma), Lesley Manville (Cyril)
Trailer del film

«La donna perfetta sbrana quando ama…Conosco queste amabili Menadi…Ah, che razza di piccolo predatore pericoloso, strisciante, sotterraneo! E in più così piacevole!…Una piccola donna che insegue la sua vendetta sarebbe capace di scavalcare anche il destino. […] L’amore -nei suoi mezzi la guerra, nel suo fondo l’odio mortale tra i sessi». Così pensa Friedrich Nietzsche nel § 5 della sezione di Ecce homo dal titolo ‘Perché scrivo libri così buoni’ (Opere, Adelphi, vol. VI/3, p. 315).
Dalla remota notte del passato emergevano senza requie dei fantasmi. Come quella ragazzina, quella madre che riappariva quale strana e incomprensibile promessa. Ne ricordava il nome e le fattezze, le carezze liete, gli occhi soprattutto. Perché è dagli occhi che sempre si squaderna l’essenza di un umano. È banale ma è vero. Delle altre ricordava poco, ma non quelli che lei gli imbastiva a ogni incontro. Occhi fermi e insieme sfuggenti. Era diventata implacabile quella femmina. Ma all’inizio si era fatta turbine, tempesta, vento. Lo aveva avvolto nelle sfere autoritarie di un erotismo inquieto e senza requie. Dietro e dentro quegli occhi di un verdazzurro cristallino veleggiavano allora canti, voci e inni elevati al piacere più rotondo e fondo. I seni a coppa stavano interi nelle sue mani, che da lì arrivavano alla pancia più sensuale che avesse conosciuto. E dal delta che sapeva di ambrosia e di passito si partivano due cosce statuarie. Le braccia lo avvolgevano di sangue e di profumo nell’amore. Vibrava allora come un albero nelle sere estive, felice d’essere stato invaso da un sole tutto luce, al quale l’incanto aveva succhiato linfa e restituito vita. E su ogni gesto la sinuosa grazia di quella donna. Era del tutto folle, però. In nessun istante si poteva avere sentore di ciò che stava per accadere al successivo battito del tempo. Poteva essere carezza, poteva diventare ruggito che divora.

Non proprio questo ma da esso non lontano è il modo in cui Alma afferra nel film la vita del suo uomo. Da modesta cameriera incrociata per caso in un locale, diventa madre, moglie, amante, amica, allieva, alleata di Reynolds Woodcock, ricco e celebre creatore d’abiti. Avrebbe dovuto essere una delle numerose ragazze da lui desiderate, prese e allontanate. E invece ne diventa, senza che nessuno se ne accorga, la padrona. Sino a un silenzioso patto di amore e di morte.
Daniel Day-Lewis è totale nella sua bravura. Il suo sarto raffinato e violento ha una paradossale somiglianza  fisica con Céline. Il quale scrisse parole come queste: «Ma i ‘figami’ non sono solo corpi!… zotico! sono ‘compagne’! e i loro cinguettii, incanti e ghingheri? buon pro vi facciano! se ci avete il gusto del suicidio, incanti e cinguettii, tre ore al giorno, impiccarvi vi farà un bene boia!… lunga! corta!… sia detto senza cattiva intenzione! o passerete tutta la vecchiaia ad avercela col vostro uccello per avervi fatto perdere tanti di quegli anni a piroettare, scalpitare… fare il bello, sulle vostre zampe anteriori, su un piede, l’altro, per avere l’elemosina di un sorriso…» (Nord, in «Trilogia del Nord», Einaudi 2010, p. 463).
L’elemosina di un sorriso. Un uomo che si consegna per intero a una donna -che sia madre, moglie, amante, amica, allieva, alleata- merita davvero il suo «malu destinu».

Infanzia e Islam

La sposa bambina
(I am Nojoom, Age 10 and Divorced)
di Khadija Al-Salami
Yemen, 2014
Con: Reham Mohammed (Nojoom)
Trailer del film

La madre la chiama Nojoom, che vuol dire ‘stella’. Il padre preferisce Nojoud, che significa ‘nessuno’. È emblematico sin dalla nascita il destino di questa bambina intelligente e vivace. Emblematico di società e costumi che definire ‘patriarcali’ è infangare il patriarcato. Si tratta di assai di più: di una programmatica, esplicita, radicata schiavitù implicita nel Libro Sacro dei musulmani, per il quale ogni femmina è una entità inferiore.
Nojoom viene data in sposa a 10 anni a un contadino agiato ma non si piega. Nonostante la violenza sessuale e psicologica del marito e della suocera, riesce ad arrivare in tribunale, dove chiede il divorzio, incontra un giudice intelligente e libero, diventa un caso nazionale e ottiene la libertà. Una storia vera, accaduta a Nojoud Ali e a chissà quante altre bambine dello Yemen e di altri Paesi islamici.
La piccola protagonista è del tutto credibile e il film è montato con efficacia, partendo dal presente della ribellione per tornare alla nascita di Nojoom e spiegare poi le ragioni del comportamento del padre.
Due osservazioni inevitabili.
La prima è che una simile barbarie che violenta sistematicamente delle bambine non sarebbe possibile senza il collaborazionismo femminile di madri e suocere, sempre pronte a sostenere il figlio maschio.
La seconda è la palese contraddizione di chi denuncia di continuo il dominio del maschio europeo sulle donne ma poi chiede anche ‘rispetto per l’Islam’, per le sue credenze e per i suoi costumi. Rispetto dunque di quanto di più rozzo, oppressivo, antilluministico, fanatico, antilibertario si dia nella cultura contemporanea. E questo vale per il modo in cui vengono trattate sia le donne sia gli omosessuali (equiparati a criminali destinati al fuoco eterno), come molte altre questioni.
Gli uomini (maschi e femmine) sono strani. In questo caso è il politicamente corretto che divora se stesso, chiedendo rispetto per chi non ne nutre affatto nei confronti di chi la pensa in modo diverso, abbarbicato com’è ai precetti di «Allah, il Compassionevole, il Misericordioso», Allah, il Maschio dominante.
Nel loro letteralismo scritturale, nella ristrettezza dell’orizzonte culturale, nel rifiuto delle immagini -e quindi della bellezza-, nel disprezzo per la filosofia e le scienze, nell’odio furibondo verso l’intelletto e verso ogni critica, nell’utilizzo reiterato e instancabile della parola «Allah», molti musulmani rappresentano la più grave forma di intolleranza del mondo contemporaneo.

[L’immagine qui sopra non è tratta dal film; è la foto di una vera coppia musulmana, del tutto legittima secondo i precetti del Corano]

Da Il Sacro Corano
Traduzione interpretativa in italiano a cura di Hamza Piccardo
Revisione e controllo dottrinale

II, 221 Non sposate le [donne] associatrici [un modo per definire le donne di condizione libera e non credenti; nota di agb] finché non avranno creduto, ché certamente una schiava credente è meglio di una associatrice, anche se questa vi piace.

IV, 15 Se le vostre donne avranno commesso azioni infami, portate contro di loro quattro testimoni dei vostri. E se essi testimonieranno, confinate quelle donne in una casa finché non sopraggiunga la morte o Allah apra loro una via d’uscita.

IV, 34 Gli uomini sono preposti alle donne, a causa della preferenza che Allah concede agli uni rispetto alle altre e perché spendono [per esse] i loro beni. Le [donne] virtuose sono le devote, che proteggono nel segreto quello che Allah ha preservato. Ammonite quelle di cui temete l’insubordinazione, lasciatele sole nei loro letti, battetele. Se poi vi obbediscono, non fate più nulla contro di esse. Allah è altissimo, grande.

LVI, 35-38 Le abbiamo create perfettamente, le abbiamo fatte vergini, amabili e coetanee, per i compagni della destra [cioè per i guerrieri credenti, nota di agb].

LXXVIII, 31-34 In verità avranno successo i timorati [di Allah; nota di agb]: giardini e vigne, fanciulle dai seni pieni e coetanee, calici traboccanti.

Roth

Philip Roth
L’animale morente
(The Dying Animal, 2001)
Traduzione di Vincenzo Mantovani
Einaudi, 2002
Pagine 113

Il Professor David Kepesh ha sessantadue anni; ha vissuto da docente la contestazione e la liberazione sessuale, da esse si è sentito restituire alla propria natura di macchina del desiderio, oltre che di dispositivo concettuale. Vive quindi da molti anni da solo e colleziona rapporti, avventure, sesso anche con le sue studentesse –ma rigorosamente solo dopo la conclusione dei corsi e degli esami. Nessuna di queste relazioni lo ha mai coinvolto emotivamente, finché non gli si è presentata davanti Consuela Castillo, una splendida ragazza cubana dai capelli nerissimi, dai seni meravigliosi, dal corpo irresistibile. Per un anno e mezzo Consuela diventa la sua passione, la sua gioia e il suo tormento. Quando lei lo lascia la sofferenza è totale ma alla fine è Consuela l’animale morente, colpita da un tumore ai suoi splendidi seni.
Il lungo monologo di David è a volte banale, ripetitivo e persino noioso, giocato sin troppo sull’apologia di quegli anni Sessanta dei quali si dice che «no, non furono aberranti» (pag. 46), e che spesso rappresentarono «una farsa infantile ma una farsa infantile di vastissima portata» (47). Il monologo di un uomo con ancora tanta vitalità nel corpo, consapevole che la vita offre soltanto un assaggio –che la vita è soltanto un assaggio- e che il desiderio di legami più stabili ci rovina e ci perde. Il monologo di un professore che vede nella didattica il proprio destino ed è consapevole che il suo potere su Consuela sta proprio nell’insegnamento. Il monologo di un uomo che ha studiato sino in fondo l’oggetto del suo amore e sa che Consuela è nello stesso tempo «comune ma senza essere prevedibile» (21) ed è anche sfuggente, come tutti gli oggetti del desiderio.
Un uomo così disincantato e persino cinico non può tuttavia fare nulla contro la potenza di Afrodite, contro l’innamoramento che lo afferra senza che quasi se ne accorga. Ed è proprio nella descrizione della passione che il monologo si riscatta e diventa una vera e propria fenomenologia dell’amore, una delle più sincere che la letteratura abbia saputo creare.
L’amore è ossessione: «Per questo Consuela era sempre nei miei pensieri; per questo, con lei o lontano da lei, non mi sentivo mai sicuro di lei» (19).
L’amore è potere: «Aver conquistato il totale interesse, essere diventata la passione divorante di un uomo che in ogni altro campo le sarebbe inaccessibile […] Questo è il potere, ed è il potere che lei vuole» (26).
L’amore è frattura, come ricorda a David il suo amico George: «L’unica ossessione che vogliono tutti: l’ ‘amore’. Cosa crede, la gente, che basti innamorarsi per sentirsi completi? La platonica unione delle anime? Io la penso diversamente. Io credo che tu sia completo prima di cominciare. E l’amore ti spezza. Tu sei intero, e poi ti apri in due» (73-74).
L’amore è adulazione: «Io l’avevo proclamata una grande opera d’arte […] Perché la devo adulare quando chiacchieriamo? Perché non la finisco di dirle che è perfetta?» (29).
L’amore è una costruzione dell’innamorato e l’Altro, come scrive Proust, è solo  «ce choc en retour de notre propre tendresse». («À l’ombre des jeunes filles en fleurs» in À la recherche du temps perdu, Gallimard 1999, p. 482), un riflesso e rimbalzo della nostra stessa tenerezza. David ammette infatti che «io sono l’autore del suo dominio su di me» (25).
L’amore non può essere, quindi, che lo strazio impossibile dell’anima, tanto che «non riesci ad avere ciò che vuoi nemmeno quando riesci ad avere ciò che vuoi» (30), essendo «tormentato per tutto il tempo che ero stato con lei, cento volte più tormentato per averla perduta» (68) e «se avessi insistito, non avrei fatto altro che prepararmi nuovi tormenti» (70).
L’amore «è anche la vendetta sulla morte» (52) ma la morte arriva lo stesso, prima a consumare il «volto cavernoso e immensamente solo» dell’amico George (89) e poi a intaccare lo splendore statuario, sensuale, apparentemente integro di Consuela.
Dai Greci a Proust, dentro i miti di tutte le menti e civiltà, l’amore è quindi lotta, estasi, tormento, piacere, metafora della fine, poiché niente davvero conduce gli umani sull’orlo dell’abisso come la potenza incomprensibile e gratuita del sentimento e del desiderio che fanno dell’Altro –che è soltanto una parte- il Tutto nella cui assenza manca il respiro e all’infuori del quale non ci sono orizzonti.

[Segnalo anche American Pastoral (1997)]

La lotta, il desiderio

L’inganno
(The Beguiled)
di Sofia Coppola
USA, 2017
Con: Colin Farrell (Caporale McBurney), Nicole Kidman (Miss Martha), Kirsten Dunst (Edwina), Emma Howard (Emily), Elle Fanning (Alicia), Oona Laurence (Amy), Angourie Rice (Jane), Addison Riecke (Marie)
Fotografia di Philippe Le Sourd
Trailer del film

Sì, l’inganno. L’inganno con il quale cerchiamo di tenere a bada i nostri desideri. I nostri e non soltanto quelli delle sette donne di diversa età -dalla matura Martha alle ragazzine- che durante la Guerra di secessione  (1861-1865) trovano nel loro giardino un soldato nordista ma non lo consegnano ai militari del Sud. Curano la sua ferita, lo ospitano, lo coccolano, lo desiderano. Travolto da profumi, trecce, seni, crinoline, il caporale John si inebria, diventa anche lui desiderio indiscriminato, smarrisce la prudenza e si perde nello scontro. Poche cose infatti sono al mondo pericolose quanto una donna gelosa. Se poi si tratta di più di una, il destino è segnato.
Il corpo a corpo bellico ed erotico è costante. Il fruscio delle gonne si alterna al rumore delle armi, il silenzio dei complotti fa da sfondo a cene molto ambigue, le preghiere salgono al cielo a invocare pace e morte.
Il narrare di Sofia Coppola è ordinato sino a diventare didascalico, la fotografia di Philippe Le Sourd è parte dell’eros che intrama la pellicola sin dalla prima scena, nella quale la luce soffusa del meriggio si alterna all’oscurità del bosco sempre inquieto.
La pelle coincide con la ferita, il desiderio è una cosa sola con la lotta.
«Das vollkommne Weib zerreisst, wenn es liebt. … Ich kenne diese liebenswürdigen Mänaden … Ah, was für ein gefährliches, schleichendes, unterirdisches kleines Raubthier! Und so angenehm dabei! … Ein kleines Weib, das seiner Rache nachrennt, würde das Schicksal selbst über den Haufen rennen. – Das Weib ist unsäglich viel böser als der Mann, auch klüger; Güte am Weibe ist schon eine Form der Entartung … […] Liebe – in ihren Mitteln der Krieg, in ihrem Grunde der Todhass der Geschlechter»
[‘La donna perfetta sbrana, quando ama…Conosco queste Menadi così amabili…Ah, che piccolo predatore pericoloso, sotterraneo e strisciante! Ma anche così piacevole e divertente! Una piccola donna tesa alla sua vendetta, sarebbe capace di oltrepassare anche il destino. La donna è indicibilmente più cattiva dell’uomo, anche più attenta. Nella donna la bontà è già una forma di degenerazione…[…] Amore -nei suoi mezzi è la guerra, nel suo fondamento è l’odio mortale tra i sessi’].
(Nietzsche, Ecce homo, «Warum ich so gute Bücher schreib» [‘Perché scrivo libri così buoni’], § 5).

μυθος

Il mito è l’essenza stessa del linguaggio e della vita. Comunità, etnie, individui, popoli, in esso abitano e in esso si specchiano. Alla radice di tale potenza c’è secondo Robert Graves la donna. Un matriarcato ontologico fa sì che nel «complesso religioso arcaico non vi erano né dèi né sacerdoti, ma soltanto una dea universale e le sue sacerdotesse; la donna infatti dominava l’uomo, sua vittima sgomenta» (Robert Graves, I miti greci, trad. di Elisa Morpurgo, Longanesi 2011, § 1, p. 22)
La Terra è femmina; le Erinni -«Tisifone, Aletto e Megera» che «vivono nell’Erebo e sono più vecchie di Zeus e di tutti gli olimpi» (§ 31, p. 108) sono femmine; le Moire/Parche (Clòto, Làchesi e Àtropo) sono femmine; Afrodite (potenza del corpo) è femmina; Atena (la mente) è femmina; persino l’autrice dell’Odissea è probabilmente una femmina, e già Samuel Butler «vide in Nausicaa l’autoritratto dell’autrice, una giovane e geniale nobildonna siciliana del distretto di Erice» (§ 170, p. 678), la quale costruì sotto l’apparenza di un poema il primo romanzo greco, la cui geografia va dalla Sicilia alla Norvegia.
Dentro tutto questo e dietro ogni mito, Graves scorge la presenza della Dea Bianca -rappresentata dalla Luna e dalle sue fasi-, della sua potenza, della sua attrazione, del suo divenire. Nulla a che fare, quindi, con resoconti e letture soltanto filologiche -anche se l’erudizione di Graves è immensa- né con le banalità psicologiche di Freud e Jung, che riducono il Cosmo alla misera misura del cervello umano -«Secondo quell’antico culto il nuovo re, benché straniero, era considerato in teoria figlio del vecchio re che egli uccideva, sposandone poi la vedova: una consuetudine che gli invasori patriarcali interpretarono erroneamente come parricidio e incesto. La teoria freudiana che ‘il complesso di Edipo’ sia un istinto comune a tutti gli uomini, fu suggerita dal fraintendimento di questo aneddoto. Plutarco, pur narrando (Iside e Osiride, 32) che l’ippopotamo ‘uccise il genitore e violentò la genitrice’, non ne avrebbe mai dedotto che ogni uomo ha il complesso dell’ippopotamo» (§ 105, p. 342). Qui non ci sono neppure attualizzazioni o classicismi. L’autore semplicemente racconta i miti e in questo modo mostra tutta la loro potenza, oggi come ieri, come sempre.

Li racconta esponendo un numero assai grande di varianti quasi per ogni nome e per ogni circostanza. E questo conferma che anche il mito, come la filosofia,  è un gioco di Identità e Differenza nel quale si esprime la ricchezza senza fine del tempo.
Ci sono tutti i miti dei Greci, proprio tutti anche i più sconosciuti, ci sono tutti i personaggi, tra i quali emergono Eracle con la sua immensa forza; Odìsseo, il quale «è un personaggio chiave della mitologia greca» proprio perché «sebbene fosse nato da una figlia del corinzio dio del Sole e avesse conquistato Penelope all’uso antico, vincendo una corsa podistica, egli infrange la secolare legge matriarcale, insistendo perché Penelope venga a vivere nel suo regno anziché trasferirsi in quello di lei» (§ 160, p. 602); il titano Encèlado, contro il quale Atena scagliò il masso che uccidendolo lo trasformò nella Sicilia; Cecrope animalista, il quale «offriva agli dèi soltanto focacce d’orzo, astenendosi persino dal sacrificare animali» (§ 38, p. 125); Dedalo che visse a lungo «tra i Siciliani, costruendo molti splendidi edifici» (§ 92, p. 284); Medea, la maga più potente di tutte, che «non morì mai, ma divenne immortale e regnò nei Campi Elisi dove alcuni sostengono che fu lei, e non Elena, la sposa di Achille» (§ 157, p. 573); Penelope, che se per Omero/Nausicaa rimase fedele al suo sposo, secondo altre tradizioni fu in realtà la madre di Pan, da lei nato «dopo che essa si accoppiò promiscuamente con tutti i suoi pretendenti durante l’assenza di Odisseo», versione che «si ricollega alla tradizione delle orge sessuali pre-elleniche» (§ 160, p. 603).

E poi ancora: la guerra, come quella paradigmatica di Troia che aveva opposto l’Asia all’Europa, che Zeus e Temi fecero scoppiare forse per rendere famosa Elena oppure per esaltare e confermare la potenza dei semidei che la combatterono «e al tempo stesso decimare le tribù popolose che opprimevano la faccia della Madre Terra» (§ 159, p. 584); i costumi, come l’usanza di vestirsi di nero in occasione dei lutti, prodotta dal bisogno «di ingannare le ombre dei morti, alterando il proprio aspetto» (§ 114, p. 396); l’illusione, generata da Prometeo per evitare la distruzione totale, conseguenza di Pandora -la prima donna mortale, «che per volontà di Zeus era stupida, malvagia e pigra quanto bella: la prima di una lunga serie di donne come lei»-, la quale aprendo il vaso che conteneva ogni male portò agli umani «la Vecchiaia, la Fatica, la Malattia, la Pazzia, il Vizio e la Passione. […] Ma la fallace Speranza, che Prometeo aveva pure chiuso nel vaso, li ingannò con le sue bugie ed evitò così che tutti commettessero suicidio» (§ 39, p. 130); la vendetta, Nemesi figlia di Oceano, la cui «bellezza è paragonabile a quella di Afrodite» (§ 31, p. 111), il cui appellativo di Aδράστεια -l’ineluttabile- la rende ben più sovrana di Zeus, del quale fu nutrice.

Su questa Luce splende la potenza dei due ἀδελφοί, dei fratelli Apollo e Dioniso. Il primo «predicò la moderazione in ogni cosa» e tuttavia fu anche capace di furia tremenda (§ 21, pp. 69-71). Il secondo, molto vicino al mondo femminile tanto da essere «di solito rappresentato come un giovane effeminato dai capelli lunghi e la sua maschera poteva essere scambiata per quella di una donna» (§ 79, p. 237), inventò il vino e ogni forma di ebbrezza, «andò vagando per il mondo, accompagnato dal suo tutore Sileno e da un gruppo frenetico di Satiri e di Menadi», fu in grado di trasformarsi in serpente, «in leone, in toro, in pantera», e fare impazzire chiunque volesse, «spargendo gioia e terrore ovunque passava» (§ 27, pp. 92-93) e tuttavia fu anche capace di porre termine ai «riti più antichi e primitivi […], al cannibalismo e all’omicidio rituale» (§ 72, p. 213).
L’incrocio di identità e di destini tra Apollo e Dioniso è un chiasmo sacro, nel quale i miti dei Greci raggiungono pienezza, significato, luce e sostanza. La resurrezione annuale di Dioniso «continuò a essere celebrata a Delfi, dove i sacerdoti consideravano Apollo la parte immortale di Dioniso» (§ 27, p. 96).

Dal lutto e dalla gloria

Attilio Scimone / La memoria della terra
in
Gente di fotografia
Anno XXIII, n. 68, agosto 2017
Pagine 56-61

«Tra le erbe, i silenzi, i graffi e le onde si staglia finalmente la bellezza. La bellezza per antonomasia, la bellezza paradigma, la bellezza che ci turba, ci avvolge, ci vince e fa felici. La bellezza della donna. Multiverso le raccoglie, queste donne. Le raccoglie mentre sinuose avanzano coi tacchi dentro il grano o elegantissime sembrano supplicare la loro stessa pacata gloria. Le raccoglie mentre posano distanti dallo sguardo e dal desiderio del fotografo e mentre avvolte nel nero arcaico di Sicilia si accingono a riempire di sé i luoghi, la pellicola, le voglie, la memoria»

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