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Venezia

Complice un convegno kubrickiano, ho percorso ancora una volta Venezia. Questo luogo anfibio, nato dalle acque e dagli umani. Ho cercato gli spazi solitari. Non è difficile. Basta scostarsi un poco dalle ripetute indicazioni «Per Rialto e San Marco» o -all’inverso- «Per la ferrovia e piazza Roma» e si dissolvono le certezze di abitare il secolo che chiamiamo XXI. Il ricamo settecentesco sta dovunque, i marmi e le pietre sono antichi, le porte sulle calli sembrano immutate. Nei ‘rami’ -le più strette tra le vie- l’odore acre dell’urina si mescola alla potenza verticale dei muri. ‘Sestieri’, ‘campi’, ’corti’, ‘campielli’  si allargano nei pozzi, nelle bifore, nei radi alberi.  Nonostante il profluvio di pizzerie e di negozi bric-à-brac di ogni tipo, sopravvive a Venezia anche il segreto degli artigiani, di chi fa uscire gli oggetti dalle proprie mani e non da macchine seriali. E poi il silenzio. Fuori dai percorsi stabiliti, Venezia è il silenzio, è la voce muta delle architetture, è il chiarore che si insinua a fatica dentro la massiccia presenza degli edifici ma che è ancora e sempre capace di trasformarli in luce, di travolgerli, abbracciarli, incendiarli di malinconia. Una città dove si cammina. Si cammina e basta. Dove dunque il bipede eretto torna alla sua natura, alla sua maschera nello spazio, al suo tempo che tramonta.

Le mura, gli dèi

Le mura di Roma. Fotografie di Andrea Jemolo
Roma – Ara Pacis

Dentro uno dei veri spazi sacri di Roma, che non sono la miriade di luoghi cristiani ma è l’Ara Pacis di Augusto. Un monumento perfetto nel suo equilibrio di storia e vegetazione, di forme e di politica, di pieni e di vuoto. Qui Andrea Jemolo ha esposto 77 fotografie che raffigurano i dodici chilometri che rimangono degli originari diciannove con i quali l’imperatore Aureliano (270-275) volle rafforzare le difese di Roma.
Immagini nelle quali la potenza del tempo emerge dal trionfo del presente, nelle quali l’architettura diventa una forza naturale, nelle quali il consueto delle mura che percorrono la città in ogni sua parte si fa finalmente visibile. La luce che attraversa tali immagini è esatta, avvolgente, costruita su proporzioni rinascimentali che inglobano l’umano e la natura dentro un riverbero affilato di nuvole e di pietre. In esse la storia si stratifica nelle sue resistenze e nelle svolte, nei millenni dentro cui muoiono gli umani e le generazioni ma i volumi rimangono a battere il ritmo degli eventi oltre la carne, dentro il segreto del tempo che scorre e che resiste, che dura.
A questa calma magnificenza Jemolo dedica «lo sguardo lento che ci insegnava Gabriele Basilico» (Catalogo della mostra, Treccani 2018, p. 38), uno sguardo assorbito da Mantegna, Piero della Francesca, Carpaccio, capace di penetrare la distanza lasciandola distante. Roma entra in dialogo con le sue mura attraverso la tecnica e l’arte del fotografo. Perché, dice ancora Jemolo, «la fotografia non è la documentazione del reale ma semmai una delle possibili rappresentazioni della realtà» (Ivi, p. 45).
Le mura aureliane non hanno impedito che i templi di Roma venissero «distrutti e le loro statue fatte a pezzi da criminali armati di martelli» (Catherine Nixey, Nel nome della Croce. La distruzione cristiana del mondo classico, Bollati Boringhieri 2018, p.  32) perché quella distruzione, nata dalla periferia dell’Impero, si era installata dentro quelle mura, corrodendole dall’interno. E tuttavia mentre i pontefici cristiani continuano a usurpare il luogo dei pagani, le mura qui fotografate nella loro perenne plenitudine ricordano che essi, gli dèi, mai se ne sono andati.

Architettura / Tempo

Luigi Ghirri. Il paesaggio dell’architettura 
Triennale di Milano
A cura di Michele Nastasi
Allestimento di Sonia Calzoni
Grafica di Pierluigi Cerri
Sino al 9 settembre 2018

In un lungo corridoio centrale le fotografie di Luigi Ghirri somigliano ai libri di Bergotte, che vegliano sul loro autore come angeli dalle ali spiegate, pronti a restituire vita a colui che li ha creati e non è più. Sul lato destro della sala, le stesse e altre immagini si susseguono raccolte in alcuni nuclei tematici e trasformate in grandi diapositive che battono il tempo della visione. Ecco: il tempo. Per Ghirri esso è fondamentale poiché il problema della rappresentazione dello spazio è per lui sempre «anche un problema che si lega al concetto di tempo. Fotografare una piazza all’imbrunire è diverso che fotografarla con la luce giusta per mettere in evidenza la struttura architettonica della piazza stessa». Nei suoi paesaggi non esiste distinzione netta tra naturale e artificiale e anche questo è dovuto al tempo: «Il paesaggio non è là dove finisce la natura ed inizia l’artificiale, ma una zona di passaggio, non delimitatile geograficamente, ma più un luogo del nostro tempo, la nostra cifra epocale».
Per questo fotografo l’architettura è un modo di abitare il mondo. La centralità della prospettiva scandisce il ritmo dei manufatti architettonici creando immagini nelle quali l’antico e il contemporaneo delineano uno spazio di senso, nelle quali i luoghi vengono descritti in ore diverse e il fotografare diventa esso stesso un’architettura temporale. Acque, terre, cieli si susseguono quasi come una fuga musicale. Tra le tante, si possono vedere le immagini scattate dal fotografo nello stesso luogo che ospita la mostra, il Palazzo della Triennale, immerso nel silenzio e nei secoli di Milano, come si vede anche dall’immagine di apertura di questa pagina.
Luigi Ghirri ha fotografato soggetti assai diversi: teatri, giostre, spiagge, cimiteri, castelli, ponti, strade, giardini, campi, fattorie, musei, templi, città, colline. Una fotografia intima, cosmica e concettuale. Immersa nell’«aria di inquietante tranquillità che abita luoghi e paesaggi, che sembrano essere abitati di nuovo dal mistero e dai segreti che ancora possiedono».

Paris

L’antica Lutetia Parisiorum è ancora il punto geometrico della contemporaneità. L’omogeneità del paesaggio urbano è frutto del rispetto di regole rigide, della subordinazione all’interesse generale. Ma Parigi è anche la città delle molte rivoluzioni che hanno trasformato la Francia e l’Europa. Ha subìto dunque numerose distruzioni, dalla Rivoluzione per antonomasia al Sessantotto. L’Ottantanove cominciò a privarla del suo grande patrimonio romanico e gotico; i comunardi del 1870 ritirandosi facevano terra bruciata, incendiando -fra l’altro- le Tuileries; sui muri della Sorbona sino a poco tempo fa c’erano tracce di affissioni e di graffiti.
Parigi è sempre rinata rinnovandosi fino alla Défense, alla Villette e ai progetti ancora in corso. Di questa continuità fra nuovo e antico, il segno urbanistico più tangibile è forse la prospettiva che collega i tre archi: Carrousel, du Triomphe, la Grande Arche. La leggera asimmetria di quest’ultimo (spero che la si noti anche nella foto qui accanto) è lo scarto che permette il futuro nella fedeltà alla grande bellezza del passato.
Quella che già nel Duecento era la città più popolosa d’Europa, oggi è soprattutto la capitale ripensata e reinventata da Haussmann, il cui segno è pressoché ovunque. Ed è anche la città di Mitterrand, che molto fece per imitare la passione edificatrice del Secondo Impero. Quanto accaduto da allora è soprattutto aggiustamento e manutenzione, in particolare nel Marais, uno dei luoghi più coinvolgenti della capitale (sopra si può vedere una sua strada).
Rivisitandola dopo alcuni anni, ho visto che Parigi resiste al destino di città-vetrina che di fatto annulla il senso di luoghi come Venezia. Questo spazio è rimasto un «enorme asilo per l’intelligenza universale» (Giovanni Macchia); «la città celeste dei laici» (Saul Bellow); «uno dei grandi spettacoli della terra» (Mario Praz); il «vero Paese dei balocchi», capace come nessun altro di togliere «di su le spalle parte del peso della vita» come affermò Antonio Baldini. Il quale seppe descrivere in modo potente e profondo anche la Sicilia e che a proposito della città francese aggiunge che «bighellonando per Parigi ho continuamente l’impressione, e questo è già un mezzo paradiso, di ricordarmi di quando non ero ancora nato».
Un riconoscimento platonico che Paris merita ancora.

Milano

Una lode ironica e tenera nei confronti di una città bellissima, dove per me è stato ed è gratificante vivere. «Milano sono contento che ci sei. […] Ti lascio tutti i miei progetti, le mie vendette e la mia età».

Alberto Fortis
Milano e Vincenzo (1978)

[audio:https://www.biuso.eu/wp-content/uploads/2017/12/Fortis_Milano_e-_Vincenzo.mp3]

L’immagine raffigura il Parco delle Cave, che sta proprio dietro casa, meta delle mie passeggiate in bicicletta 🙂

Trapani

Là dove si incontrano i due mari, nel finis terrae dell’estremo Occidente di Sicilia, sale dalle acque questa falce di luna che si chiama Trapani. δρέπανον in greco vuol dire appunto falce. Un percorso dritto dritto porta dal miracolo di Erice al mare che si frange e taglia dentro gli scogli. Di rocce e d’acqua è circondata la Torre di Ligny che dal 1671 segna il confine fra la pietra e il mare.

La città terrestre è piena di chiese barocche e settecentesche, colme di statue, fercoli, dipinti. Quasi ogni chiesa cattolica del mondo è un piccolo museo, gratuito per i popoli. Un dono di bellezza per tutti, che è sempre da apprezzare rispetto alla povertà dei templi protestanti, più simili a casermoni e magazzini che a luoghi sacri. Come diceva Don Mariano Arena, «la Chiesa è tutta una bellezza» (Sciascia, Il giorno della civetta, Einaudi 1979, p. 103).
Insieme alle chiese, proprio accanto, alcuni magnifici palazzi, in uno dei quali -a due passi dalla Cattedrale- si entra per scoprire che è sede di una scuola, il Liceo Scientifico Fardella. Temo che i suoi studenti, affetti come tutti da abitudine, non si rendano conto del privilegio che hanno.
Il Lungomare di Tramontana è una luminosa passeggiata tra le facciate delle case, le acque, i gabbiani, il silenzio ritmico delle onde che da milioni di anni si infrangono, come le speranze, i desideri, le illusioni, gli amori. Tutti recisi dalla falce del tempo.

 

Italia

Il Bel Paese. Un progetto per 22.621 centri storici

Milano – Palazzo della Triennale
A cura di Benno Albrecht e Anna Magrin
Sino al 26 novembre 2017

L’alfabeto e le città sono probabilmente le due più importanti invenzioni umane. Lo spazio della vita comunitaria e lo strumento di scrittura perfetto e dinamico, con il quale comunicare al di là della presenza, hanno plasmato la nostra specie nei tempi storici diventando per noi natura.
L’Europa -continente assai piccolo- è il luogo delle città pensate e costruite con misura, sin dall’Atene antica e fino alla Rivoluzione Industriale. In essa l’Italia è stata l’ambiente nel quale la città ha mostrato ogni potenzialità di bellezza, di funzionalità, di adattamento armonioso all’orografia e al paesaggio.
Questa intensa e documentatissima mostra è dedicata a Leonardo Benevolo, architetto e storico dell’architettura che consacrò l’intera esistenza alla valorizzazione di tale ricchezza, alla vitalità dei centri storici, alla difesa della tradizione di armonia delle città italiane, strutture tanto complesse quanto fragili, che la «democrazia imperfetta» ha deturpato sino alla devastazione.
Benevolo scrisse infatti che «l’antico paesaggio italiano, e la cultura fondata sulla sua presenza consolatrice, appartengono al passato. Il paesaggio di oggi, fragile, precario, minacciato, ha un tono drammatico inevitabile, che la cultura, per restare all’altezza del suo compito è obbligata a riconoscere. In questo sta la sua originalità nel contesto mondiale. Il paesaggio delle città, dei paesi, delle campagne, delle coste, delle valli alpine, registra -insieme ai segni trasmessi dalla lunga storia passata- le storture di mezzo secolo di democrazia imperfetta: lo sperpero dei valori antichi, l’indugio a ideare e sperimentare i possibili adattamenti moderni, il disinteresse o l’aggressione all’ordine urbano e territoriale; questo quadro quotidiano è uno dei motivi della richiesta di cambiare le istituzioni e i comportamenti che sale dall’opinione pubblica» (L’architettura nell’Italia contemporanea, Laterza 1998, p. 222).
Nonostante tutto questo, e ciò che di peggio da allora è accaduto, un video girato negli ultimi mesi mostra la spettacolare e splendida stratificazione storica delle città italiane, tra le quali ben figurano la mia città natale e di lavoro -Catania- e quella d’elezione, Milano, nel cui centro storico continuano a vivere oggi ben 86.100 persone. Insieme ai video, le planimetrie e le mappe documentano la Forma Urbis come opera d’arte assoluta, scolpita dagli umani e dal tempo.
Alcuni versi di Byron restituiscono l’incanto che il paesaggio e le città italiane esercitano sempre su chi sappia guardare la bellezza ed esistere in essa:

The commonwealth of kings, the men of Rome!
And even since, and now, fair Italy!
Thou art the garden of the world, the home
Of all Art yields, and Nature can decree;
Even in thy desert, what is like to thee?
Thy very weeds are beautiful, thy waste
More rich than other climes’ fertility;
Thy wreck a glory, and thy ruin graced
With an immaculate charm which cannot be defaced.

L’unione dei re, gli uomini di Roma!
E da allora, e ora, fiera Italia!
Sei il giardino del mondo, la dimora
Di tutti i frutti dell’Arte, e la Natura può dire:
Anche nel tuo deserto, cosa ti somiglia?
Le tue stesse erbacce, i tuoi rifiuti sono belli
Più ricchi della fertilità di altri climi;
Il tuo relitto è una gloria, e la tua rovina lo irradia
Di un puro fascino che nulla può cancellare.

(Childe Harold’s PilgrimageThe Fourth, XXVI; traduzione mia)

Una terra fragile e indistruttibile, l’Italia. Una bellezza delicata e tenace, che non ci meritiamo. Ma ha detto bene il poeta: «Thy wreck a glory». Rispetto alla volgarità degli imperi contemporanei, persino i relitti delle nostre antiche dimore sono gloria.

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