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Umanità

 

Tre notizie da Televideo Rai (19-20 marzo 2024), notizie tra le tante, notizie come sempre, notizie da millenni, notizie che mostrano e confermano con la chiarezza della sintesi che cosa l’umano sia, che cosa sia davvero.
L’umano è in gran parte – non del tutto, certo, ma appunto in gran parte – un grumo di profonda, istintiva, pura malvagità. L’umano è un animale non soltanto feroce ma di una ferocia anche sadica, vale a dire che gode, sinceramente gode, dei dolori che infligge e che vede. L’umano è un terrificante sterminatore di ogni altra specie animale; e infatti gli altri animali hanno ben imparato a guardarsi dall’essere umano: appena passiamo vicino a un gatto o a un cane randagio o a un uccello, questi subito si allontanano. L’umano è un’intelligenza posta in gran parte al servizio della guerra, della distruzione e della morte. L’umano, in sintesi, è non soltanto una nullità ontologica nel cosmo ma è anche un errore politico nella storia. L’umano è probabilmente una linea deviata e sbagliata dell’evoluzione animale, è un vicolo cieco.
L’umano è soprattutto la presunzione, l’arroganza e la ὕβρις di ritenersi, nonostante questa sua tenebrosa natura, «l’essere libero nel mondo della necessità, l’eterno taumaturgo, sia che agisca bene, sia che agisca male, la sorprendente eccezione, il super-animale, il quasi-Dio, il senso della creazione, il non pensabile come inesistente, la parola risolutiva dell’enigma cosmico, il grande dominatore della natura e dispregiatore di essa, l’essere che chiama la sua storia storia del mondo!» (Nietzsche, Umano, troppo umano II. Il viandante e la sua ombra, in «Opere», IV/3, af. 12, p. 141).
Le tre religioni del Libro – ebraismo, cristianesimo e islam – costituiscono l’espressione parossistica di tale pretesa. Esse ritengono che l’umano sia l’immagine di Dio e persino che Dio stesso sia diventato un uomo e sia stato torturato e ucciso per lui, un’idea francamente sconcertante. In sintesi, esse ritengono che l’essere umano sia un’espressione del sacro, pretesa che è una bestemmia e un sacrilegio. Ritenere entità sacre quelle che sono capaci di compiere azioni di gratuita, totale e inemendabile ferocia come quelle da cui sono partito e milioni di altre azioni analoghe delle quali la vicenda umana è costellata, ritenere davvero che i miliardi di essere umani transitati nella storia siano tutti figli di Dio e per questo sacri, è un’affermazione la cui tracotanza, narcisismo e stupidità appaiono palesi a ogni sguardo razionale, umilmente razionale, ontologicamente antropodecentrico.
In realtà alcuni, pochi, essere umani sono una luce per sé e per gli altri. La più parte costituisce una struttura ontologica miserabile e perduta. Questa è una delle verità della Gnosi, una tesi antropologica che mostra ogni giorno e ovunque la sua plausibilità.
È anche partendo da qui che uno gnostico contemporaneo ha potuto scrivere che la morale cristiana, e religiosa in genere, così come la morale kantiana sono in realtà un’immensa fatica «per non essere semplicemente, profondamente se stessi, cioè immondi, atroci, assurdi», una fatica volta a nascondere la radicale malvagità degli umani, la loro «sporca anima eroica e fannullona», una fatica volta a non capire «fino a qual punto gli uomini sono carogne», gli uomini, queste «bestie verticali» (Céline, Viaggio al termine della notte, Corbaccio 1995, pp. 459, 21, 33 e 159). Sono fatti, eventi e circostanze come quelli ricordati sopra, il cui numero è incalcolabile, a darne costante conferma.
L’umano è un orrore che l’intera storia della specie attesta e mostra. Due recenti testimonianze (tra le innumerevoli che sarebbe possibile addurre), sono un video di denuncia realizzato dalla LAV – Lega Antivivisezione  che documenta l’inaudita crudeltà di due esseri umani contro un gregge di pecore e una come sempre pacata e implacabile riflessione di David Benatar dal titolo Un argomento misantropico per l’antinatalismo (testo pubblicato sul numero 29 di Vita pensata).
Ripeto: che una religione o un’etica possano definire i membri di una specie siffatta come tutti sacri o perché figli di un Dio o in quanto semplicemente esseri umani, è qualcosa che a uno sguardo disincantato e razionale appare non soltanto privo di ogni fondamento ma anche perverso. 

Genitori Genitoque

Inexorable
di Fabrice Du Welz
Belgio-Francia, 2021
Con: Benoît Poelvoorde (Marcel Bellmer), Alba Gaïa Bellugi (Gloria), Mélanie Doutey (Jeanne), Janaina Halloy (Lucie), Anaël Snoek (Paola)
Trailer del film

Marcel Bellmer, uno scrittore esemplato sul Jack Torrance di Shining, si trasferisce in cerca di ispirazione nella grande villa di proprietà della moglie, la quale è anche figlia dell’editore che ha pubblicato il romanzo che a Bellmer ha dato successo e fama, dal titolo Inexorable. E tuttavia la serenità, il silenzio, l’affetto della moglie e della loro bambina non aiutano Bellmer, anche perché – come si scoprirà – il romanzo non era stato per intero frutto del suo talento. Ma tutto comincia a deflagrare quando nella magione si presenta quasi per caso una giovane che appare timida e remissiva e che incontra subito l’amicizia, quasi la sorellanza, della figlia dei Bellmer, Lucie. Gloria, così si chiama, occuperà a poco a poco ogni anfratto e ogni istante della vita di questa famiglia, con la quale ha legami profondi, forse soltanto letterari o forse anche di sangue.
L’ambizione è alta: costruire un thriller psicologico e carnale che afferri a ogni istante lo spettatore. I mezzi sono banali, consistendo in molti degli strumenti e ‘trucchi’ di ripresa noti da decenni nel cinema e quindi piuttosto prevedibili. La struttura è molteplice: la continuità tra letteratura e vita; la dialettica triadica tra dimora, bosco, paese; l’enigma della follia; il dilagare della violenza; l’imprevedibilità di alcuni momenti, come – nel finale – la danza Death Metal di una inquietante Lucie alla festa del suo compleanno.

Accompagnato in quasi ogni scena dalle note del Cum dederit di Antonio Vivaldi, uno dei nuclei dell’opera, quello per me più interessante di fronte ai risultati nel complesso modesti del film, è la dimensione genitoriale che mi sembra costituire il vero tema, quello che lo attraversa e lo intriga, che si palesa con espressioni e appellativi molto molto chiari (di più non posso dire). E allora chiediamoci con franchezza: che tipo di gesto è il mettere al mondo altri umani, altri viventi?
Le possibili risposte sono numerose e a una disamina risulterebbero inadeguate, frutto di inevitabili impulsi naturali e di costruzioni culturali, di fortissimo condizionamento sociale e di radicato egoismo nell’avere davanti a sé una creatura da noi generata e che da noi in tutto e per tutto dipenda, vale a dire una forma esplicita del desiderio di autorità. Quando, naturalmente, il generare non si riduca al «bastone della mia vecchiaia», al pagamento delle pensioni, al «numero che è potenza». O al più comprensibile bisogno di non morire del tutto, di lasciare che qualcosa del nostro DNA dopo di noi rimanga. (Su queste motivazioni rinvio a Antinatalismo. Storia e significato di una filosofia radicale, -con Sarah Dierna- in Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre-dicembre 2023).
E tuttavia di fronte a questi balbettamenti dell’ego individuale e di quello collettivo, un dato di fatto che tutti constatiamo vivendo, anche se ne traiamo conclusioni diverse, e che viene rafforzato da ogni oggettiva fenomenologia dell’esistenza è che «exister n’est ainsi rien d’autre qu’errer dans une forêt de craintes où la question n’est jamais de savoir si le Mal nous atteindra, mais seulement quand et sous quelle forme il fera de nous sa proie terrifiée», ‘esistere non è altro che errare dentro una foresta di paure e terrori, dove la domanda non è mai se il Male ci afferrerà ma soltanto quando e sotto quale forma farà di noi delle prede    atterrite’ (Théophile de Giraud, L’art de guillotiner les procréateurs. Manifeste anti-nataliste, Le Mort-Qui-Trompe, Nancy 2006, p. 23).
Anche a partire da tale consapevolezza dell’assoluta inevitabilità del soffrire una volta che si è nati, di fronte alla certezza del dolore, spesso di un immenso dolore, che attende il neonato, una sincera preoccupazione per il suo benessere indurrebbe a evitare di metterlo al mondo. Questo sarebbe un gesto d’amore, questo è un gesto d’amore.
So bene che enunciare con chiarezza l’effettiva realtà del generare ed essere generati è un atto disdicevole, di fronte al quale si erge in tutta la sua limpida ferocia l’inesorabile bisogno della procreazione; inexorable – appunto – come il rapporto filiale che emerge in questo film e che ha nella sua scena conclusiva il degno e inevitabile esito di ogni genitorialità, esito metaforico, simbolico, psichico o empirico che sia.

Antinatalismo. Storia e significato

Antinatalismo. Storia e significato di una filosofia radicale
con Sarah Dierna
in Dialoghi Mediterranei
n. 64, novembre-dicembre 2023
pagine 56-75

Indice
-Filosofia e disincanto 
-Sullo stare al mondo
-Antinatalismo: una saggezza antica
-Antinatalismo e religioni
-Illusioni e impulsi
-Egoismo parentale
-Filantropia
-Sine ira et studio

Il saggio che ho scritto insieme a Sarah Dierna – specialista dell’argomento e senza la quale non avrei potuto tentare una sintesi così ampia – è uno dei testi che ritengo più importanti e significativi nel percorso di pensiero mio e, in questo caso, dei miei allievi. Le ragioni dovrebbero emergere dal testo stesso, del quale uno degli studiosi che abbiamo citato, Théophile de Giraud, ci ha detto che «c’est probablement le meilleur article que j’ai lu sur l’antinatalisme». Siamo ovviamente felici di questo riconoscimento.
Aggiungo l’incipit del saggio, che indica le ragioni per le quali abbiamo cercato di pensare la nascita e mediante essa il significato del vivente.

«Svolto con rigore, il lavoro filosofico consiste anche nella analisi critica dei tabù, di qualunque tabù, non necessariamente per rifiutarli ma per comprenderne origine, logiche, obiettivi. Uno dei tabù più pervasivi riguarda il silenzio sull’etica della procreazione, non intesa come bioetica volta ad analizzare le modalità – naturali, artificiali, ibride, storicamente situate – del procreare ma proprio la legittimità etica di farlo. Che il solo sollevare una simile questione susciti subito sorpresa, perplessità e rifiuto è appunto una conferma della natura pregiudiziale e nascosta del problema.
Come mammiferi siamo naturalmente indotti a lasciare dopo di noi i nostri geni. È questa la ragione prima e ultima dell’esistenza e del perpetuarsi dei viventi. Ma come in molti altri ambiti siamo anche in grado di porci degli interrogativi su ciò che sembra indiscutibile e ovvio. Il lavoro filosofico serio consiste, lo ripetiamo, anche e specialmente nel sottoporre ad analisi l’evidenza. Dalle questioni ontologiche a quelle cosmologiche e religiose la filosofia in Grecia è nata in questo modo.
Porsi in modo serio la questione della legittimità etica del procreare comporta certamente una serie di concetti e di conclusioni che turbano quanti ritengono che nulla quaestio si ponga su tale tema. E invece sono tante le domande e le riflessioni che emergono dalla questione della nascita». 

Le arti

È uscito da qualche giorno il numero 29 (anno XIII, novembre 2023) della rivista di filosofia Vita pensata. Numero dedicato alle arti (al plurale) con nove testi che affrontano sia tematiche teoretiche ed estetiche generali sia specifiche opere di letteratura, pittura, teatro, architettura.
Tra i contributi di argomento diverso segnalo l’ampio saggio di David Benatar (tradotto da Sarah Dierna) dal titolo Un argomento misantropico per l’antinatalismo; un testo che sono particolarmente felice di aver pubblicato anche per le ragioni indicate nell’editoriale. Quest’ultimo è firmato da un nuovo Comitato di redazione, che ringrazio per l’attento e rigoroso lavoro che ha dedicato a questo numero della rivista, così come ringrazio tutti gli autori dei saggi che la compongono.
Inserisco qui sotto i due link dai quali è possibile leggere la rivista sul suo sito o scaricarla integralmente in un nuovo formato pdf, che confidiamo renderà più comoda e funzionale la lettura. Aggiungo il testo dell’editoriale e quello di una mia breve analisi della mostra che Milano ha dedicato quest’anno a Bill Viola, la cui opera rappresenta una sintesi tra la grande arte del Rinascimento e le tecnologie contemporanee.

Antinatalismo

Sarah Dierna
Antinatalismo contemporaneo
in Dialoghi Mediterranei
n. 62, luglio-agosto 2023
pagine 473-483

Come di tanto in tanto accade, questo mese consiglio non un libro ma un saggio di rivista. Saggio dedicato a un argomento che mi interessa molto (come sanno anche gli studenti del corso di Filosofia teoretica dell’a.a. 2021-2022). È un tema davvero filosofico poiché va alle radici dell’esistere, delle sue origini, del suo senso e del suo finire.
Uno dei suoi massimi teorici è il filosofo sudafricano David Benatar. Ma insieme a lui, nel passato e nel presente, ci sono Peter Wessel Zapffe, Emil Cioran, Thomas Ligotti, Théophile de Giraud e numerosi altri (compresi Agostino d’Ippona, Leopardi, Kierkegaard e Schopenhauer).

Nel suo denso e limpido saggio Sarah Dierna analizza l’antinatalismo contemporaneo ricostruendone anche la storia ma soprattutto mostrandone la potenza argomentativa, tramite un’esegesi dei testi molto attenta e critica. Pochi di  questi libri e articoli sono tradotti in italiano; presentarli è dunque un altro merito del testo.
Consiglio la lettura di queste pagine, che si possono leggere:

Aggiungo qui l’indice del saggio e alcuni suoi brani.

-Antinatalismo antico e contemporaneo
-Animali consapevoli
-Animali non umani
-Conoscenza e redenzione

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L’ostacolo forse più grande per comprendere l’antinatalismo siamo noi. La difficoltà di pensare noi stessi come mai stati (never having been) senza considerare nello stesso tempo tutto ciò che con noi non ci sarebbe stato. Kurning lo ha considerato un punto fondamentale: «The consideration to never have existed, the idea of one’s own self as never having been! The absence of one’s very self, of one’s highly important personality on the world stage; the chair one sits on, the bed one sleeps in: empty». Pensare in questi termini richiede infatti un grande sforzo.

Se tuttavia ripercorriamo il cammino storico seguendo un altro itinerario, diventa praticabile, o quanto meno si può provare a saggiare, un nuovo percorso ermeneutico in cui l’antinatalismo antico e l’antinatalismo contemporaneo sono soltanto apparentemente distanti. Dove sarà dunque possibile, per dirla con Gadamer, una fusione d’orizzonti a partire dal fatto che entrambi raggiungono comunque la stessa inesorabile conclusione.

E tuttavia la coscienza ha bisogno di trovare un senso, di possedere una verità che garantisca all’unità psicosomatica un equilibrio, per questo inventa la luce e i colori, per questo traveste un impulso generativo alla procreazione nell’amor cortese, la lotta per la sopravvivenza nella Grande Guerra e rimuove il pensiero della morte travestendolo nella porta d’accesso per l’aldilà. 

In questo mi sembra più fecondo accostare la posizione di Zapffe all’antropodecentrismo di Leopardi in cui è l’animale a deridere e compatire l’umano. Nelle Operette Leopardi mette in dialogo un bue con un cavallo e un cavallo con un toro ma per irridere la specie umana; la natura con un’islandese per restituirla alla sua indifferenza. Alla fine infatti la vita animale non umana risulta essere sempre la sorte migliore mentre gli umani sono dipinti come gli infelicissimi sopra gli altri animali (Elogio degli uccelli), come coloro che non riuscivano mai a essere contenti e felici (Dialogo tra due bestie). Scontenti e infelici non perché siano una specie superiore anche nel dolore ma perché hanno contribuito alla loro frustrazione quando si sono attribuiti privilegi che non possiedono. Molte delle Operette hanno di mira proprio questo antropocentrismo.

A differenza delle correnti orientali o gnostiche, la liberazione – la vera liberazione – è una soluzione collettiva perché la negazione del singolo assume per Hartmann lo stesso effetto che ha per Schopenhauer il suicidio: si tratta del venire meno del singolo, non della specie. Ogni cosa che esiste in modo animato deve disperdersi. Solo così la volontà che sta al fondamento di ogni vita non potrà più continuare a esistere e cominciare ancora.

Cosmologia / Medea

Recensione a:
Aa. Vv.
Cosmos?
Numero 54 di Krisis, octobre 2022
Pagine 142
in il Pequod , anno IV, numero 7, giugno 2023, pagine 196-199

L’ipotesi dell’eternità della materia/universo è confermata dalle critiche sempre più diffuse e argomentate che va ricevendo il modello (ancora) standard del cosiddetto Big Bang, il quale delineerebbe una problematica singolarità, impossibile da comprendere e persino da studiare sulla base delle leggi conosciute e dei metodi di indagine scientifici. Il tentativo perseguito da più parti di unificare la relatività generale e la fisica quantistica ha tra le sue condizioni e conseguenze il superare questa singolarità, riaffermando «l’éternité du temps passé, éliminant ainsi la problématique notion théologique de ‘cause première’» (Luminet).
A fondamento delle cosmologie antiche sta l’ipotesi realistica fondamentale, quella che non fa dipendere l’esistenza e le modalità del cosmo dalle percezioni, azioni e calcoli di una sua infima e inconsistente parte: noi. Dismisura che invece sta a fondamento della interpretazione di Copenhagen della fisica quantistica. Davvero ogni idealismo così come «la pensée constructiviste s’est développée à partir du sophisme anthropocentriste (la proclamation de Protagoras selon laquelle ‘l’homme est la mesure de toutes choses’)» (Jure Georges Vujic).

In questo assai ricco numero del Pequod è stata pubblicata anche una analisi a più voci del mito di Medea e della sua messa in scena, con la regia di Federico Tiezzi, quest’anno a Siracusa. Ho avuto il piacere di scriverne insieme a Sarah Dierna, Marco Iuliano, Enrico Palma, Marcosebastiano Patanè:

La selvaggia passione: Medea 2023 a Siracusa
Pagine 177-184

«Medea si presenta intrisa da un afflato profondamente antinatalista. Alla maniera lucida, consapevole e ‘passiva’ – per usare la categoria di Lachmanová – dei Greci naturalmente. […] Nella tragedia l’antinatalismo traspare nei gesti e nelle parole di Giasone, della moglie, della Nutrice, del Pedagogo e del Coro ma trasuda insieme dalle sciagure stesse di cui i mortali sono vittime e facitori. […]
Così canta il Coro:

E affermo che tra i mortali/ coloro che non hanno mai fatto esperienza di figli/ e non ne hanno mai generati/ sono più felici di chi ne ha messi al mondo. / Chi è senza figli, poiché non ne ha esperienza, / non sa se sia gioia o tormento l’averne, / proprio perché non gli sono capitati, / e così sta alla larga da molte inquietudini. / Ma chi ha nella sua casa il dolce germoglio di figli, / costoro li vedo sfiancati dalle preoccupazioni per tutta la vita: / innanzitutto su come crescerli bene e come lasciare loro di che vivere. / Poi, non è sicuro se si diano tanta pena / per figli che non valgono nulla o per figli eccellenti. / E dirò anche di una sciagura che è la peggiore per tutti i mortali: / ammettiamo che abbiano di che vivere, e siano nel fiore della giovinezza, e siano eccellenti. / Ma se così decreta il destino, / ecco che arriva la Morte e si avvia giù nell’Ade, / trascinando via i loro corpi.
(vv. 1090-1111, trad. di Angelo Tonelli)

E allora ‘tre volte meglio stare in armi che partorire anche una volta sola’ (v. 251, trad.  Tonelli). Solo in Euripide capita di leggere con così tanta onestà la sciagura insita nell’atto del generare che non si lascia intenerire dalla tenera prole già venuta al mondo».

La recensione e l’articolo dedicato a Medea sembrano una conferma di quanto affermato da David Herbert Lawrence nel 1931 in Apocalypse, citato da Ernesto De Martino nel suo capolavoro sulle apocalissi culturali:
«Forse la più grande differenza tra noi e i pagani sta nella diversità di rapporti col cosmo. Per noi tutto è personale. Il panorama che possiamo contemplare e il cielo non servono che da delizioso sfondo per la nostra vita personale. Persino l’universo della scienza si riduce a noi a poco più che una mera estensione della nostra personalità. Per il pagano il paesaggio e lo sfondo personale erano dopo tutto indifferenti, ciò che era invece reale era il cosmo. L’uomo viveva nel cosmo, consapevole della maggior grandezza del cosmo nei suoi confronti. […] Il nostro sole è cosa assai diversa dal sole cosmico degli antichi, è qualcosa di molto più banale. Noi possiamo vedere ciò che chiamiamo sole, ma abbiamo perso per sempre Helios e ancor più il grande disco dei Caldei. […] Questa è la nostra principale tragedia. Che cos’è il nostro meschino amore per la natura – la natura cui ci si rivolge come a una persona – al paragone di quel sublime vivere-col-cosmo ed essere-onorati-dal-cosmo!»
(La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi 2019, pp. 379-380).

Volontà di sapere

Teatro Greco – Siracusa
Edipo Re
di Sofocle
Traduzione di Francesco Morosi
Scene di Radu Boruzescu
Con: Giuseppe Sartori (Edipo), Rosario Tedesco (capo coro), Graziano Piazza (Tiresia), Paolo Mazzarelli (Creonte), Maddalena Crippa (Giocasta)
Regia di Robert Carsen
Sino all’1 luglio 2022

Pervaso dalla volontà di sapere, intriso della passione dell’indagare, ossessionato dal bisogno di fare luce. Così Edipo rovina se stesso e la propria casa. C’è qualcosa di estremo e arrogante in questa necessità di portare a evidenza ogni anfratto degli eventi. Un’esigenza di comprensione che si volge contro chi la nutre. Ma che è greca, profondamente greca. Uomini furono che vollero conoscere. E conobbero. E che di fronte a ciò che avevano appreso dissero parole talmente  chiare da essere sempre e ancora nostre, sempre e ancora vere nell’affermare che nessun umano potrà essere detto sereno sino a quando in lui pulserà ancora la vita (ὥστε θνητὸν ὄντα κείνην τὴν τελευταίαν ἰδεῖν / ἡμέραν ἐπισκοποῦντα μηδέν᾽ ὀλβίζειν, πρὶν ἂν / τέρμα τοῦ βίου περάσῃ  μηδὲν ἀλγεινὸν παθών, vv. 1528-1530).
Il Tempo che vede tutto apre infine gli occhi a Edipo; Apollo, dio crudele, lo invade della propria luce di conoscenza; Necessità fa sì che ciò che deve accadere accada al di là anche del silenzio e delle parole di Tiresia. Convocare il quale è stato il primo gesto del lento processo di agnizione di Edipo. Tiresia gli consiglia di rinunciare a sapere, Giocasta gli consiglia di rinunciare a sapere, il vecchio servo che lo aveva tenuto in fasce gli consiglia di rinunciare a sapere. Ma Edipo, no. Edipo indaga. Si dichiara persona estranea ai fatti che condussero alla morte di Laio. Estraneo, lui. Si dice alleato del dio Apollo e del morto Laio. E fa luce. Una luce trionfale che gli regala un ultimo atto di gloria da parte della città che una volta ha salvato, un attimo intriso non a caso di Evoè, il canto vittorioso di Dioniso (è questo il momento colto nell’immagine in alto). Una luce straziante che lo farà tornare in scena completamente nudo, intriso del sangue dei propri occhi e di quello di Giocasta suicida.
Appaiono e scompaiono i sovrani -Edipo, Creonte, Giocasta- lungo l’alta scalinata che dalla piazza di Tebe ascende all’alto della reggia e degli dèi. Piazza dentro la quale appaiono nella scena iniziale i cittadini durante una processione luttuosa e fatta di nero. Processione scandita da una cadenza dell’oltre, l’oltre della morte e della vita.
Una scenografia essenziale e suggestiva, dunque. Nient’altro che la piazza e la grande scala. Per dare spazio alla voce di Sofocle, ai corpi degli attori, alla meditazione su quanto sia preferibile non essere nati e, una volta nati, morire bambini, come Edipo afferma e desidera al culmine del proprio destino.
Quest’uomo, questo re, non ha alcuna colpa, perché non sapeva di essere l’omicida di Laio e lo sposo di sua madre. Ma l’intenzione è un concetto che per i Greci conta ben poco. A pesare è il danno oggettivo che l’agire di Edipo ha inferto alla città, il danno oggettivo che chiunque può infliggere. È a motivo del danno che si deve essere neutralizzati, non della volontà di far male o far bene. La volontà è semplice e insindacabile psicologia, il danno è una realtà oggettiva.
Questo, alla fine, la luce portata da Edipo ci fa vedere. Nella volontà di sapere, per quanto dolorosi risultino i suoi esiti, splende in ogni caso la libertà dei Greci, la loro intelligenza rispetto alla bêtise contemporanea, alla stupidità di ogni sistema etico-linguistico che assurga a valore assoluto, che proibisca le parole e i loro significati a volte terribili. Stupidità dall’esito fatale: «Non ti accorgi che il principale intento della neolingua consiste proprio nel semplificare al massimo la possibilità del pensiero? Giunti che saremo alla fine, renderemo il delitto di pensiero, ovvero lo psicoreato, del tutto impossibile perché non ci saranno parole per esprimerlo. […] Ortodossia significa non pensare, non aver bisogno di pensare. L’ortodossia è non-conoscenza» (Orwell, 1984, trad. di G. Baldini, Mondadori 1989, pp.  56–57). Un’ortodossia che per i Greci è soltanto tenebra.

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