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Svizzera

Al centro dell’Europa. Lontano dal mare ma pronta a raggiungerlo verso il sud dell’Italia e verso il Nord della Francia/Germania. Disegnata da confini naturali sui quali ha costruito la propria identità, a conferma che i confini esistono, al di là di tutte le astrattezze no borders e analoghe spinte verso un’identità che tende a uccidere le differenze. Confini che per la Svizzera sono molto evidenti nel caso della catena alpina su tutto il versante meridionale e altrettanto netti tramite i molti laghi e le valli che essa condivide con i Paesi confinanti: Italia, Austria, Germania, Francia (e Lichtenstein).
Confini e identità/differenza già delineati in epoca romana, poi inglobati in gran parte nel Sacro Romano Impero e infine sempre più marcati a partire dai due momenti chiave che hanno generato la Svizzera: la pace di Noyon del 1516 con la quale questo territorio e le sue città dichiarano la propria neutralità rispetto alla guerre tra Stati e dinastie, fermando in questo modo la propria stessa espansione. Da allora la politica comune dei cantoni svizzeri venne stabilita da una Dieta che di solito prendeva (e prende) all’unanimità le sue decisioni. Subito dopo ebbe inizio la Riforma che nella Confederazione elvetica trovò ampio seguito sino a fare di Ginevra una teocrazia calvinista.
L’altra data fondamentale è quella del Congresso di Vienna, 1815, che stabilì la perpetua neutralità della Svizzera e in seguito al quale entrano definitivamente nella Confederazione il Vallese, Ginevra e Neuchâtel, delineando sostanzialmente gli attuali confini.
La neutralità sarà ribadita in due altre occasioni: la fondamentale pace di Vestfalia del 1648 e la Seconda guerra mondiale. Persino l’adesione all’ONU, che pure a Ginevra ha la sua sede europea, è assai recente, nel 2002, così come la nuova Costituzione del 1999 «amplia le garanzie per i profughi ma ne limita la durata di accoglienza» (Aa. Vv., Svizzera, Touring Club Italiano, 2019, p. 38), smentendo il luogo comune di una Svizzera che accoglie per principio indiscriminatamente, cosa che non è mai accaduta e mai potrà accadere, pena la dissoluzione del delicato equilibrio sul quale politica, società e religione elvetiche si reggono.
Anche per queste scelte politiche, per i suoi confini naturali, per l’etica calvinista, la Svizzera è oggi «tra i paesi più ricchi e più solidi del mondo, nonostante la conformazione del territorio, poco adatto all’agricoltura, e la mancanza di risorse minerarie. La sua prosperità deriva soprattutto dalle scelte politiche: la neutralità l’ha resa una nazione stabile e finanziariamente sicura» (Ivi, p. 31). E anche per questo è uno dei luoghi più lindi e più corrotti del pianeta.

Al centro dell’Europa, dunque, della quale la Svizzera è una sintesi. Anche per questo va centellinata, gustata come un vino di qualità con le sue città gotiche, rinascimentali, barocche, neoclassiche, contemporanee; con le sue montagne ovunque; con i suoi magnifici laghi.
In tempi diversi ho visitato prima la Svizzera italiana, con una Lugano adagiata sul suo lago e fatta di viuzze antiche; con Bellinzona e il suo castello a dominare valle, case, cielo.
Poi ho incontrato Nietzsche nel Cantone dei Grigioni a Sils-Maria, dove si trova la casa (ora museo) nella quale il filosofo trascorse le sue estati dal 1881 al 1888 e sulle rive del cui lago – di Silvaplana – concepì la filosofia di Zarathustra. Dei Grigioni è celebre Sankt Moritz. Dopo averla visitata anni fa in estate, e averla vista dunque nel pieno del suo verde, ho rivisto  lo scorso dicembre la linda (e costosissima) località mondana immersa in un bianco totale, con il suo piccolo lago ghiacciato e il suo paesaggio alpino interamente innevato.

Sankt-Moritz. Museum Engiadinais

Ho anche visitato la Schiefer Turm, una torre pendente che è quanto rimane di una chiesa antica; la chiesa protestante del 1787, adibita in gran parte a sala da concerti; il Museum Engiadinais, una ricca dimora che racconta con il calore del legno di pino e l’onnipresenza delle stufe in ceramica i modi di vivere, nutrirsi, dormire delle comunità dell’Engadina.

Ginevra. Il lago con il Jet d’eau

Un Cantone e una città che della Svizzera rappresenta una sintesi è Ginevra/Genéve, che ho visitato negli ultimi giorni del 2023. Dal lago sul quale venne edificato il nucleo conquistato da Cesare, si alza dal 1891 il Jet d’eau, una potente torre d’acqua che raggiunge i 140 metri e che è visibile da tutta la città. Ginevra si estende in ampi boulevards che sulla rive gauche del Rodano diventano il nucleo medioevale nel quale (al numero 40 della Grand-Rue) il 28 giugno 1712 nacque Jean-Jacques Rousseau. Un tessuto di viuzze medioevali-settecentesche conduce da questa strada alla Cattedrale di St-Pierre.

Ginevra. Cattedrale di St.Pierre

L’antica chiesa gotico-cattolica divenne il tempio della città stato teocratica governata da Giovanni Calvino. L’edificio è da allora spoglio di qualunque immagine, icona, statua. E questo lascia trasparire la bellezza e armonia della sua architettura. Anche l’abside è vuota. Un tavolo ovale in cima alla navata principale ospita un leggio con una copia aperta della Bibbia. Lì accanto si trova la sedia sulla quale Calvino interpretava il testo sacro e consolidava la riforma luterana.

Ginevra. Cattedra di Calvino

Il cattolicesimo è sparito da Ginevra, sostituito anche oggi da numerosi ‘templi’ delle tante chiese protestanti, non solo calviniste, che ho trovato tutte rigorosamente chiuse, con avvisi relativi ai momenti di lettura biblica non più frequenti di una volta alla settimana, con i nomi e a volte le foto di sorridenti signore bionde, alcune vestite con paramenti sacri, che sono le parroche e le arcivescove delle diverse sette. Luoghi architettonicamente miseri e, appunto, sempre chiusi.
Se Nietzsche ebbe ragione ad accusare «il monaco fatale», Lutero, di aver fatto risorgere in Europa il cristianesimo che stava morendo nella potente, ricca, corrotta Roma dei papi, l’eterogenesi dei fini ha tuttavia condotto, certamente a Ginevra e ovunque nell’Europa protestante, al tramonto della fede cristiana. Nel loro fanatismo biblico, infatti, Lutero, Calvino e gli altri padri della Riforma (raffigurati in forme grandiose nel Monument de la Réformation – il cui motto è «Post tenebras Lux» – che costeggia la promenades des Bastions [immagine di apertura]) pensavano che affrancati dalle ‘distrazioni’ artistiche e dai sacramenti, i cristiani potessero rivolgere tutta la loro cura alla fede che lo Spirito Santo avrebbe soffiato nelle loro interiorità. Ma un simile ascetismo capace di fare a meno dei simboli, delle icone, dei santi, delle statue, delle immagini, può valere soltanto per i filosofi, per gli studiosi, per coloro che sono ricchi di una vita interiore. La più parte degli esseri umani, e dunque dei fedeli cristiani, ha bisogno invece di immagini alle quali rivolgersi, di statue della Madonna da invocare come le antiche divinità mediterranee, di icone da venerare e davanti alle quali piangere (come accade durante le grandi feste cattolico-pagane). Se privata di tutto questo, la fede cristiana muore. E infatti a Ginevra è morta.
Dal lato opposto rispetto al Monumento alla Riforma si trova la sede centrale dell’Università ginevrina. Ho visitato la Biblioteca, aperta anche durante le feste dalle 10 alle 22, a scaffali aperti, linda e accogliente.
Tornando al luogo/cattedrale, sotto il tempio si estende una zona archeologica molto vasta che documenta il progressivo formarsi della città, mentre sopra il tempio una vorticosa salita di centinaia di gradini conduce alle due torri, dalle quali si apre il magnifico panorama sull’intera Ginevra,tra i cui musei ho visitato naturalmente il Patek Philippe Museum, un luogo che conserva migliaia di orologi fabbricati dal Settecento a oggi, molti dei quali di un’impressionante bellezza . Qui ne mostro soltanto due, il primo raffigura il dio del tempo [a sinistra], il secondo è uno dei più complessi orologi fabbricati a mano, un vero e proprio osservatorio astronomico in miniatura [a destra].

 

 

 

 

 

 

Ho poi visitato il Musée d’Art et d’Histoire che ospita opere dal Paleolitico al Novecento. La sezione più interessante è quella archeologica con opere provenienti dall’antico Egitto, dalla Grecia cicladica e classica, dall’epoca romana. Qui sotto tre teste di divinità: Ade, Serapide e Asclepio .
Il Musée d’Etnographie è stato rinnovato nel 2014 e da allora la sua sede è un edificio che ha la forma di una capanna di vetro e cemento aperta alla luce. Al suo interno si trovano alcune testimonianze di cultura materiale veramente uniche, provenienti da tutti i Continenti e che nel loro splendore estetico e simbolico confermano ancora una volta come le società umane e i loro membri abbiano bisogno di toccare il sacro per cercare di dare un significato cosmico alle loro vite, un significato che le affranchi da ciò che Hegel chiamava  il  «travaglio del negativo» e la «furia del dissolvimento».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Saggezza antropologica che ancora una volta il protestantesimo ignora, facendo di Ginevra una città calvinista, antropologicamente fredda, elegante e distante.

Il treno che mi ha riportato a Milano alla stazione di confine di Brig/Brigue/Briga (subito prima della galleria del Sempione) si è riempito di centinaia di persone raccolte in tribù familiari che sono salite senza aver prenotato il posto e con bagagli da trasferta definitiva. Né prima né dopo questa fermata ho visto un solo controllore chiedere passaporto o carta d’identità (la Svizzera formalmente non appartiene all’Unione Europea) e neppure il biglietto. Nessun controllo di alcun genere in un treno (svizzero!) ridotto a un vagone merci. Contrariamente a quanto la propaganda globalista e universalista dei telegiornali (italiani ma non solo) va raccontando in modo ossessivo e fasullo, basta viaggiare un poco per capire come sia sufficiente arrivare in qualunque modo sul territorio europeo per transitare senza particolari difficoltà in tutto il Continente. L’Europa è diventata terra di nessuno anche perché è diventata una colonia culturale e politica. Le sue città, compresa Ginevra, conservano ancora le testimonianze della storia d’Europa, mentre la sua popolazione va diventando inesorabilmente asiatica, sudamericana, africana (anche a Ginevra).
Una civiltà che non sa e non vuole più difendersi merita di dissolversi. La storia d’Europa è tuttavia intrisa di pensiero e colma di bellezza, come anche la Svizzera ancora testimonia.

Ginevra. Notturno da un ponte sul Rodano

[Le foto sono state scattate da me; cliccando su ciascuna di esse l’immagine si aprirà nella sua dimensione originale]

Vicoli e capitali

Ci sono dei luoghi che rappresentano una sintesi, un’epitome, un simbolo, un’antologia.
Il complesso di chiese, chiostri e monastero di Sant’Anna dei Lombardi a Napoli è uno di questi luoghi. L’ho visitato in occasione della presentazione di Chronos alla Federico II. Vi sono arrivato attraversando i vicoli e le piazze (vivacissima Piazza Dante) dei Quartieri Spagnoli, vero cuore della città, antico e del tutto contemporaneo. Li abita un’umanità variegata, dal linguaggio e dai costumi immutati nei secoli; un’umanità creativa e teppista, che lascia le automobili negli angoli più impensati, compreso il centro delle strade; un’umanità rassegnata e vibrante.
Su una piccola altura preceduta da una fontana, Monteoliveto, sta una chiesa che è quanto rimane di un antico monastero dei monaci olivetani. La facciata è sobriamente rinascimentale, l’interno coniuga il Rinascimento con il proliferare del Barocco, con il suo tripudio di forme, colori, ornamenti, putti, folle, estasi.
Il tesoro di questo luogo è la Sagrestia affrescata da Giorgio Vasari nel 1544-1545. In basso le tarsie lignee di Giovanni da Verona, in alto una vera e propria cosmologia che raffigura le costellazioni, le virtù e gli archetipi della Religione, dell’Eternità e della Fede [immagine di apertura].
La Sagrestia è preceduta da una cappella con l’insieme di terracotta del Compianto del Cristo morto scolpito da Guido Mazzoni nel 1492. Le statue a grandezza naturale esprimono la forza del dolore umano, la disperazione dell’irreparabile, l’amore e il rimpianto per chi più non è, una vera e propria lacerazione dell’esserci.


L’insieme dei luoghi, delle cappelle, delle opere di Monteoliveto conferma il dato antropologico della inseparabilità di mito, bellezza e tragedia che intrama tutte le forme religiose autentiche, di qualunque luogo e civiltà. Il cattolicesimo rappresenta uno degli esempi più compiuti di questo plesso di significati e di vita, una ricchezza che deve alla sua continuità con la civiltà del paganesimo mediterraneo. Osservata da questa prospettiva, la Riforma luterano-calvinista non è neppure una religione ma è un’ideologia politico-moralistica. Persino l’Islam, nonostante il divieto di raffigurare forme umane e animali, ha trovato la strada di espressioni artistiche che non descrivono persone ma costruiscono geometrie di grande eleganza. Nulla di tutto questo nell’ebraismo, che è figurativamente miserrimo e con il quale il cristianesimo riformato volle porsi in continuità nonostante l’accesso antisemitismo di Martin Lutero.
Ancora una volta e a ogni viaggio Napoli si conferma una città dalla scoperta infinita, città potente, viva e dai connotati antropologici che ne fanno la vera capitale d’Italia. 

Cristianesimo, tempo, sacralità

Alain de Benoist – Thomas Molnar
L’eclisse del sacro
(L’éclipse du sacré, La Table Ronde 1986)
Traduzione e saggio introduttivo di Giuseppe Del Ninno
Edizioni Settecolori, 1992
Pagine XVIII-225

Questo confronto tra un cattolico ultratradizionalista e un intellettuale senza dogmi risulta emblematico e straniante. Emblematico della incommensurabilità tra una prospettiva aperta all’intero e al molteplice, come quella di de Benoist, e una invece rigidamente chiusa in un recinto di sicurezza e di grettezza, in un confine tranquillo e assai delimitato. Straniante per l’evidente differenza di livello in cui si pongono i due discorsi.
Thomas Molnar vede nel cattolicesimo il baluardo contro ogni male. Ma non il cattolicesimo come di fatto è  oggi bensì un cattolicesimo rimpianto. Molnar si pronuncia infatti in modo deciso contro la Chiesa conciliare e contro Paolo VI, «impegnat[i] in un processo di autodistruzione» (p. 29) e in una vera e propria «campagna di oppressione nei confronti dei credenti» (43). Di tale autodistruzione è parte la riduzione della Chiesa cattolica a un’agenzia filantropica e sociale, come è già accaduto alle chiese protestanti, i cui luoghi di culto sono infatti vuoti. E questo è vero. Meno accettabile, anche se del tutto coerente, è l’esplicito rifiuto delle libertà in nome della verità, poiché secondo Molnar «vi sono interessi che non sono in concorrenza con altri, ma li schiacciano, in nome del pluralismo. E per essi non c’è posto in una società ben ordinata» (79-80). Il grande nemico ripetutamente indicato da Molnar è lo Gnosticismo, come è sempre stato per la Grande Chiesa.

C’è un solo elemento nel quale le opinioni dei due interlocutori sembrano concordare: il riconoscimento che il cristianesimo sta all’origine della desacralizzazione. «Il cristianesimo, dovunque penetri – e in primo luogo nel mondo greco-romano – procede ad uno svuotamento (e de-mitizzazione) del cosmo panteista, pagano» (21) scrive Molnar. E de Benoist conferma: «La scomparsa del sacro va messa direttamente in rapporto con l’espandersi di una religione giudeo-cristiana caratterizzata dall’identificazione dell’essere con Dio, dalla dissociazione dell’essere dal mondo e dal ruolo particolare assegnato alla ragione» (115).
Per il resto le posizioni risultano inconciliabili per la fondamentale ragione che i due autori partono da concezioni del sacro assai diverse tra di loro. Per de Benoist lo statuto del sacro è da distinguere con molta cura rispetto a quello della religione: «Se, in effetti, ogni religione implica il sacro (ma non un dio), non è vero il contrario. Divino e sacro, sacro e religioso non sono sinonimi» (87). Gli dèi, il divino, abitano dentro il sacro  poiché gli dèi e il divino abitano dentro il mondo, sono una sua parte. Non si dà quindi né un’illogica creazione dal nulla (nihil ex nihilo) né un dualismo ontologico tra il cosmo e il divino. Dualismo che invece è la vera cifra del monoteismo biblico, il quale si origina e si conclude nella separazione assoluta tra un’entità che crea e un’entità che viene creata. Essendo il cosmo creato, esso non ha nulla di sacro.
È da qui che si genera la visione del mondo ebraica e cristiana, da questa natura totalmente altra del divino che, proprio per non svanire nella distanza e nell’insignificanza, ha poi bisogno di postulare un ulteriore elemento che per le civiltà politeistiche risulta bizzarro: il diventare ‘perfettamente uomo’ di qualcosa che all’origine è ‘perfettamente dio’. Soltanto dove umano e divino vengono pensati come inconciliabili può essere poi postulato un dogma come l’incarnazione. Dove invece umano e divino sono parte di un insieme che li (r)accoglie senza confonderli né separarli, un simile postulato non può nascere, non ha ragione di nascere.

Il politeismo tiene uniti identità e differenza. Il monoteismo elimina la differenza a favore di un’identità rigida e insieme contraddittoria, nella quale l’elemento umano è nello stesso tempo del tutto diverso rispetto al divino e superiore a ogni altro nell’ambito mondano. Segnale efficace e pervasivo di tale struttura è la centralità di due diversi strumenti percettivi, di due differenti sensi. Il monoteismo ebraico privilegia l’udito, il politeismo greco privilegia il vedere. E questo significa che «la vista fa posare lo sguardo sullo spettacolo del mondo, dove l’unità si lascia cogliere soltanto come riunificazione di una pluralità sempre cangiante. L’udito rinvia più direttamente all’invisibile, ponendo, al di fuori di ogni mediazione, all’ascolto di una parola che si pretende unica» (120-121).
Identità escludente, antropocentrismo, desacralizzazione e devastazione costituiscono dunque un solo processo poiché «essendo desacralizzato, [il mondo] diventa oggetto inanimato, materia integralmente assumibile e praticabile da parte dell’uomo» (131). Ulteriore conseguenza di un radicale antropocentrismo è la riduzione dell’elemento cosmico a quello etico, la superfetazione della morale. Questa moralizzazione dell’intero priva la vita della sua innocenza, della sua lievità, in quanto «la serenità (Gelassenheit) che gli derivava dal sentimento di un’appartenenza all’essere che si dispiegava nella sua pienezza è svanita. La credenza in un ‘altro mondo’ bisogna ormai pagarla al prezzo della propria colpevolezza» (132).
Rispetto a tali pericoli, la filosofia di Martin Heidegger costituisce anche la rimemorazione di ciò che è invece possibile pensare e conseguire se si evita di privilegiare una parte, compreso il dio, rispetto all’intero, con cui coincide il sacro. La ‘differenza ontologica’ appare in questa luce come la possibilità di «pensare l’essere dell’ente nella sua differenza dall’ente: compito fondamentale di un pensiero fedele che, nel suo stesso disegno, si ordina necessariamente intorno alla coscienza di quel che è il sacro» (113).

Dal sacro riceve luce lo statuto del tempo e, viceversa, la temporalità permette di avere rispetto della sacralità di un mondo che è sempre diveniente/diverso e sempre costante/identico. La ciclicità ‘pagana’ non vuol dire infatti immutabilità o irrilevanza del tempo ma, al contrario, è una conferma della sua centralità. Il tempo ciclico, infatti, «non è sterile ripetizione, ma regolare ridispiegamento degli esseri e delle cose» (103); l’eterno ritorno non rende sacro l’immutabile ma afferma invece la possibilità di ogni forma del mutamento e del movimento, compresa la forma del ritorno. Tutto infatti può tornare nel preciso senso che «risalire alle origini significa riaffermare la possibilità di un nuovo inizio» (224).
Il fondamento e la spiegazione di tali dinamiche di identità/differenza stanno nel fatto che «al principio del tempo storico vi è la differenza ontologica fra l’essere e l’ente; tale differenza è l’Evento (Ereignis) che instaura tutta la storia. In tal modo, il principio storico viene introdotto nel cuore dell’ontologia. […] Il tempo è il senso dell’essere. L’essere diviene storicamente» (204-205).
L’oblio dell’essere è esattamente l’oblio della sua temporalità, della struttura che raccoglie l’ora, il già e il non ancora nella pienezza del divenire che è anche il divenire che splende adesso e che sempre ritorna, il καιρός.

Pascal

Blaise Pascal
Le Provinciali
(Les Provinciales, gennaio 1656-marzo 1657)
Introduzione e traduzione di Giulio Preti
Einaudi 1983
«NUE, 183»
Pagine XXIII-259

L’uso sapiente delle metafore, dell’ironia, dell’invettiva e di ogni sapienza stilistica fa di queste pagine un fluire scintillante di immagini, l’elegantissimo e insieme appassionato discorrere di un dotto. Ma solo comprendendo le ambiguità e il conflitto che albergano in questo libro famoso si può davvero apprezzare l’efficacia del pensare pascaliano.
Le contraddizioni fra l’adesione alla Chiesa Romana e la critica alle sue debolezze, tra lo scetticismo e il fanatismo, fra un’estrema serietà e una costante ironia, convergono e si annullano nel rigore del Sacro di cui Le Provinciali sono intessute. «Sant’Agostino, il più grande dei Padri» (lettera II, pag. 19) ritorna ad affrontare e a sconfiggere Pelagio e la sua idea che «un peccatore potrebbe rendersi degno dell’assoluzione senza nessuna grazia soprannaturale. Ora, non c’è nessuno che non sappia che questa è un’eresia condannata dal Concilio» (let. X, p. 114). È il pelagianesimo dei Gesuiti e del loro teologo Luis de Molina a indurre Pascal a inviare queste lettere ai responsabili della Compagnia di Gesù (pelagianesimo, tra parentesi, al quale sembra molto indulgere l’attuale Pontefice Romano, non a caso un gesuita).
Pascal è del tutto consapevole delle ragioni dei Gesuiti, del loro obiettivo ultimo: non respingere nessuno, offrire a chiunque un mezzo per salvarsi, stemperando il rigore dell’etica evangelica. La lucidità antropologica di Pascal si scontra tuttavia contro questo umanesimo e attribuisce a Dio una severità priva di incertezze:

Infatti, non vediamo che Dio insieme odia e disprezza i peccatori, fino al punto che anche nel momento della loro morte, che è il momento in cui il loro stato è più deplorevole e più triste, la saggezza divina unirà la canzonatura e il riso alla vendetta e al furore che li condannerà ai supplizi eterni? (let. XI, p. 120).

Questa radicalità di Agostino e di Pascal è stata di fatto respinta dalla Chiesa Romana in molte fasi della sua storia, certamente lo è in quella attuale nella quale la dottrina e la prassi delle gerarchie e di molti fedeli mettono in discussione gli stessi fondamenti della fede cattolica. In effetti è Molina ad aver vinto, sono i Gesuiti a continuare a vincere contro Pascal.
Al di fuori dell’ambito legato direttamente alla fede, Pascal è anche altro: su questioni di fatto e su ogni argomento non strettamente dogmatico, egli ritiene necessario non quasi ex autoritate praecipere, sed ex ratione persuadere (let. XVIII, p. 247). Il filosofo distingue nettamente i sensi, la ragione e la fede, assegnando a ciascuna di queste facoltà un proprio non valicabile ambito. Lo scienziato cita ironicamente il caso Galileo, in quanto non sarà un decreto «che proverà che la terra sta ferma» (ivi, p. 251).
La modernità di Pascal è ancora più profonda. È la convinzione illuministica e nietzscheana del valore del singolo rispetto alle masse, del potere degli illuminati sulla canaglia, del significato non democratico che inerisce alla verità quando è tale.
Una psicologia del peccatore in quanto «bambino-viziato» avvicina Pascal a Ortega y Gasset; l’analisi sociologica della massa fa pensare a una versione moralistica di Elias Canetti; il disprezzo verso tutto ciò che è umano, troppo umano, spiega la costante ammirazione di Nietzsche verso questo libro e il suo autore.

Paramenti

L’assoluzione
(True Confessions)
di Ulu Grosbard
USA, 1981
Con: Robert Duvall (Tom Spellacy), Robert De Niro (Des Spellacy), Charles Durning (Jack Amsterdam), Cyril Cusack (Il cardinale Danaher), Rose Gregorio (Brenda Samuels)
Trailer del film

I riti, i paramenti, gli abiti talari, il latino della Chiesa cattolica nella Los Angeles del 1948 costituiscono la sostanza di questo thriller religioso, nel quale Des Spellacy – giovane e abile monsignore di origine irlandese – sta facendo una veloce carriera e il suo più anziano fratello poliziotto Tom indaga sul male nelle versioni più truci. In questo caso si tratta di una prostituta ventiduenne trovata tagliata in due sulle colline della città. Tom, il poliziotto disincantato ma non toccato dalla corruzione della polizia, va sino in fondo nell’indagine, dalla quale emerge il coinvolgimento nel delitto di un ricco imprenditore edile che da tempo finanzia le opere pie dell’arcidiocesi. Il fratello monsignore sa che ne verrà toccato per i rapporti di interesse che ha con l’uomo d’affari. Rapporti dai quali non trae personalmente alcun guadagno e che intrattiene «per il bene della Chiesa». Il convergere dell’inchiesta di Tom e della volontà del sacerdote di liberare la comunità dall’ambiguo dominio finanziario porteranno a una svolta nelle vite di tutti.
La gloria del cattolicesimo è la sua forma, poiché «la Chiesa è tutta una bellezza» (Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, Einaudi 1979, p. 103). La bellezza potente dei papi rinascimentali, la bellezza linguistica del latino, l’eleganza degli abiti che trasformano un qualsiasi umano in un tramite del Sacro. Pensare a un Pontefice in giacca e cravatta significa avere l’immagine del tramonto della «grande Chiesa», la sua riduzione al livello di uno dei tanti e tristi gruppuscoli protestanti.
Tolto infatti da questo film lo splendore dei luoghi e delle liturgie religiose, rimane soltanto il male.
True Confessions – questo il più corretto titolo originale – sembra una sorta di dilatazione malinconica e più sobria della cerimonia del battesimo del Padrino, nella quale Michele Corleone fa da padrino al figlio di sua sorella, dichiarando che «rinuncia a Satana e alle sue opere» proprio mentre i suoi uomini uccidono uno a uno e in luoghi diversi i capi delle altre famiglie mafiose.
Il titolo italiano, L’assoluzione, è comunque anch’esso indicativo, esprimendo un altro degli elementi di potenza del cattolicesimo romano, ben sintetizzato dall’ironica teologia dei siciliani: «Cu futti futti, Dio peddona a tutti».

Gloria

Hans Urs Von Balthasar
Gloria. Un’estetica teologica
Volume IV: Nello spazio della metafisica. L’antichità
(Herrlichkeit. Im Raum der Metaphysik. I Altertum, 1965)
Trad. di Guido Sommavilla
Jaca Book, 2017
Pagine 379

La Herrlichkeit, la gloria, «non si può definire» (p. 19). Così comincia il percorso di Hans Urs von Balthasar nello spazio della metafisica antica, da Omero a Tommaso d’Aquino. Eppure lungo l’itinerario le definizioni della gloria si moltiplicano, partendo sempre e pervenendo ogni volta ai trascendentali, vale a dire alle proprietà dell’essere che lo coinvolgono e lo definiscono nella sua totalità, essendo sempre in reciproca relazione, non delimitandosi a vicenda ma costituendo l’uno con l’altro l’universale che traspare in ogni ente, evento, processo e proprietà particolare, dandogli significato, esistenza e luce. Sono quattro gli universali così intesi dalla Scolastica sul fondamento della filosofia greca: l’uno, il vero, il bene, il bello.

Prima che nel XVIII secolo, con Baumgarten e Kant, l’estetica venisse ricondotta e ridotta «a una scienza  regionalmente delimitata, essa era – vista nel complesso della tradizione – un aspetto della metafisica in quanto scienza dell’essere dell’ente» (26), il quale a sua volta rinvia all’assoluto, che per il pensiero cristiano è Dio. Il tentativo del teologo svizzero è difendere dunque il bello come sostanza ed espressione del divino cristiano filosoficamente inteso: «Come ultimo trascendentale il bello custodisce e sigilla gli altri: nulla di vero e di buono alla lunga senza la graziosa luce di quello che viene donato senza uno scopo» (42).
A questo fine, l’indagine assume un andamento che attraversa lo spazio storico  – come detto, dai Greci al culmine della Scolastica – poiché soltanto se implementato in un particolare l’universale è reale, e attraversa lo spazio metafisico, poiché soltanto se hanno le loro radici nell’essere gli enti ed eventi particolari possiedono senso e sostanza.
Il ‘Dio’ di von Balthasar è dunque una forma prima di tutto estetica, è un’esperienza artistica dalla quale soltanto può irradiarsi la gloria. Il percorso è lo stesso di ogni avvertita e colta teologia cristiana: un consapevole, dotto ma anche disperato tentativo di ancorarsi ai Greci, vedendo in loro una continuità germinale e fondante con il cristianesimo. A questo scopo l’autore respinge ogni volontà di voler ‘depurare’ la fede cristiana dalla filosofia e dal mito, ogni pretesa di « voler essere più biblici della bibbia e più cristiani di Cristo» (224), poiché, in questo modo, del cristianesimo non rimarrebbe quasi nulla, soltanto cascami settari, fanatici, semplicemente e soltanto filantropici. Una domanda posta a proposito di Giovanni Eriugena vale per tutto il libro, vale per l’intera sua estetica teologica: «Tutto questo è biblicamente tollerabile, oppure qui l’antica forma filosofica di pensiero ha trionfato definitivamente sui contenuti biblici?» (316). Interrogativo ammirevole nella sua sincera chiarezza, tanto più che von Balthasar ammette che «visto nel complesso il cristianesimo ha pensato se stesso soprattutto con categorie straniere» (291), vale a dire con le categorie dei Greci.

Per comprendere la portata e il fallimento del tentativo, ricordiamo che questo teologo – nato nel 1905 e morto nel 1988, due giorni prima di ricevere la porpora cardinalizia – è stato uno degli uomini più colti del Novecento, che ha ben compreso come il cristianesimo possa continuare a vivere soltanto in un dialogo reale con il proprio tempo, basato però non sulla sua trasformazione in un’agenzia filantropica (cosa che appunto lo sta facendo morire) ma continuando il dialogo  con la cultura greca e romana, che per il cristianesimo è costitutivo e fondante. Egli costruisce però tale dialogo da gesuita (fu membro dell’Ordine sino al 1956), dando sempre l’impressione che sia il cristianesimo a gettare luce sulla filosofia, quando è accaduto e continua ad accadere esattamente il contrario. Leggendo questa e altre sue opere appare infatti evidente che la persona del Nazareno non c’entra nulla con la teologia cristiana.
Il fondamentale tentativo di ancorare la fede cristiana nel linguaggio teoretico e mitologico dei Greci e dei Romani (soprattutto Virgilio e il neoplatonismo) spiega anche la lettura tendenzialmente monoteistica, e dunque arbitraria, che von Balthasar attua di Omero: «In nessun poema della letteratura mondiale Dio viene pensato in modo così incessante ad ogni situazione della vita» (52, il corsivo è mio). E tuttavia il teologo è capace di leggere Omero con una profondità, finezza ed empatia straordinarie. Al poeta greco «fu accordato […] il dono della bellezza per tempi illimitati» (69); «con Omero fu deposta nella culla dell’occidente» una «‘inconcepibile grazia e bellezza’» (75). Questa capacità di sentire i Greci – Omero ma anche i tragici, i lirici, i filosofi- conduce von Balthasar ad ammettere che il Prometeo di Eschilo si rivolge alle potenze della materia, ben oltre i nomi degli dèi antropomorfici «rivolgendosi non agli dèi che gli hanno inflitto il tormento, ma alle potenze cosmiche e più antiche (a quelle precisamente che per Hölderlin rappresentano il fondo primordiale di ogni divino poi formato e definito): al santo Etere, al Vento spirante, alle Sorgenti e all’ondoso Mare, alla Terra Madre di tutti i viventi e al Sole che illumina ogni cosa» (109-110, il riferimento è a Prom. Vv. 88-91), ad ammettere quindi che il ‘Dio’ greco è il cosmo, è la materiatempo.

L’ammissione diventa piena e teoretica nelle indagini su Platone, Aristotele, i neoplatonici, per i quali tutti il dio, la perfezione, la bellezza, la gloria è costituita dal cosmo, dalla materia infinita e perfetta dei cieli. Andando quindi ben al di là dell’effimero umano, della sua patetica presunzione di stare al centro quando invece l’umano è semplice periferia.
In Plotino la vista del cielo conferma la divinità del mondo, così come «Aristotele vede nell’ordine celeste immediatamente rivelarsi il divino» (206) e prima ancora l’Epinomide platonico pone al centro dell’essere la «gloria dell’ordine astrale» (196). Tutto il Timeo, poi, costituisce la bella, significativa e ultima soluzione platonica al male dell’umanità e della vita: andare μετά, oltre, e guardare gli astri, il cosmo, il loro essere immuni da ogni imperfezione, lamento e dolore. Per lo sguardo di Platone «l’anima singola, per restaurare equilibri (ἰσορρόπο) perturbati tra se stessa e il corpo o in se stessa, non ha bisogno che di guardare al cosmo, che è sempre in perfetto divino equilibrio, per avere un modello da imitare» (194).
Anche se il cristiano von Balthasar vede nella «grande vendetta come la compiono Ecuba, Medea e alla fine un’altra volta Elettra ed Oreste […] suoni di paganesimo selvaggio» (132), il teologo von Balthasar sa bene che anche questa vendetta si radica nella potenza teoretica dei Greci ed è anch’essa espressione del carisma proprio del maggiore tra i filosofi cristiani dopo Agostino. Tommaso d’Aquino scrive infatti (nel De Malo, 4, 2 obj 17) che la «maxima pulchritudo humanae naturae consistit in splendore scientiae» (361).
Su tale splendore aleggia ovunque la potenza del tempo «che copre tutto ciò che è svelato e svela tutto ciò che è nascosto» (118), tempo la cui «ardente pienezza mitica, la qualità della gloria, può essere paragonata soltanto con la qualità sacramentale che la assume e la supera» (102). Su tale splendore si innesta ἀλήθεια, la quale «significa appunto lo stesso che: realtà come essa è» (159). Su tale splendore domina la gloria del divenire, la materia-luce che per i teologi di Chartres è «tra le cose del mondo infraspirituale, la cosa massimamente simile allo spirito, anzi a Dio» (334), la materialuce che è Dio.

Tragedia

L’ombra di Caravaggio
di Michele Placido
Italia, 2022
Con: Riccardo Scamarcio (Caravaggio), Louis Carrel (L’inquisitore), Maurizio Donadoni (Paolo V), Isabelle Huppert (Costanza Sforza Colonna), Lolita Chammah (Anna), Micaela Ramazzotti (Lena Antonietti), Michele Placido (Cardinale Del Monte)
Trailer del film

Tragedia è la costante tendenza dei corpi collettivi a imporre una ortodossia e una ortoprassi volte a comprimere, reprimere, controllare, sopire e troncare, troncare e sopire quanto la fantasia, l’intelligenza e la libertà costantemente generano dentro le collettività umane. La fantasia, l’intelligenza e la libertà che dentro tali collettività gli individui più dotati di talento sanno esprimere, inventare, difendere, generare, diffondere. La tendenza securitaria dei gruppi umani è invece quella di chiudersi dentro un recinto ben organizzato di verità e di valori che giudica inevitabilmente pericolosa ogni prospettiva che non si confà ai valori praticati e alle verità credute da gruppi, partiti, chiese e regimi di volta in volta diversi ma costanti nella loro tendenza a catturare e distruggere il pensare.
Michelangelo Merisi (1571-1610) fu una delle vittime di questa tendenza e però la sua arte e il suo talento furono così grandi da convincere parte del potere – in questo caso quello di famiglie e cardinali della Chiesa Romana – a proteggerlo e a finanziarne l’opera. Così come vittima fu negli stessi anni Giordano Bruno che in questo film viene fatto incontrare in carcere con Merisi in una delle scene comunque più deboli dell’opera.
Caravaggio e Bruno furono aggrediti e perseguitati in nome dei valori e delle verità della dottrina cristiana. Almeno però il fasto, lo scetticismo e il libertinismo di molti esponenti della Chiesa Romana garantivano il lavoro degli artisti e la sopravvivenza delle loro opere; cosa che oggi credo non accada più, visto che tale Chiesa è diventata sempre più moralizzata e moralistica. Peggio accadde in ambito protestante e luterano dove, almeno agli inizi, non era neppure possibile che sorgessero artisti e filosofi lontani dai valori e dalle verità bibliche alle quali si ispiravano il monaco agostiniano Lutero e il gelido teologo Calvino.

L’opera e il pensiero di tali custodi dell’etica cristiana continuarono nel massimo custode dell’etica egualitaria e uniforme dello stalinismo: Andrej Ždanov. Il quale fu intransigente persecutore di ogni pittore, musicista, letterato che si discostasse dalle regole del «realismo socialista», unica forma d’arte ammessa dal regime sovietico.
L’opera e il pensiero di tali custodi dell’etica cristiana e stalinista continua oggi negli intransigenti persecutori di ogni cittadino e intellettuale che critichi i valori uniformanti e conformisti del Politically Correct; della medicina ricondotta a braccio armato delle case farmaceutiche -come ha documentato Ivan Illich -; delle scienze ridotte a correnti di un’ortodossia e un’ortoprassi volte a perseguitare quanti in vari modi difendono la salute dei cittadini, l’abito scientifico, il buon senso, le nostre libertà.
Caravaggio non ebbe requie e pace da coloro che o con l’apparato dottrinale o con la violenza dei pugnali ripudiavano la metamorfosi che nei suoi capolavori accadeva di gente miserabile, mendicanti e prostitute in santi e madonne. Questo non era etico, come non è etico oggi utilizzare il maschile neutro per rivolgersi a un gruppo di persone o apprezzare il pensiero di David Hume e di Voltaire nonostante il primo accettasse la schiavitù e il secondo fosse antisemita. E sono soltanto due esempi di una tendenza che non lascia in pace niente della storia dell’Europa, tendenze nichilistiche quali la Cancel culture e l’ideologia Woke.

Il film di Michele Placido ha reso vivide ai miei occhi le conseguenze e le forme di ogni ondata di moralismo con la quale si intende cancellare fantasia, intelligenza e libertà in nome di un qualche valore supremo. Per questo l’ho apprezzato, per il suo costante intersecare «un immenso talento» (parole dell’inquisitore) con «tuttavia» il pericolo che l’arte di Caravaggio disvelasse al popolo la tragedia dell’esistere e l’inconsistenza delle promesse redentive.
Mi sembra che il regista e gli sceneggiatori facciano propria l’ipotesi di Vincenzo Pacelli e Tomaso Montanari secondo la quale l’artista lombardo non morì di febbri e infezione da piombo ma assassinato da emissari dei poteri a lui avversi. Al di là di vari elementi controversi della biografia, il film mostra in ogni caso l’inquietudine costante, il carattere difficile, il bisogno di libertà e il genio davvero sconfinato di Caravaggio, del quale qualche anno fa scrivevo questo:
«Da dove viene questa luce? Viene dalla sapienza delle mani febbrili nel lavorare e dipingere per poi ‘darsi al bel tempo’, come si diceva allora; viene da un carattere inquieto, votato allo svelamento e al possesso totale della vita; viene dalla dismisura di un uomo violento, permaloso, passionale, facile al pugnale; viene dalla forma, cercata negli anfratti più scuri dell’essere, quelli in cui si conserva l’eco della sapienza primordiale, del non dicibile ma raffigurabile; viene dall’ombra, perché anche quest’ombra è la filosofia».

L’immagine in alto riproduce La morte della Vergine, un capolavoro rifiutato dall’Ordine Carmelitano – che pure a Caravaggio lo aveva commissionato – e che oggi si trova al Louvre. La madre di Gesù ha le sembianze terree di un vero cadavere, non destinato a essere assunto in cielo, e sembra raffigurare con il suo ventre gonfio una donna incinta o almeno morta annegata nel Tevere. I valori della fede mariana non potevano accettare una simile sconcezza. Ma il dipinto è mirabile. Essere liberi, esserlo davvero dentro il cuore, significa difendere la bellezza, l’immaginazione, il pensare e la differenza da ogni cupo controllo dei valori morali, che si tratti di quelli del cristianesimo nella sua gloria o dei «diritti umani» i cui fanatici sostenitori sono pronti a privare di diritti i cittadini che non si conformano ai loro valori, alle loro credenze, alle loro interpretazioni del mondo, al loro bisogno di apparire «buoni e giusti».
Ecco, questa è la tragedia sempre presente nelle società umane. Tragedia pervasiva del nostro presente epidemico e politico. 

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